Precari, per cominciare…

Una delle accuse che ci rivolgono più spesso, che è anche la più scontata, poggia sull’assunto che lo scrittore sia precario per definizione – è insomma l’idea un po’ romantica dell’artista a prevalere, col corollario di un immaginario beat (o maudit) ormai digerito e assimilato, al punto che del ribelle è rimasta soltanto l’apparenza un po’ freak: l’idea cioè che lo scrittore sia un precario della vita, molto spesso per scelta, che dilapida tutto in nome del sacro fuoco della scrittura. Immagine un po’ comica, a dire il vero, se poi si prova ad esempio a contestualizzare la sua figura nella cameretta a casa coi propri genitori; o addirittura triste, se lo si pensa intento, egli scrittore, a costruirsi quel minimo di stabilità che ha già pensato qualcun altro a dilapidargli. Leggi il resto dell’articolo

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La società dello spettacaaargh! – 19

[La società dello spettacaaargh! 1 2345678910111213 1415161718]

Ciao Matteo,

questo meditare sulle vie della cancellazione e sulla loro praticabilità mi ha fatto venire in mente Nessun paradiso (Round Robin 2011) di Enrico Piscitelli. Conosci la storia: nell’Italia della “dittatura democratica”, all’indomani dell’assassinio del Capo del Partito, un dissidente si reca a Venezia per incontrare il coordinatore della rete d’opposizione al regime, e a Venezia gli accadono due cose: si innamora e scopre la verità sul potere, e la verità non è bella, almeno per il lettore.
A un primo sguardo, complice la bandella («il Potere è inevitabile», «le rivoluzioni sono impossibili»), lo spirito del romanzo appare rassegnato, negativo: una sorta di atemporalità1 fa pensare a una natura umana sempre uguale, mai progredita e destinata a non progredire mai; e poi c’è una Venezia che la avverti sempre postuma e spoglia, fatiscente; e c’è un protagonista i cui pensieri sembrano poggiare sempre su un sentimento di vanità di tutte le cose. Dunque in Nessun paradiso c’è l’opposto della rivoluzione, del tempo come forza progressiva, dell’esaltazione della vita. Qualcuno potrebbe giudicarlo reazionario, o nichilista2. Eppure non fa questo effetto. Anzi, quando l’ho terminato, non solo mi sentivo bene, più pulito, e con le idee più chiare, ma addirittura con più speranza e con un maggiore controllo sulla realtà. Mi sono domandato perché. E penso di aver trovato la risposta. Leggi il resto dell’articolo

Il futuro della scrittura collettiva

Vorrei partire dicendo che lo spunto per queste considerazioni nasce dalla conoscenza del progetto SIC di Magini e Santoni. In base a quanto m’è sembrato di capire di quel che ho potuto leggere, ho avuto l’impressione che il SIC si regga sui propositi di due (o chissà quante) persone preparate e appassionate: a differenza di molti altri progetti di scrittura collettiva attualmente in circolazione (spesso solo sussiegosi, tirannici o confusionari: decisamente scrittura truffaldina), Magini e Santoni hanno messo a punto un sistema logico, trasparente e – dote rara e preziosa – ragionevole. Posso non condividere i loro scopi e i loro presupposti, ma non posso non apprezzare la “gentilezza” con cui il SIC è strutturato: ognuno può, seriamente, contribuire grazie alla oggettività della “scheda”. E questo a me pare un contributo genuino alla scrittura. Trovo altresì che la presenza di un Direttore Artistico che esoneri l’autore dalla “integrabilità” sia salutare e azzeccata come soluzione organizzativa, mi preoccupa solo la sua importanza nodale: da lui dipendono davvero troppe cose, è lui che decide se un’idea è buona o no, quindi c’è da sperare solo che sia capace e intelligente. Infine è ottimo che ogni scrittore possa trovare il proprio utilizzo in base alle sue peculiarità. Stupendo. Detto ciò proverò a occuparmi, nei limiti di spazio e capacità, di questo argomento più in generale. O, meglio, a fare delle domande a cui non ho trovato una risposta. Leggi il resto dell’articolo

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IL RITORNO DAL VIVO DEGLI SCRITTORI PRECARI

FACEBOOK, UN LIBRO DI FACCE /4

Iniziamo da un concetto lacaniano: noi siamo sintomo della società, a bagno nella struttura. Ergo, tutto ciò che siamo è sommatoria di input esterni, memi che si diffondono attraverso la grande maglia della comunicazione.

Con la Rete, ovviamente, i memi si diffondono ancor più velocemente, di solito per imitazione. L’imitazione di un comportamento porta alla diffusione del comportamento stesso, sia che si tratti di un aybabtu in engrish sia che si tratti d’un marchio.

Questa diffusione continua di memi in un regime di ipercomunicazione è destinata alla nuova tipologia antropologica umana, ossia soggetti molto empatici e – di conseguenza – molto emotivi (ritorniamo agli scripta che diventano verba), disposti a inebriarsi continuamente di suggestioni, a vibrare a ogni accenno di desiderio.

Questi “ipervibranti” sono il pubblico adatto al marketing – porno, viral o guerrilla che sia. Somigliano a una matassa di sensori che suonano a ogni cadere di foglia, cercano nelle scene decurtate al final cut refoli di sentimenti e di nuovi input, accorrono in massa nella piazza mediatica per far rimbalzare la palla su ogni muro bloggerico non appena i guerriglieri del marketing intessono un finto scoop per pubblicizzare qualcosa.

In Rete, siccome vige il fenomeno dell’autonomia e della virtualità, diventiamo tutti – volenti o nolenti – dei memi e, siccome la maggior parte dei memi di Internet è un ipervibrante, automaticamente si tende al fenomeno tipico del meme: la deriva memetica, ossia il cambiamento che il meme subisce rimbalzado qui e là. Sono pochi i memi a godere dell’inerzia, la maggior parte di modifica come una sfera di plastilina che cade da un balcone. Ecco come i gusti delle persone, ormai tramutate in memi, si adattano alle esigenze del mercato.

L’imitazione e l’emotività diffondono i memi, con un piccolo aiuto dai nostri geni, che a quanto pare funzionano come “sistema mirror”: impariamo a imitare ciò che ci sembra buono, non che lo debba necessariamente essere, basta che ci sembri tale, dunque tutto ciò che ha carisma riesce a farsi imitare, quindi a diffondersi sul diffusore di memi per eccellenza, Internet. Casi scolastici della psicomemetica: gli slogan, le figure meschine dei politici, i tormentoni, le canzoni, gli status symbol.

Gli ipervibranti vivono di tensioni desideranti, quindi il pornomarketing è l’ideale per far proiettare tale tensione dai corpi ai marchi degli oggetti circostanti: è tattica diffusa creare video porno amatoriali (i più cercati in rete) al solo scopo di rendere visibili alcuni marchi. Il pornomarketing (che va, appunto, dal porno casalingo all’ammiccamento di una ragazza mangiando un gelato) è la forma di viral marketing più efficiente e conosciuta, la più studiata dagli esperti del guerrilla marketing.

Costoro, ex o ancora militanti di gruppi underground sovversivi o anarco-insurrezionali o vattelappesca, attraverso l’inventiva sempre all’erta e la creatività immutata e sperticata dello squalo culturale, riescono a insinuarsi non senza genio degl’ipervibranti coi mezzi che abbiamo su menzionato. Anche i test di Internet, le banche date dei motori di ricerca, il numero di clic ricevuti da determinati articoli altro non sono che metodi per indicizzare i consumatori e capire dove battere.

Il sistema del guerrilla marketing sembra complesso e innovativo, ma è semplice e non particolarmente originale: in realtà si tratta di applicare il situazionismo al marketing, così come Guy Debord applicò il marxismo allo spettacolo (non sono forse forme di détournement entrambe?). Se si rapporta la loro opera nella piazza mediatica a quella dei situazionisti nelle piazze reali è possibile riscontrare numerose similitudini: l’idea dello spettacolo come rappresentazione della società e quindi l’idea di sopprimere la contemplazione dello stesso (la pubblicità in video è stantia), l’abilità nel creare “situazioni” mediatiche (i finti scoop), il superamento dell’arte in senso classico – accusata di sclerotizzare e reificare l’esperienza – per il recupero della vita vera (i situazionisti volevano quella fisica, qui ci sta bene anche la vita vera di Second Life).

Ma cosa rende questo metodo vincente? Perché il situazionismo non riuscì a interrompere il flusso ininterrotto dello spettacolo inebetente e il guerrilla marketing sì?

I guerriglieri sono riusciti nell’opera borgesiana di distruggere la fede del consumatore nel referente, di smontare le certezze di chi guarda un film o una foto o fa un test su FB, d’annullare il “discorso ininterrotto” che Debord denunciava ne La società dello spettacolo.

Per capire come hanno fatto dobbiamo ricordarci di quanto abbiamo già detto riguardo a Facebook: la differita della risposta. Mentre per i mezzi di comunicazione canonici c’è la necessità della presenza del ricevente (l’attenzione paranoica di cui si è già detto), nei sistemi più recenti della Rete la presenza del ricevente non dev’essere continua.

Con questa differita siamo all’aurora di un importante cambiamento: quello che finora è stato l’ipervibrante potrebbe trasformarsi nel nuovo tipo antropologico dell’“ipsoverso”.

Facendo per un momento riferimento alle ricerche di Mario Perniola, potremmo dire che il corpo dell’ipervibrante è un gomitolo di emozioni, che la sua vita si svolge in funzione di riti privi di miti (se esiste un rito, ma non un mito di riferimento, basta porre al posto di quest’ultimo una sequenza di marche a rotazione per ottenere una moda o una diffusione memetica) e che la sua conoscenza cerca ancora di arrivare a una meta (cioè il rassicurante pianerottolo di FB).

L’ipsoverso ha già fatto tesoro della crisi della dialettica, sa navigare abilmente in un mare di opposti e arriva all’accettazione dell’enigma insolvibile. Ha smesso di vibrare all’unisono col mondo fittizio dei media, perché niente in quel mondo è inequivocabile, ha preso a vagare in se stesso alla ricerca delle proprie pulsioni, le uniche che – in un mondo dove tutto è volatile e arbitrario – contino davvero qualcosa.

 

Antonio Romano

FACEBOOK, UN LIBRO DI FACCE /1

Secondo Time, l’uomo dell’anno 2010 è Mark Zuckerberg, il ragazzo che ha inventato l’unica cosa che anche i tecnodiffidenti utilizzano: Facebook.

Molte persone non riescono ad avvicinarsi alla tecnologia perché ne hanno paura e ne hanno paura perché non la conoscono. Non si tratta di persone stupide o particolarmente retrograde, piuttosto di persone non compatibili col meccanismo della Rete. In effetti le proprietà di questo meccanismo sono, per alcuni aspetti, davvero singolari.

Una delle quattro proprietà principali della Rete è la memoria.

La Rete conserva memoria di tutto, non è composta di verba ma di scripta, tutto “rimane agli atti”. Il problema è che questo modo di scrivere si avvicina, per emotività e velocità, più ai verba che agli scripta e tutti sappiamo quante sciocchezze dette a voce poi, a vedersele davanti per iscritto, farebbero arrossire. Questa “ipermemoria” conserva tutto ciò che scriviamo, tutto quello che digitiamo velocemente sulla tastiera con la leggerezza tipica della chiacchiera, in sostanza tutto ciò che ci passa per la mente viene fissato da qualche parte. È come una colossale intercettazione dei nostri pensieri: stati d’animo, battute di spirito, osservazioni finiscono nero su bianco nel cyberspazio, spesso senza il loro contesto originario, e così enucleate diventano tutt’altra cosa.

Un’altra delle proprietà principali della Rete è la velocità.

Questa proprietà nasce da tre caratteristiche ben precise della Rete stessa, che sono: multimedialità, orizzontalità e immediatezza.

Se siamo sul sito dell’ANSA a leggere un articolo sul premier islandese, grazie alla multimedialità, potremmo finire sul sito della tv russa a vedere un filmato o su quello della BBC per guardare delle foto o su quello della CNN per sentire una registrazione: non c’è più un solo documento da visionare, ma una catena di documenti visionabili che si legano tra loro tramite link.

Il fatto che i documenti siano fra loro collegati e che nella Rete non ci sia una graduatoria dei siti – se non quella dettata dai motori di ricerca – ci porta direttamente alla seconda caratteristica: l’orizzontalità non è altro che la tipica assenza di gerarchia del materiale di Internet. Non ci dobbiamo arrampicare per 1500 metri su una montagna per avere una stella alpina, ma “navigare” o “surfare” in un mare in cui tutto è al livello del pelo dell’acqua pronto a essere cliccato. La Rete è un oceano dove ci sono solo isolette collegate fra loro da un numero indeterminabile di canali: spetta a me decidere dove andare, perché la Rete non m’impone una salita ai 1500, ma solo una navigazione della rotta incerta.

Ma quanto tempo si perderebbe a girare questo sterminato arcipelago? Infinito, se non fosse per l’immediatezza del meccanismo, che consente di muoversi in “tempo reale”: invio una mail in Australia e in un secondo è arrivata, cerco la biografia di un attore e in men che non si dica è davanti a me, clicco su una clip di Youtube e immediatamente inizio a guardarla. Questa navigazione fulminea, però, ha bisogno di alcune condizioni: i contenuti devono essere scaglionati in capoversi per essere più leggibili, i post reperibili attraverso i tag per risparmiarsi la lettura sommaria di tutto, le frasi senza troppe subordinate o congiuntivi per non essere troppo impegnative, i siti “accessibili” e intuitivi, i colori accattivanti e allo stesso tempo riposanti, etc. Tutto, dall’ideazione di un contenuto alla sua pubblicazione on-line, viene semplificato per essere creato e fruito più velocemente possibile: è l’unico vincolo che il meccanismo richieda. Anche per questo postare qualcosa ragionatamente diventa difficile, perché mentre navigo voglio disporre subito dei contenuti, quindi i contenuti devono essere postati altrettanto velocemente: ecco come gli scripta diventano verba e possono diventare imbarazzanti.

Queste tre caratteristiche sono tutte menzionabili come velocità: da un media all’altro velocemente, da un sito all’altro velocemente, dal mio cervello al web velocemente.

Terza principale proprietà della Rete è la virtualità.

Per virtualità bisogna intendere l’esistenza di uno spazio che in realtà non è uno spazio, ossia di un luogo che sopprime tutti i problemi collegati col mondo fisico: in Rete non esiste la distanza, la Cina o l’Ungheria sono ugualmente vicine, parlare con un pakistano è facile come parlare col mio vicino di casa, tutto è a portata di clic.

Addirittura, per chi naviga sistematicamente, la vita on-line è molto più ricca e completa di quella reale. Quest’ultima vive di routine e regole precise, quella virtuale è imprevedibile (le rotte incerte) e informale (la velocità non può perder tempo in convenevoli). La vita in Rete è vertiginosa perché attraverso il modem tutto il mondo entra in una stanza: pur essendo irreale non smette d’essere autentica, è finta ma viva. Come tutte le fantasie è impalpabile e coinvolgente.

Quarta principale proprietà della Rete è l’autonomia.

Sul concetto di autonomia, come su quello di virtualità, bisogna intendersi. Autonomia significa darsi delle proprie leggi, cioè delle proprie regole e delle proprie parole d’ordine, vivere in base a quanto diciamo noi stessi e non in base a quello che dicono gli altri. Chi è autonomo è Demiurgo di se stesso.

L’esempio più eclatante di autonomia è il nickname, un’identità creata da noi stessi. Non siamo più come gli altri ci vedono (cosa tipica della vita reale), ma siamo come vorremmo essere: il profilo – che fa capo al nick – può diventare tutto quello che vogliamo, possiamo costruirlo su quello che desidereremmo essere, diventa lo specchio deformante in cui somigliamo al nostro ideale. La menzogna è facile in Rete perché la virtualità salva dalla realtà e se si pesa cento chili, ma sul profilo si scrive sessanta, per tutto il web si peserà sessanta e nessuno potrà negarlo perché nessuno è lì a guardare.

Possiamo mentire, d’accordo, ma non dobbiamo sottovalutare la memoria del sistema: se scriviamo in un sito che la nostra taglia è 56 e il giorno dopo, su un altro sito, scriviamo che pesiamo sessanta chili il sistema non lo dimentica e ci smaschera. Il bugiardo deve avere buona memoria nella vita reale, ma in Rete deve averla ottima. Solo a questa condizione l’illusione che creiamo può reggersi.

A questo punto poniamoci di nuovo la domanda: perché alcuni non sono compatibili con queste quattro caratteristiche?

La risposta che potremmo dare è la seguente: perché ognuna di queste porta con sé un paradosso.

Sembra una cosa da niente, ma un paradosso è come il pisello sotto il materasso della principessa: pochi se ne accorgono, ma quei pochi non riescono a far finta di niente.

Il paradosso della memoria è che, anche se scriviamo come se stessimo chiacchierando per strada, tutto rimane. Non conta cosa diciamo né come lo diciamo né se vogliamo che rimanga: resta e basta. Quindi la nostra volontà di conservarlo non conta. Una memoria simile è inconcepibile per un essere umano perché sopprime completamente il concetto di tempo: ciò che è stato detto anni fa è reperibile come se fosse stato detto ieri.

Il paradosso della velocità è che ha cambiato la natura del mezzo scritto: nato per conservare un pensiero ragionato si è trasformato nell’espressione dell’emotività. Prima lo scrivere comportava una mediazione razionale, una volontà precisa, un controllo su ciò che veniva detto; ora si tratta d’un getto di pensieri quotidiani, spesso non ponderati, spesso molto emotivi. Scritto e parlato, in Rete, non si distinguono quasi più e ciò influenza anche l’uso della lingua scritta al di fuori del web. Così come non si distinguono più i luoghi, perché grazie alla velocità lo spazio non esiste più.

Il paradosso della virtualità riguarda la capacità di coinvolgimento di una cosa finta. C’è senza esserci. È come immaginare una stanza: proprio perché non esiste nella realtà, ma solo nell’immaginazione può contenere qualsiasi cosa, contiene ciò che non si può (o non si vorrebbe) contenere. Non è un caso che il web sia definito “amplificatore”: si pensi all’eco che può produrre una stanza infinita.

Il paradosso dell’autonomia, infine, riguarda due aspetti della psiche umana. Il primo è quello della creazione, perché grazie al nickname creatore e creatura coincidono; il secondo è quello del narcisismo, che viene esasperato perché, se Narciso poteva distrarsi senza che nulla cambiasse, chi mente su se stesso in Rete dev’essere costantemente concentrato per impedire che lo specchio deformante si sconti con la dura realtà e vada in pezzi uccidendo la finzione. In Rete chiunque può giocare a essere quello che vuole (si pensi a tutti quelli che, prima di fare una strage, si filmano e si mettono su Youtube), ma per continuare a esserlo deve mantenere un’attenzione quasi paranoica.

Antonio Romano

La critica letteraria spiegata ai giovani

«Noi giovani vogliamo leggere i libri giusti contro il sistema».

Allora fatevi consigliare dai rockettari, che notoriamente hanno ottimi gusti letterari, di solito orientati verso il fantasy e l’horror. Almeno, i rockettari seri. Poi ci sono i rockettari melodici, e poi, in fondo ma proprio in fondo alla lista ci sono i rockettari melodici italiani, per intenderci i fan di Ligabue o di quell’altro lì, che fa i video con gli elicotteri fregando le canzoni ai gruppi inglesi e americani per devastarle, o ammucchia palate di miliardi cantando della droga e della figa, o nel delirio di onnipotenza si veste come Bono.
Poi succede che ammucchiati i miliardi parlando di fighe, e nel frattempo ridottosi il paese allo sfascio (non certo per colpa sua), quel rocker melodico vuole devolvere dei soldi a una causa. Come causa da difendere sceglie lo sfascio della cultura, mica pizza e fichi. Così facendo, il benefattore delle patrie lettere si compra anche la stima di chi lo disprezza da sempre.

«Eh, ma io ascolto i Linkin Park».

Fai bene. Mentre gli ultimi elementi architettonici che decorano le facciate delle nostre illustri università crollano sulla testa di voi studenti, e si evacuano le aule perché i pavimenti sono pericolanti, e le folle di vostri docenti a contratto si portano i termos di caffè da casa perché con 300€ a modulo col cazzo che ci scappa al bar, succede che l’esercizio della critica letteraria – come molte altre discipline – si trovi lievemente in difficoltà.
Così il giovane… ehm… il critico letterario si esaspera di avere come interlocutori dei celebrolesi centenari che trovano molto onorevole resistere all’impatto dell’intonaco sulla testa e urlano il loro dolore nel girotondo, e se ne fugge in Rete. In Rete trova molti transfughi come lui, nascono alleanze, si fanno riviste, si parla molto e si fa anche un sacco di slalom fra i lettori medi che non vogliono accademici fra i coglioni, molto giustamente peraltro. La Rete diventa la striscia di Gaza. Poi Zuckerberg ha un’idea geniale: facciamo un coso dove la gente incontra i vecchi amici e se ne fa di nuovi, ci mettiamo anche le tazze di caffè e tè virtuali, così il critico a 300€ al semestre risparmia anche sul termos. Il resto purtroppo è storia.

«Guarda che io facebook lo uso per le cause».

Non discuto. In Italia abbiamo molti motivi per essere tristi, però ne abbiamo uno per essere veramente orgogliosi, e non lo dico con ironia: abbiamo alcuni (pochi) scrittori molto talentuosi, che un tempo il critico avrebbe definito “viventi”, ma ora si dicono giovani, anche se hanno fra i quaranta e i cinquanta anni. Questo perché in Italia l’alternativa è o giovani o morti. Solo a pochissimi è riservato il privilegio di essere morti viventi dotati non di diritto bensì aihmé di dovere di parola, come Napolitano. Non ditemi che offendo le Istituzioni, perché sono le Istituzioni che offendono me ogni giorno, quando non posso fare il mio lavoro, o voi quando entrate a scuola o all’università.

«Appunto, allora dimmi chi devo leggere per essere contro il sistema».

Aspè che ci arrivo. Anche i nostri scrittori davvero giovani, cioè quelli poco più che trentenni sono molto bravi, ma qua inizia la seconda parte della storia.
In Italia, come ovunque nel mondo, ci sono l’editoria e il mercato. Funziona così, in ogni parte del mondo: le grosse case editrici creano il best-seller e con gli introiti finanziano le opere di valore. Ovunque questo sistema funziona benissimo, e mette chiunque con qualsiasi retroterra culturale in grado di esercitare la pratica della lettura, che non fa mai male. A questa affermazione si sente spesso obiettare che piuttosto che leggere spazzatura è meglio non leggere affatto. Non sono d’accordo, forse perché ultimamente frequento dodicenni, e noto che sono in grado di articolare un discorso con senso compiuto solo quelli che si sono letti la saga di Harry Potter per intero, invece di guardare la televisione. C’è una cosa nella lingua che si chiama vocabolario, e lo si rafforza solo leggendo, non ci sono cazzi. Benvengano quindi i best-seller se permettono anche a chi non ha strumenti culturali di imparare qualche parola in più, e di dare libero sfogo all’immaginario avvilito dalla quotidianità. Qua chiudo l’elogio del best-seller e apro la nota dolente.
In Italia, diversamente dal resto del mondo, esistono i premi letterari colonizzati dalle case editrici che se li accaparrano a turno. Siccome per l’italiano è fondamentale la marca, che è sinonimo di qualità, anche i libri devono essere di marca, ovvero avere vinto il Campiello o lo Strega. Senza il bollino d.o.c. un libro non è un libro. Uno scrittore senza bollino non è nemmeno uno scrittore, è come il finto Parma o il finto Grana. Sarà forse un insegnante sfigato e povero con ambizioni letterarie, perché uno scrittore vero vive della sua arte, e quindi deve avere il bollino, altrimenti è un fallito. Inoltre, è fondamentale che uno scrittore sia in grado di mantenere un livello di vita alto, perché il vero scrittore veste bene, con abiti di qualità, e quindi non può essere povero, sennò come fa a trombarsi le fighe dell’editoria? Se non fa palate di soldi con la scrittura, deve essere ricco di famiglia. Tutto ciò farebbe ridere se non fosse vero e quindi tragico, e spiega anche perché le scrittrici non hanno tempo da perdere nei dibattiti letterari, visto che lo passano a correggere a titolo gratuito le bozze di scrittori aspiranti al bollino, e se aspirano loro stesse al bollino, il loro tempo lo devono impiegare in altri esercizi con gli scrittori d.o.c. o meglio ancora coi piani alti dell’industria del best-seller, ché uno: si fa prima e due: si fa una buona azione, perché la grossa casa editrice con i loro best-seller finanzia le opere di valore.

«Tutto bello, ma noi giovani vogliamo sapere quali sono i libri da leggere contro il sistema».

Ok, ci arrivo, però metti via quel cazzo di I-phone. Siccome il libro non arriva ad avere il bollino se non è stato recensito da chi conta, allora è fondamentale che lo scrittore povero – cioè più o meno qualsiasi scrittore in questo paese – attiri l’attenzione del recensore. Nel campo della cultura di massa, in Italia nessuno ha più potere di chi è messo nella condizione di scrivere recensioni su quotidiani e riviste. E siccome il critico letterario, cioè chi ha seguito un percorso di studi che gli permette di esercitare l’analisi del testo…

«La che?»

…il critico insomma, come abbiamo visto è impegnato a schivare l’intonaco e i baroni mammuth nel mondo reale e i troll in quella virtuale, lo si può dare tranquillamente per estinto. Allora il recensore, cioè quello che anche senza percorso di studi e spessissimo senza sintassi adeguata è messo nella condizione di elargire consigli di lettura, è scambiato per l’invisibile critico letterario. In tutto ciò, la parola “filologo” è diventata un insulto: un ente senziente anomalo che si occupa di catabasi e non certifica i libri in vista del bollino d.o.c. è inutile.
È abbastanza noto che questo particolare periodo della storia d’Italia conta come caratteristiche principali il predominio politico dei finti fascio-secessionisti e del loro capo supremo, che si è fatto plastificare in vita in modo da durare più a lungo possibile. Non è molto noto invece il modo in cui questo predominio è stato raggiunto, quindi vale la pena ricordarlo. Nell’arco dell’ultimo ventennio si è smantellato il sistema educativo e lo si è rimpiazzato con quello televisivo, sicché voi ventenni vi siete formati al magistero di Mediaset. Le case farmaceutiche godono, gli psichiatri anche: vanno a ruba gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e il Ritalin. Nei blog letterari si discute da anni della funzione dello scrittore senza giungere ad alcuna soluzione condivisa. Si dice che è scrittore chi scrive qualsiasi cosa e pubblica i propri testi ovunque, su carta o Rete, non fa differenza. Si può concordare, ma ci sarebbe un’altra funzione dimenticata, cioè quella intellettuale, che consisterebbe nell’esercitare una critica serrata al sistema. Solo che gli scrittori sono così impegnati ad ottenere certificazioni d.o.c. che alla funzione intellettuale hanno sostituito la piaggeria più misera verso i recensori sponsorizzati dalla società dello spettacolo, e quindi spettacolarizzati a loro volta. Alla critica al sistema preferiscono il sex-appeal, di modo che i recensori possano suggerire a voi ventenni formati al magistero di Mediaset quali scrittori leggere.

«Hei, ma è tutto una merda. Vabbè tanto adesso inizia South Park e domani vado a Berlino».

Claudia Boscolo

La critica tra comunità e consorterie

Queste riflessioni nascono a margine dell’articolo intitolato “Per la critica”, firmato da Fausto Curi e pubblicato sul numero 2 della rivista Alfabeta2.

Nonostante si parli costantemente di crisi (intesa come penuria) della critica e della cultura, il nostro paese riesce lo stesso da anni ad alimentare un sottobosco ricchissimo di stimoli e di esperienze diverse, che con l’avvento di internet ha visto moltiplicarsi i canali attraverso i quali raggiungere non soltanto il proprio pubblico, ma anche chi opera negli stessi contesti, con la possibilità di articolare dei percorsi fino a pochi anni fa impensabili. Eppure, ciclicamente, nel nostro paese si sprecano i discorsi apocalittici sulla morte della letteratura o del cinema, tanto per fare un esempio, salvo poi verificare che queste parole vengono da chi, forse, non fa fino in fondo il proprio dovere, e si limita a scorgere una superficie (per quanto materia importantissima, visto che è quella che muove il mercato e che dunque non può certo sfuggire all’analisi degli addetti ai lavori) usata spesso come esempio per giustificare il predominio della quantità sulla qualità. E allora, se non sono i critici a scovare la “novità” (che, come vedremo, Fausto Curi, elenca tra i criteri senza i quali non si dà vera attività critica), il compito passa agli scrittori stessi, che proprio in rete hanno trovato un nuovo canale per far circolare i propri lavori – molto spesso attraverso forme paratestuali, che accompagnano e prolungano l’opera, aprendola al confronto diretto con i propri lettori (ancora più precisamente, quindi, tramite la proliferazione di epitesti autoriali, e a maggior ragione con l’avvento dei social network).

Fatte queste dovute precisazioni, mi pare di poter concordare con alcune premesse contenute nell’articolo di Fausto Curi, dove si parla appunto di una crisi della critica come effetto di una crisi della società (nella fattispecie quella italiana, è ovvio) e in cui si precisa

  1. che “non è il critico che conta, è la critica importante”;
  2. che “senza distinzione non si dà critica”;
  3. che “la critica è sempre di parte e soggettiva”;
  4. che è “la novità ciò di cui la critica deve andare in cerca”, ma sempre tenendo conto che “nelle arti la tradizione conta sempre, anche quando là si respinge, anche quando si crede di ignorarla”.

A lasciarmi perplesso, invece, sono piuttosto le conclusioni indicate nello stesso articolo.

Per Fausto Curi la critica si sarebbe spenta perché è venuta meno quella “battaglia letteraria” che ha caratterizzato “la cultura militante italiana negli anni Cinquanta e Sessanta”, ovvero perché è venuto a mancare “un dinamico rapporto fra la letteratura e la società”. Eppure, a giudicare dagli ultimi dibattiti (penso ad esempio al “caso Saviano” o al “caso Mondadori”, per non parlare del fiume d’interventi scatenato dall’uscita del saggio New Italian Epic di Wu Ming, o degli articoli seguiti alle proiezioni del documentario Senza scrittori di Andrea Cortellessa), sembrerebbe che a tutt’oggi non si possa parlare di una mancanza di partigianeria, anzi. Il problema della critica (non di tutta, ma di gran parte) mi sembra che consista piuttosto nella sforzo di evitare una “giusta misura”, nel vizio di prendere delle scorciatoie che hanno più a che vedere col sistema delle consorterie che col criterio di soggettività.

Tanto per cominciare, direi che si possono distinguere due tipi di critici che vanno per la maggiore: quello che per farsi notare stronca un’opera per principio, e quello che per non farsi nemici parla bene indistintamente di tutti gli autori (e questa regola direi che è valida in generale, non soltanto per l’ambito letterario a cui si riferisce Fausto Curi). Sono due modi speculari di farsi pubblicità, di rimanere per così dire “in vista” in una giungla intricata qual è quella del mondo editoriale, dove spesso l’opera diventa un presupposto per parlare di se stessi. Entrambi questi tipi di critici tendono di conseguenza a fare sempre i soliti nomi, quelli che ad attaccarli o a difenderli ne viene sempre qualcosa, per se stessi e per la consorteria alla quale essi appartengono. Si potrebbe definirla una critica a rotazione rapida, al pari dei libri sugli scaffali dei megastore, dietro ai quali si affretta a correre proseguendo per generalizzazioni. Se infatti andiamo a verificare, nella disamina della situazione letteraria si procede volentieri in astratto, anche quando abbiamo a che fare con quella critica che si autodefinisce più engagé. D’altronde, è lo stesso Curi a darcene un buon esempio quando c’informa che “cresce paurosamente il numero di coloro che scrivono versi” e che “la poesia abita ormai le piazze, non in senso metaforico, giacché non si contano le manifestazioni in cui poeti diversissimi l’uno dall’altro, di fatto uniformi, recitano in piazza i loro versi”. Ma a quali manifestazioni e a quali autori qui ci si riferisca, non ci è dato saperlo, né vengono fatti esempi dei tanti tentativi di portare la poesia e la letteratura in generale nelle piazze o in altri luoghi diversi dalle librerie: poiché qua c’è sì in gioco da una parte il rischio di ridurre il pubblico a una massa indistinta, ma dall’altra c’è il tentativo di conquistare degli spazi strategici, dove far vivere la parola scritta attraverso il confronto fra chi scrive e chi, ascoltando, viene magari invogliato anche a leggere – e qua gli esempi da fare, diversissimi per intenti e modalità dalle grandi manifestazioni a cui si riferisce con ogni probabilità Fausto Curi, sarebbero tantissimi.

Fatte salve queste precisazioni, mi sembra di poter dire che la critica più viva si ritrovi oggi proprio sul web, un mezzo che chi scrive su riviste e quotidiani vari ha snobbato per anni, per poi affrettarsi nel tentativo di colonizzarlo, ma senza sforzarsi di cambiare le proprie strategie e i propri regimi discorsivi. La rete, se si evita la dicotomia fittizia virtuale/reale, è un modello in grado di attivare un circolo virtuoso, le cui dinamiche funzionano tanto sul web quanto al suo esterno, e la cui finalità è in primo luogo quella di fare comunità. Non a caso, ai tempi di internet gli scrittori hanno ritrovato non soltanto un rapporto più diretto con il loro pubblico (che prende corpo, con modalità diverse, nei blog e negli incontri pubblici) ma anche un terreno di confronto tra loro stessi, chiamati di conseguenza a svolgere anche quella funzione critica che per Fausto Curi è “radicata in un obbligo sociale”, quello “di non lasciare soli, o, peggio, in preda al mercato, che ha tutto l’interesse a conservare quella solitudine, migliaia di lettori e di ascoltatori”. È in questa intersezione tra scrittori e lettori, mi pare, che si possano appunto ritrovare quei significati che appartengono alla radice comune di crisi e di critica, intese come movimento votato alla trasformazione. Una trasformazione, in ultima analisi, che la critica più tradizionale sembra rifiutarsi di voler vedere, e che è causa della sua stessa crisi, della sua incapacità di riflettere su se stessa e di darsi un programma, presa com’è nello sforzo di difendere con le unghie i propri territori, sempre più iperuranici, dai quali parlare e pontificare.

Simone Ghelli