Les nouveaux anarchistes. Atti intollerabili di disperazione a Bologna

Les nouveaux anarchistes. Atti intollerabili di disperazione a Bologna (Transeuropa, 2010)

di Piero Pieri

Il nuovo romanzo di Piero Pieri, raffinato scrittore e poeta della generazione post-tondelliana e docente universitario dal 1980, può essere paragonato a certi liquori, che sollecitano piacevolmente il palato per tutto il tempo che si ha il bicchiere alle labbra; posato il bicchiere, lasciano un senso di nausea… Il paragone mi sia perdonato, ma ad un testo cinico e spietato (per ciò che vi si narra) va fatta una critica per via di quelle immagini crude e situazioni rivoltanti che accadono all’interno del «mondo marcio e dorato dell’accademia» (p. 21). Ecco, dunque, un romanzo-dossier sulla fauna giovanile universitaria, rappresentata dall’autore nelle sue fragilità, precarietà, miserie. Les nouveaux anarchistes è il racconto di futuri abortiti, di generazioni fallite, di parti ideologici mai portati a termine, della nascita di un nuovo e possibile movimento anarchico-insurrezionalista.

La trama si snoda tra le vicende di un gruppo di amici, fuorisede a Bologna in via Fondazza: Renzo, assegnista al Dipartimento di Filologia moderna; Gian, studente fuoricorso del DAMS e pittore scadente; Elena, chiacchierata ricercatrice di Letteratura italiana; Carla, giovane studentessa innamorata di Paolo, associato di Sociologia della letteratura. I loro destini si intrecciano più di quanto loro immaginino. Prendendo come campione l’ateneo di Bologna, il romanzo smaschera un mondo deviato, corrotto e meschino, dove le varie forme di precariato generano disfacimento morale e scelte autodistruttive: droghe, stupri, delitti, suicidi e pratiche sessuali come compromesso o risarcimento. In una realtà che agonizza, fatica perfino ad affermarsi l’azione politica eversiva, perché il vuoto generazionale che caratterizza ormai una sempre più diffusa disperazione giovanile porta ad imitare sterili modelli passati (il ‘68 e il ‘77). La rivoluzione non può funzionare se coloro i quali manifestavano nel Sessantotto sono ancora ingombrantemente seduti sulle loro poltrone assieme ai loro inguaribili vizi: «la mediocrità galoppa in questa italietta di furbi e maneggioni» (p. 16); il prof. Simonetti «non ammette deviazioni dalla sua linea programmatica» (p. 19); «Lei lo sa che fine hanno fatto quelli del ‘77? È una generazione di cui non si sa nulla. Se ho ben capito non sono nei posti di potere» (p. 43). Pieri rivolge la critica più feroce al mondo in cui egli stesso lavora e lo fa senza peli sulla lingua: cattedre in cambio di sesso, sfruttamento dei precari senza garantire loro prospettive, alleanze strategiche in nome di ipocriti e convenienti giochi di potere. È la solita storia. Ci sono regole non scritte che vanno rispettate: «Cosa ti aspettavi, idiota? Questo è l’ambiente che ti sei scelto, gonfio e putrido come tutti i luoghi di potere» (p. 132).

La violenza nelle sue innumerevoli forme è la protagonista indiscussa del testo: attacchi di panico, malattie fisiche che fanno da contorno a nausee intime, maternità impossibili, stupri programmati alla vigilia delle elezioni per spostare a destra il voto, generazioni tradite nei sogni e nelle aspirazioni. La narrazione si evolve lungo tre quaderni di gramsciana memoria, intervallati da appunti operativi (intermezzi di riflessione politica e sociale), cartelli letti in chiesa (posti alla fine di ogni capitolo, si basano sulla provocazione polisemica della lingua e rivelano un sarcasmo pungente), file segreti ad uso interno sugli avanzamenti di carriera, mail, intercettazioni telefoniche, lettere mai inviate, blog. Les nouveaux anarchistes è un romanzo affollato di nomi e cognomi, di marche pubblicitarie, di luoghi pubblici e social network, di oggetti che metabolizzano i sentimenti dei protagonisti, di arredi che incarnano esemplarmente i destini di alcuni personaggi (la sedia, il lenzuolo). La trama è volutamente “torturata” e narra le vicende di un precariato intellettuale «ricattabile, incapace di immaginare il futuro, costretto a regole del gioco mutevoli e comunque inaffidabili» (definizioni dello stesso autore). Come dire, che la strategia della tensione si percepisce già prima che i sassi diventino coltelli. Gian e Renzo vengono arrestati e picchiati dalla polizia perché sospettati di spedire pacchi bomba in Sardegna. Poco importa che non sia vero; dopo qualche mese di carcere verranno liberati. Ma la fine di ogni illusione è ormai certa. Nessuno si salva: «le università non vanno riformate, non vanno ricostruite da zero, non vanno neanche rivoluzionate. Le università vanno fatte brillare» (p. 133). La voce narrante si svela nel secondo quaderno ed esce allo scoperto soltanto alla fine del romanzo, ma nei suoi appunti operativi indica alle generazioni future la strada da seguire proiettandosi «istantaneamente nell’era post-apocalittica», quando tutto sarà saltato in aria.

Vale la pena soffermarsi, per un attimo, sulle disavventure degli altri personaggi del romanzo. Microstorie e bozzetti umani ben tratteggiati nella loro inevitabile déchéance morale: Aurora Pace (matricola del DAMS calabrese con una malattia auto-immune), Dominique (prostituta equadoregna venuta in Italia per investire il suo capitale), il dottorino della Dozza (imbastardito perché perennemente rifiutato a causa del suo aspetto fisico), Rita Zamboni (la vera anarchica che commette un delitto).

Una scrittura travolgente, cinica e liquida, che ha la capacità di imprimersi a fuoco nella coscienza di chi legge. Il linguaggio è crudo perché, come si diceva in apertura, cruda ma tremendamente vera e attuale è la realtà che si mette in scena. Il sottobosco intellettuale non sta più a guardare. Il potenziale giovanile non può concretizzarsi in eccellenti ricerche di qualità o in sistemi meritocratici. Le randellate scientifiche fanno più male delle botte dei poliziotti. La potenza rivoluzionaria della giovinezza infila la strada della Grecia. Avreste mai pensato che la rivoluzione potesse nascere da un frustrato precario universitario? Io si…

 

Stefania Segatori

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La camera oscura

Una stanza. Al buio. Su una parete un foro, poco più grande d’un pollice, a un metro e mezzo da terra, suppergiù.

Due uomini si svegliano, indolenziti per la posa scomoda tenuta dormendo sul pavimento liscio e freddo.

La stanza si compone di quattro pareti nude, un pavimento come unica gettata di cemento e un soffitto alto, invisibile all’occhio umano. Oltre al foro. E l’oscurità.

È profonda, la prima voce che echeggia nella stanza. Decisa.

Senti un po’, ma quell’idea che hai esposto al consiglio comunale, l’ultimo, due mesi fa se non sbaglio, l’hai poi realizzata?

Quale dici?

Be’ non si va molto lontano. Hai già eliminato l’assessorato alla cultura. Hai tagliato i fondi fino ad azzerarli, l’ultimo festival patrocinato dal comune te lo ricordi? Quello con gli artisti per strada…

Si chiamano Buskers.

Proprio loro. Già quasi a costo zero, se escludiamo i contributi dei negozianti.

Il comune promuoverà alcuni corsi e attività fisiche, ginnastica, nuoto, cose così, già dal prossimo anno se non ci sono nuovi intoppi.

Sì, certo, certo, ma fammi finire. Dov’ero rimasto? Ah sì. Nessun assessore, nessuna iniziativa, zero fondi. Mi ricordo che dicesti, in quel famoso consiglio, che restava un ultimo passo. L’hai poi fatto?

Perché non avrei dovuto? Era in programma, andava realizzato prima possibile. I cittadini devono abituarsi a considerare il superfluo. E devono toccare con mano l’impegno politico contro gli sprechi.

Sì, certo, certo, conosco la campagna elettorale.

Allora cosa vuoi sapere?

Come hai fatto.

Direi nel modo più semplice, con una tassa sui libri in prestito.

Ma la biblioteca è ancora pubblica?

Certo. È un servizio fornito ai cittadini.

A pagamento.

Appunto. Come ti dicevo prima, si tratta di mostrare risultati contro gli sprechi.

Per ogni tipo di libro, c’è una tassa sul prestito? Da quelli per ragazzi ai testi universitari? Favole e romanzi? Poesie e poemi? Saggi e trattati? Fumetti e atlanti?

Tutto ciò che è superfluo si paga, caro amico. Questa è la crisi. Chi se lo può permettere, legge. Diversamente, si fa dell’altro. Non è difficile.

Hai ragione. Non è difficile.

Si zittiscono.

Restano così diverse ore.

Immobili. Al buio.

Uno dei due uomini, quello più basso dalla voce profonda, infila il dito dentro il buco nel muro. L’altro se ne accorge appena, chiude gli occhi e risponde rimanendo seduto a terra, braccia incrociate al petto.

E dei tagli all’Università che mi dici?

Niente. Andava fatto. Gli sprechi sono sprechi anche tra le menti più illustri.

Certo. Ma lo sono ovunque allo stesso modo, secondo te?

Non è questo il punto. Si tratta di semplificare e agire in fretta. La crisi c’è, la gente la sente, la politica non può esimersi dall’intervenire. I servizi essenziali devono essere garantiti sempre e comunque. Sanità, assistenza, scuola, sicurezza…

Fermati un attimo: scuola non è anche università?

Ovviamente. L’università però è un tipo di formazione volontaria. E come tale deve essere trattata. Se ti puoi permettere di laurearti, paghi e lo fai. Altrimenti no. Poi, anche all’interno degli atenei in parte sovvenzionati dalle tasse, in parte dai diretti interventi pubblici, si devono evitare abusi e sprechi.

Ad esempio?

Troppo personale. Troppi ricercatori, assistenti, precari che gravano sull’istituzione. Troppe spese da sostenere.

Ma agli studenti che insegna? Poi, come si insegna?

Non è questo il punto. Si tratta di abbattere gli sprechi e riconsiderare il superfluo, te l’ho già detto. Ti accorgi che mi fai ripetere sempre le stesse cose?

L’uomo più basso inspira ed espira rumorosamente. Si muove per la stanza nascondendo direzioni e gesti tra il buio persistente. Appena i rumori, lo tradiscono. I piedi a sfregare sul cemento. Quando riprende a parlare ha infilato di nuovo un dito nel muro, tra le rotondità del foro.

La cultura è superflua?

Non l’ho deciso io. Si tagliano i fondi, si ordinano riduzioni, eliminazioni, rinunce. Noi eseguiamo.

Ma le attività sportive semi private…

Che c’entra? Son cose per il corpo. Crisi o non crisi la gente ancora respira.

E gli stipendi dei politici? Gli appalti per edifici poi inutilizzati? Le sostituzioni di piazze e vie con ciottolati costosi…

Non confondere i piani emotivi con quelli prioritari. Ci sono delle gerarchie da rispettare, è semplice te l’ho detto. Prevede questo tagliare il superfluo. Poi senti, ci sono un sacco di giovani o meno giovani che si parcheggiano fuori corso e perdono anni di lavoro stando comodamente sulle spalle di chi provvede a loro. Poi magari neanche si laureano. E c’è un sacco di gente che di festival, rappresentazioni teatrali ed eventi culturali non sa niente, e sapendolo non andrebbe comunque. Per non parlare delle biblioteche, dai.

Sì, certo, certo. Magari anche sì però. A me sembra la solita generalizzazione di comodo. Tua figlia poi che fa?

Ha appena iniziato lettere moderne a Bologna.

E?

Niente, le solite cose. Tasse, libri, abbonamenti ai mezzi pubblici, mense. Fra cinque anni al massimo sarà tutto finito.

In sostanza investi sul suo futuro.

Ovviamente. Vedi quant’è democratico? Pagherò anche i libri in prestito, se mia figlia andrà in biblioteca. Nessuno spreco. E il superfluo a chi può.

Dal buco nel muro, che nel frattempo si è liberato del dito dell’uomo basso, entra una luce vagamente più chiara, filamenti a spezzare l’oscurità.

I filamenti raggiungono la parete opposta. Si fanno consistenti. La stanza assume contorni precisi. I due uomini si sbirciano, immediatamente consapevoli di corpi e proporzioni, sebbene ancora sfocati.

L’uomo rimasto seduto si alza in fretta, quasi trafelato.

Si avvicina al muro raggiunto dal pulviscolo luminoso passato attraverso il buco.

Non si capisce, cosa c’è scritto. Sembrano capovolte, le lettere.

Lo potrai chiedere a tua figlia, fra qualche anno.

E perché, scusa?

Io non lo so, tu nemmeno.

L’uomo rimasto seduto avvicina il naso al muro, alcune schegge di luce gli invadono la punta dell’orecchio, creano scintille passando attraverso le ciocche di riccioli color nocciola.

Non è una scritta. Forse è un’immagine.

Sarà il mondo fuori di qui.

Anche per quello dovremo aspettare.

La fine del Medio Evo?

Come dici?

L’uomo più basso ride sempre più forte. Duramente.

Niente. Continua a fissarlo. Forse c’è un’eclissi.

Perché dovrebbe?

Aristotele ci guardò un’eclissi. Iniziò così, in un certo senso. Dentro una camera oscura.

L’uomo rimasto seduto aspetta alcuni secondi. Rinuncia a un paio di risposte risalite dall’esofago direttamente in gola, poi finite erose da saliva e succhi gastrici. Probabilmente rispondere non serve, pensa. Basta aspettare dopo aver agito. Gli uomini parlano in continuazione, ragiona tra sé. Parlano, teorizzano, schiamazzano, criticano. Poi? Solo i fatti lasciano tracce. L’uomo rimasto seduto non ha dubbi, sa esattamente cos’è stato fatto e cosa ancora c’è da fare (in Italia, entro il primo decennio del nuovo secolo: è un sottinteso che lo sfiora appena, è di questo che si occupa l’uomo rimasto seduto).

Il passato non c’entra. È del presente che si occupano i vivi, conclude l’uomo rimasto seduto, ma non accenna a voler staccare gli occhi dal fascio di luce proiettato sul muro. In quello sfilacciamento dell’aria ci infila un dito. Tocca la parete. L’immagine gli lambisce la pelle. Ha un suo fascino, nota. Gli sembra di poterci entrare, di riuscire – anche nell’inversione – a vedere.

Da dentro la camera oscura.

Il buio tenuto fuori.

Fa meno paura?

Anche l’uomo più basso si avvicina al muro parzialmente illuminato.

Il fascio di luce respira. Si nutre dell’aria nera.

Le mani dell’uomo più basso si aprono, si fanno largo tra l’aria nera e le briciole luminose riunite nel fascio.

Non è difficile, ha detto l’uomo rimasto seduto, riconsiderare il superfluo. L’uomo più basso ricorda le parole sentite. Ha un moto di stizza che trattiene in corpo. Lo spazio sembra rimpicciolirsi attorno a lui.

Le mani carezzano l’aria, che non ha colore, in realtà.

È solo chiusa, respira a fatica, rantola.

Mentre le dita nodose si distendono, seguendone l’immobilità.

 

Dal 2009 in diversi comuni dell’Emilia Romagna con la rielezione del sindaco la figura dell’assessore alla cultura non è stata definita. In alcuni casi si è ripiegato facendo leva su ruoli assimilabili non ufficiali. Contestualmente, già dai primi mesi del 2010 i drastici tagli progressivi hanno imposto limitazioni evidenti alle feste paesane, le iniziative locali di tipo artistico in senso ampio, dalle semplici presentazioni letterarie fino alle rassegne cinematografiche e le sperimentazioni teatrali. Perfino i comuni dell’hinterland bolognese, rinomati per l’invettiva e le diverse iniziative culturali, sono stati costretti ad abbandonare festival, promozioni artistiche, scambi interculturali ed eventi vari laddove non sono intervenute decise sponsorizzazioni private. L’idea di fissare una tassa o dinamica affine sul prestito dei libri nelle biblioteche pubbliche non è finzione narrativa, bensì proposta che tutt’ora aleggia in talune amministrazioni comunali emiliane. Alcuni paesi compresi nel triangolo Modena-Bologna-Ferrara hanno già annunciato per il 2011 la non partecipazioni ad eventi provinciali consolidati come mostre, rassegne e concerti.

Ottobre 2010, mese statisticamente favorevole all’Alma Mater Studiorum del capoluogo emiliano – romagnolo (la hit parade delle migliori università colloca l’Ateneo di Bologna come la prima facoltà italiana al 174° posto, e nella QS World University Rankings 2010 le discipline umanistiche bolognesi si posizionano al 46° posto), è anche periodo complesso dove prosegue in tutt’Italia la c.d. ‘protesta dei ricercatori’.

Barbara Gozzi