Intervista multipla agli “scrittori precari” /5

Con questa quinta parte, termina l’intervista multipla a noi medesimi. Ne approfittiamo per ricordarvi che questa sera ci trovate alle 19.30 da Laszlo Biro in via Macerata, 77 (Pigneto – Roma) per una lettura “fuori dalle righe”. Con noi, Antonio Romano e il nostro intervistatore Carlo Sperduti. 

Tentativo parzialmente scorretto di seminare discordia (parte quinta – qui la quarta)

di Carlo Sperduti

Carlo Sperduti: Approva o disapprova i giudizi sottostanti su ognuno di voi e argomenta in breve la tua posizione (i giudizi sono miei e basati su letture volutamente disattente di alcuni vostri testi o su ascolti a mezz’orecchio di reading a cui ho assistito):

Sfogliando “Dio è distratto”, il primo romanzo di Gianluca Liguori, si ha l’impressione che l’autore voglia imitare a tutti i costi Kerouac, con l’unico svantaggio di non essere Kerouac.

Andrea Coffami: Disapprovo. Lui si sentiva già Gianluca Liguori.

Simone Ghelli: È vero, e aggiungerei che ha rischiato di rimetterci pure il fegato.

Gianluca Liguori: La verità è che a ventidue anni Kerouac mica scriveva come Liguori… e poi Kerouac giocava a football, mentre io facevo basket. Certo, entrambi abbiamo smesso in seguito ad un infortunio per poi immolare la nostra disperata esistenza alla Letteratura e tante altre bizzarre analogie biografiche, tra cui l’incontro devastante con Dean Moriarty e ciò che ne è conseguito. Comunque, su Dio è distratto c’è da dire che l’ho scritto che ero giovanissimo. Senza considerare che è stato pubblicato così come l’avevo scritto, senza lavorare con un editor che mi avrebbe magari messo nelle condizioni di tirare fuori il potenziale che quel libro aveva. Oggi non lo pubblicherei, ma se mi arrivasse quel manoscritto, di un aspirante scrittore ventiduenne, gli direi che ha talento e il suo romanzo potenzialità, ma casserei parecchie parti e molte gliele farei riscrivere. Me lo terrei d’occhio, comunque.

Luca Piccolino: Beh, quello è un romanzo giovanile del Liguori, non so se il suo punto di riferimento fosse Kerouac. Comunque a me Kerouac non è mai piaciuto. Mi prendo Liguori che almeno è amico mio.

Alex Pietrogiacomi: Disapprovo. Toccare Liguori è come andare incontro a una maledizione faraonica. Leggi il resto dell’articolo

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Nuovi scrittori, nuovi lettori. KATACRASH: quando il New diventa Gnu

Leggere Katacrash significa mettersi all’ascolto di un racconto. Il suono, infatti, rappresenta lo scheletro, la struttura portante dell’intera narrazione (intercalari, onomatopee, titoli di canzoni). E non poteva essere altrimenti, visto che l’ultimo romanzo di Fabrizio Gabrielli (Prospettiva, 2009) mette in scena un genere musicale, l’hip hop, e tutto il mondo che ruota attorno alla cultura della doppia acca all’inizio del Terzo Millennio. Come già ricordato altrove, l’autore, circa dieci anni fa, rappava e si faceva chiamare Tsunami Kobayashi. Come a dire che Gabrielli conosce bene la materia di cui tratta. Un romanzo sonoro, interamente costruito sulla forza del linguaggio: l’utilizzo di modalità espressive contemporanee («svario», «benza», «spino»), di un lessico sempre meno famigliare e sempre più metropolitano («bro» per fratello, «bellalà»), contraddistinguono Katacrash, testo sperimentale che va letto ad alta voce con musiche in sottofondo, consigliate appositamente dall’autore (in calce al libro nelle Note a cura di Valentina Vitale). Già, perché il suono riecheggia ad ogni parola e il tratto fonico sovrasta perfino i significati delle parole stesse: ecco allora che MTV si trasforma in «emtivì», rap in «erre a pi», SMS in «essemmesse». La simbiosi tra i vocaboli e i suoni ha chiaramente la funzione di riprodurre i frangenti emozionali dei personaggi in tutta la loro completezza. Si tratta di un mélange che funziona, non fosse altro per quelle acrobazie lessicali che ci ricordano quanti forestierismi, acronimi o sigle hanno ormai contaminato la nostra lingua: «emmepitré», «occhei», «biemmevù». Lo spaesamento è forte, quasi non capisci cosa tu stia leggendo; poi, pagina dopo pagina, ti ricordi che l’autore decompone volutamente la parola per riproportela così come tu non l’avevi mai percepita.

Protagonista indiscussa del volume è la musica, segnatamente quella rap e hip hop, che accompagna la crescita di tre ragazzi di provincia dalle «braghe larghe»: il narratore e i suoi amici Gi (Gionata) e Donnie (Donato). Il Pro-epilogo catapulta il lettore all’interno di un condominio agitato a caccia di un «topo grosso così». Si mobilitano la polizia, i pompieri, tutti i condomini per il «rodeo»: lo scarto tra la descrizione seria dei comportamenti umani e la vacuità dell’evento descritto rende decisamente umoristica la scena inaugurale. La trama è affollata di nomi, situazioni, musiche, rimandi intertestuali (si pensi ai titoli che fanno il verso a ben più note canzoni ed opere letterarie). Trentasei capitoli brevissimi, veri e propri petits coups de pinceau, dove si aprono parentesi riflessive che per un attimo ti costringono a rallentare: figli che cercano modelli da imitare, mentre i genitori preconfezionano loro il futuro secondo le proprie ambizioni; o l’appuntamento fisso, ogni novembre, di manifestazioni studentesche: «magari avessimo letto il testo della finanziaria, avremo anche potuto decidere il perché dell’insofferenza» (p. 48). La punteggiatura (in particolare l’uso abbondante delle virgole) segue il fiato della voce narrante: soggetti messi per inciso, ordo verborum snaturato, termini riproposti in sillabazioni esclusivamente foniche (ken-ne-dici?) e parole stranianti che, invece, sei tu a dover dividere per comprenderle: «pocopiùchebambine», «vattelapescadove», «diotenescampi».

La scrittura di Fabrizio Gabrielli è il tratto originale del racconto: alla fine della lettura è come se in testa ti rimanesse un rumore, un ritmo, una melodia e non il ricordo di aver appena letto un testo. Un linguaggio martellante, un vortice che ti risucchia, un libro fuori le righe, così come instabile e per niente convenzionale è l’adolescenza di cui si narra, con le sue incertezze, precarietà, collassi: «avevamo un background culturale fatto di Otto sotto un tetto, Tangentopoli, Notti magiche inseguendo un gol nanninicamente e bennaticamente scanticchiato, film di Vanzina e al massimo i Quaderni di Gramsci, che solo il più rosso di noi aveva nella libreria anche se non significa che l’avesse necessariamente pure letto» (p. 21). Katacrash è la storia di «tre giovanotti infottati con la doppia acca che vivono la formazione deformata nel destino di una generazione degenere. Finché non arriverà il momento del fragoroso crollo. Fin quando non sarà Katacrash». Così l’autore ha spesso introdotto il suo racconto nelle innumerevoli presentazioni in giro per le librerie italiane.

Il romanzo fa parte della collana BraiGnu della casa editrice Prospettiva. Ricordo che, oltre Katacrash, sono usciti Patagonìa di Dario Falconi e Finefebbraio di Valentina Grotta. Cosa sono i libri BrainGnu lo leggiamo nel sito web della collana: «deflagrazioni emotive, naufragi letterari, derive metropolitane. Scalpitìo di zoccoli nella savana. Tutùm tutùm. Paradosso e mutevolezza. Baratri ameni ed incantevoli, voragini vertiginose e feritoie di luce. Gnu, perché New». Ed è questo il segreto vincente della casa editrice: la propensione al Nuovo, la volontà di dare voce a giovani scrittori (precari) che sentono il bisogno di raccontare il loro mondo, le loro storie, ma soprattutto la loro evoluzione. Niente di scontato. Nessuna ovvietà. I volumi della collana BrainGnu sono alti venti centimetri e larghi tredici, come il muso di un cucciolo di gnu. Tutti i libri hanno lo stesso layout grafico. Si somigliano molto, così come all’interno di un branco di gnu è difficile distinguere un capo dall’altro. Ogni titolo è composto da una singola parola, unica nota di colore su copertine rigorosamente in bianco e nero.

Numerose e degne di nota le attività che ruotano attorno a Prospettiva editrice. Su tutte giganteggia il Premio Carver, nato come contropremio letterario italiano e che si distingue, come avviene nelle migliori accademie americane, per la segretezza della giuria, la quale legge i libri a prescindere dal nome dell’autore. Libertà di giudizio e mancanza della non meritocratica equazione “nome autore-casa editrice” sono i punti cardine del premio diretto da Andrea Giannasi, già definito dalla critica come il Premio Strega o Campiello dei nuovi scrittori. Non vanno dimenticate, infine, la lodevole iniziativa di pubblicare le tesi di laurea ospitandole nella collana “I Territori”, il Giornale letterario, il Festival del libro di Civitavecchia “Un mare di lettere”. E poi il canale ProspettivaTV su youtube e la Rivista letteraria Prospektiva: ogni numero è monografico; l’ultimo, ad esempio, (il n. 52) è dedicato al tema della Traversata. Così la letteratura scende dalla torre d’avorio, fa passi in avanti, si apre ad un pubblico vasto e non per forza specialistico. E i libri, finalmente, vengono letti anche tra i più giovani.

 

Stefania Segatori

[Clicca qui per leggere un estratto di Katacrash]

L’ombra del destino

L’ombra del destino (Gialli Rusconi, 2010)

di Daniele Cambiaso e Ettore Maggi

 

 

Considerato che non sono un appassionato di spy story e di thriller, che il genere entra poco nel novero delle mie letture, questa storia scritta a quattro mani dai liguri Daniele Cambiaso e Ettore Maggi è stata una piacevole sorpresa – forse perché c’è qualcosa in più di una storia di spie.

La narrazione de L’ombra del destino procede per vicende parallele, scritte, secondo quanto apprendiamo in un’intervista recente a cura della scrittrice Marilù Oliva, con una «scaletta di massima, nella quale gran parte delle idee della trama e degli snodi narrativi» si devono a Cambiaso, laddove Maggi ha lavorato al prologo e al montaggio delle scene.

Si apprezza nel libro la compattezza stilistica delle stesure, che bene sembrano amalgamate in un lavoro che punta giocoforza molto sulla vicenda; i due scrittori si sono distribuiti le parti e le hanno perfettamente incastrate poggiando essenzialmente sulle voci alternate dei due protagonisti.

Si chiamano Stefano e Giulio, sono due studenti universitari e vengono coinvolti in una brutta storia di terrorismo mentre gli anni di piombo volgono al termine. Alla situazione in realtà sono estranei – e alla Storia, quella dei libri, sono destinati a partecipare come pedine in mani altrui. Per scampare il carcere difatti Stefano verrà fatto ispettore di polizia e Giulio tenente dei carabinieri. Al servizio di qualcuno che potrà manovrarli a piacimento, i due conosceranno traffici d’armi, mafie del nordest, formazioni militari che combattono nella ex-Jugoslavia, servizi segreti e una congerie di personaggi sinistri coinvolti in ambigue trame politiche.

Il destino nel titolo è quello che lega i due amici – non degli sprovveduti (se non all’inizio della storia), e tuttavia impossibilitati a modificare il corso degli eventi; è anzi la consapevolezza di far parte di un meccanismo troppo più grande di loro e che annienta alle fondamenta l’illusione di un paese democratico, ciò che spicca nel respiro stesso della narrazione. Due storie destinate a incrociarsi, costruite in soggettiva, e che hanno il merito di far percepire al lettore il racconto dal di dentro – il lettore sa solo quello che sanno i personaggi, al netto delle proprie capacità intuitive, si capisce –, il che crea la tensione e l’attesa implicite in questo genere di narrativa. La necessità di leggere nella cronaca una controstoria della politica “deviata” è evidente ma non nuoce al romanzo – i rischi di didascalia li corre piuttosto nel dire troppo qualche volta, nell’utilizzare immagini non sempre di primo conio, privilegiata com’è la funzione denotativa della lingua. I dialoghi fanno il loro duplice mestiere, di farci conoscere i personaggi e mandare avanti la storia (si mente in abbondanza in questa storia, e mentire è un’azione); insomma, sono serrati quanto basta e tengono bene il ritmo. L’ombra del destino è il primo titolo di una nuova collana Gialli Rusconi che si presenta in una confezione editoriale apprezzabile e qualche refuso di troppo.

Michele Lupo

Sono io che me ne vado

Sono io che me ne vado (Mondadori, 2009)

di Violetta Bellocchio

 

In un branco, se non diventi molto bravo a fare qualcosa, sei inutile e ti mangiano. Questo è il motivo per cui anche noi che stiamo in cima alla catena alimentare abbiamo un talento. Una vocazione, se vuoi. Un’abilità magari piccola, ma specifica, che ci distingue dagli altri e ci assegna un posto nel mondo.

Il mio talento è fare del male alla gente.

 

 

Sono io che me ne vado è l’esordio letterario di Violetta Bellocchio, un esordio folgorante, brillante, un romanzo di luci accecanti e di profonde oscurità, di lucciole sognate durante una quieta sera d’estate quando il tempo sembra immobile. Un’opera che incanta, che fa sorridere e che fa male allo stesso tempo, uno di quei dolori necessari ma che non hanno bisogno di essere condivisi o compatiti. Non c’è pietas. Niente lacrime per favore, non si deve sprecare così la sofferenza, avrebbe tranquillamente potuto pronunciare la protagonista.

Il romanzo potrebbe essere annoverato tra i “romanzi di formazione”, eppure Sono io che me ne vado è molto di più di questo e ne cambia completamente i canoni. Violetta Bellocchio ci sorprende più e più volte ribaltando completamente gli schemi classici, costringendoci sempre ad inseguirla lungo sentieri sempre più impervi.

«Mi chiamo Layla Nistri» dico. Non so perché sto usando il mio vero nome. Potevo dire che mi chiamo Evangelina Tortora de Falco, e avrei comunque avuto il nome meno improbabile della giornata.

Ecco la nostra protagonista: una giovane donna che decide di aprire nel cuore della Toscana un B&B, in un luogo non propriamente turistico, in un punto imprecisato che sembra essere stato scelto con uno scopo solo: sparire, cancellare le tracce del proprio passato, rendersi evanescenti. Layla ha preso questa decisione. Il perché non ci è noto. Ma non osare dispiacerti per lei, non è la compassione ciò che cerca.

Non ho un telefono. Non ho un indirizzo. Non dimentico niente al ristorante. In tasca ho solo i soldi per un taxi. Non esistono fotografie di me da bambina. Niente, niente di quello che dico è vero. Per essere meglio di così potrei solo smettere di avere un corpo.

Layla è pronta a fare il vuoto accanto a se. Probabilmente non ha un passato tragico alle sue spalle. Qualunque cosa sia, ha semplicemente deciso di cambiare vita. E il B&B “La Bambola” è un ottimo punto d’inizio. Nonostante mille ritrosie, Sean – un ragazzo dai capelli scuri e dalla pazienza quasi infinita – l’affiancherà nella gestione del lavoro, diverrà suo amico, suo confidente, suo punto di riferimento.

La scrittura è rapida, il dialogo è serrato, tagliente, acuminato come una lama. Più generi si mescolano: il linguaggio cinematografico, quello dei blogger, quello dei fumetti. Le citazioni sono nascoste ovunque. Tutto costituisce uno stile unico. Violetta Bellocchio gioca con le parole con maestria, con sapienza.

Layla ti rimane dentro. Vorresti incontrarla, da qualche parte. Parlarle.

Questo, però, posso dirtelo. Il minuto in cui sai di avere in mano la felicità di qualcuno – te la senti proprio sul palmo della mano, una cosa viva – e sai che hai tutto il potere di fare e disfare, quello è il secondo minuto più importante del mondo. Il minuto in cui fai il conto alla rovescia prima di cominciare a disfare, quello è il minuto più importante del mondo. Non ci sono altre notizie.

 

Serena Adesso