marzo 17, 2011
di scrittoriprecari
«Línfera» è una fucina letteraria, un movimento che prende corpo da molti appassionati e alla fine abbiamo avuto il piacere di parlare con le menti pensanti di questo cuore pulsante. Luca Morricone e Francesco Lioce ci raccontano la loro storia.
Come nasce «Línfera»? Da quali esigenze?
L.M.: Prima di tutto dalla volontà, quella di costruire. Poi ci sono le coincidenze…
F.L.: Certo le coincidenze sono indispensabili: «Línfera» nasce come un incontro spontaneo ma necessitato di caratteri e persone. E questo, bene inteso, al di là degli steccati cronologici e di quelli generazionali.
L.M.: Era il marzo del 2004. Ci siamo incontrati frequentando i corsi di scrittura creativa all’Università di Roma Tre, quelli organizzati nella “zona franca” di Sergio Campailla. Ma non eravamo solo ragazzi…
F.L.: C’era gente di tutte l’età…
L.M.: E infatti la redazione è ancora oggi composta da persone di età molto differenti. Io e Francesco siamo i più giovani, poi c’è Roberto Raieli e naturalmente vengono Marzia Spinelli e Antonietta Tiberia. Capirai che le esigenze per ognuno di noi, in realtà, sono state diverse.
F.L.: Poi abbiamo cominciato a vederci fuori dall’Università. Anzitutto al Cafè Notegen di via del Babbuino. Poi, con il passare del tempo, un po’ per un motivo, un po’ per un altro, ci siamo decisi a frequentare anche gli altri luoghi d’incontro della società letteraria romana.
L.M.: Sì, ma questo è successo dopo. Dopo il 2006. Solo quando «Línfera» era già una realtà. Prima della rivista ci sono state tante riunioni, ci sono stati tanti scontri, perché infatti il dialogo lo si trova spesso solo passando attraverso lo scontro, e noi, come ti dicevo, avevamo voglia di costruire qualcosa, qualcosa per noi stessi, ma anche per dare un senso alla nostra dimensione sociale di uomini fra gli uomini.
Cosa vuol dire «Línfera»?
F.L.: Io qua ripeterei quanto ha scritto Marzia Spinelli in proposito: «È la linfa che era e che continua a essere. […] Il liquido linfa che era è ancora; circola perché è in movimento, un’ondata e un ritorno dal e col passato, un dialogo dinamico tra le epoche».
L.M.: Insomma, è un gioco di parole che aveva proposto inizialmente Roberto Raieli, mentre seduti a un tavolino del Notegen ci mostrava alcune fotocopie di «Lacerba».
F.L.: In ogni caso, però, è anche giusto dire che il nome dentro di noi si è chiarito con il tempo, quando abbiamo iniziato a operare attivamente e a fare effettivamente letteratura; parlandone con Maria Luisa Spaziani, Walter Pedullà e con Elio Pecora. Poi le cose che avevamo in testa le hanno capite e ampliate via via anche i nostri collaboratori. Penso a Fabio Pierangeli, a Salvatore Martino e a Donato Di Stasi.
L.M.: Sì, ma al fondo dobbiamo prima di tutto ricordare un bisogno spontaneo di emersione dal basso, come era in basso quella saletta del Notegen dove ci si incontrava e che noi chiamavamo “la sala infera”.
Cosa vi appartiene e cosa rifiutate?
F.L.: Credo che in questi anni, spesso al di là dei nostri interessi e delle nostre consapevolezze, la rivista si sia caratterizzata per la capacità di accogliere e ospitare un po’ tutte le voci dell’attuale società letteraria. Lo so che è un gioco pericoloso, ma si tratta di un pericolo necessario. Scegliere poetiche o autori da pubblicare a monte è qualcosa di troppo castrante, e mi sa di troppa partigianeria. La vita letteraria non può essere chiusa dentro argini ben definiti. La nostra rivista è in realtà lo specchio fedele dell’epoca che nel bene e nel male stiamo vivendo.
L.M.: Già, la volontà sarebbe proprio questa. Riuscire a dare uno specchio davvero fedele e comprensivo di tutto ciò che alimenta le nostre esistenze, al di là anche della letteratura, al di là di qualsiasi nicchia. Ma per fare questi passi ulteriori c’è bisogno di sconfinare, di passare da un’idea di letteratura idealizzata e astratta a un uso politico della parola, un uso più concreto e più responsabile, dalla letteratura fino alla politica. Ed è proprio questo passo il più difficile, il più aperto verso gli altri, che sta ormai motivando le nostre scelte verso una direzione ben precisa.
F.L.: Oltre che come rivista, «Línfera» nasce come movimento. E anche i movimenti letterari, quelli che vanno rispettati, hanno come finalità ultima la meta politica. La nostra direzione è cresciuta numero dopo numero, evento dopo evento. È sufficiente leggere alcuni articoli per capire quanto la nostra direzione sia sempre di più una direzione politica. Parlando con noi, Franco Ferrarotti e Antonio Debenedetti hanno detto cose che altrove non si possono più dire. Per non parlare di Piergiorgio Welby, di cui «Línfera», da subito, ha messo in risalto l’eccezionalità della figura: Ocean Terminal è un’opera tanto letteraria quanto politica.
Una grande figura è sempre presente su «Línfera», Piergiorgio Welby. Ce ne parlate?
L.M.: Come non parlarne. Piergiorgio Welby è stato per noi la coincidenza fra tutte le coincidenze. L’incontro che sembra destinato. Francesco, per dirla tutta, è il nipote di Welby, ma è stato anche l’amico e, se vogliamo, l’allievo di Piero. Insomma, mi ricordo di quando Francesco ci ha proposto di pubblicare gli scritti più creativi dello zio, di quando ci ha svelato il segreto e ci ha raccontato del narratore, del poeta, del pittore Welby. Mi ricordo di quando Francesco mi ha portato il plico di fogli scritti al computer da Piero, dove c’erano parti stampate in blu, altre in nero, altre in rosso. Un malloppo di testi in costruzione, ma straordinari. Piergiorgio era ancora vivo, sarebbe morto qualche mese dopo. Francesco fece in tempo a portargli a casa il numero 1 di «Línfera». Piergiorgio ne fu molto contento. Siamo stati i primi a pubblicare i brani di Ocean Terminal e siamo stati quelli che hanno reso possibile la pubblicazione del suo romanzo con un editore importante come Castelvecchi.
Aprendo «lìnfera» per la prima volta cosa si scopre?
F.L.: Che c’è un’aria diversa. Che si respirano le motivazioni di una nuova spinta generazionale. Tutti si sono sempre affannati a chiedersi: «Ma “Línfera” è di destra o di sinistra?». E invece noi ci collochiamo dalla parte della vita, ci interessa il merito, ci interessa costruire. Non importa stare da una parte o da un’altra, scrivere vuol dire responsabilizzarsi, trovare un ruolo all’interno della collettività e imparare a svolgerlo nel migliore dei modi. Nella sua sostanza più profonda, «Línfera» è contro gli egoismi. Non importa che io faccia qualcosa per me, è importante fare insieme le cose per tutti.
Come si stabiliscono i contenuti dei vari numeri?
L.M.: Cercando la spontaneità. Rispondendo agli stimoli che arrivano dall’esterno, dagli eventi che produciamo, dalla nostra osservazione del mondo, a partire da quanto ci è più vicino, provando a guardare oltre, seguendo i collegamenti delle cose.
A chi date voce?
L.M.: Prima parlavamo del merito. È chiaro, non è qualcosa che si può pesare con la bilancia. Ma c’è dell’altro. Qualcosa comunque di tangibile…
F.L.: Qualcosa che ci faccia dire: «Questo qui può correre con noi, può essere funzionale agli obiettivi del movimento, può andare incontro alla vita».
Avete istituito anche un premio di poesia. Come sta andando?
L.M.: Bene. Siamo molto soddisfatti. Il Premio, che si chiama “Quaderni di línfera”, ha prodotto una collana di poesia, grazie anche al sostegno dell’editore Progetto Cultura. Una collana che volevamo diversa. E volevamo un Premio pulito. E così è stato. Volevamo riuscire a creare uno spazio meritocratico. E lo dimostra il caso di Francesco Onìrige, il vincitore della prima edizione, che da perfetto sconosciuto, da esordiente, ha vinto con noi, ha pubblicato nella nostra collana, e con lo stesso libro, Macerie, è poi arrivato finalista al Premio Luzi e al Premio Laurentum, facendosi strada di fatto in una società letteraria altrimenti chiusa e troppo spesso clientelare.
Un ricordo indelebile della vostra avventura.
L.M.: Ce ne sono tanti. Ci sono tanti momenti importanti. Tanti obiettivi raggiunti: la prima volta in pubblico, la prima volta alla radio, la prima volta in televisione. E poi tanti piccoli aneddoti, che sembrano irrilevanti, ma che contribuiscono a fare la storia della letteratura, come mangiare la pizza con la Spaziani, entrare nella stanza vuota di Piergiorgio Welby, raggiungere Milano in treno per incontrare Guido Oldani.
Un invito a leggere «Línfera».
F.L.: Prima che alla scrittura e alla lettura, «Línfera» invita alla partecipazione.
Intervista a cura di Alex Pietrogiacomi
La Letteratura, il web e la compulsione a scrivere
novembre 5, 2009 di scrittoriprecari 11 commenti
LA LETTERATURA, IL WEB E LA COMPULSIONE A SCRIVERE
[Questo pezzo nasce a margine di un dibattito iniziato da un articolo di Gilda Policastro, intitolato Viaggio tra le gazzette dell’era di internet, e proseguito con le risposte di Carla Benedetti e del blog Sul Romanzo]
A che cosa somiglia di più, mi chiedo, questo schermo munito di tastiera su cui passo ormai molte ore della mia giornata: al vecchio caro foglio bianco che mi si para davanti quando clicco sull’icona di Word, o a una finestra spalancata sul mondo? A ben vedere, questo attrezzo chiamato personal computer, se non lo si mette in rete ha ben poche differenze rispetto a una normale macchina da scrivere.
Si tratta in pratica di uno strumento “privato”, “personale” per l’appunto, che improvvisamente può diventare di dominio pubblico, con tutte le complicazioni del caso.
Questo per dire che la scrittura sul web – soprattutto quando si parla di quei blog e di quei siti che si aprono ai commenti – è prima di tutto performativa, legata cioè al contesto in cui si sviluppa e ai tempi di reazione dei contendenti.
Come nota giustamente Gilda Policastro nel suo articolo, in questo senso viene meno quella “distanza critica” che caratterizza ad esempio il dialogo/confronto tra due o più riviste (che alcuni dei siti letterari più importanti in certi casi continuano a fare). Da questo punto di vista internet sembrerebbe quindi abolire quello spazio della riflessione che è di dominio della critica, sacrificandolo alla necessità di tallonare da vicino il proprio argomento, che spesso e volentieri finisce con il trasformarsi (e non sempre suo malgrado) in un grande spot promozionale a favore di questa o di quell’altra parrocchia. Eppure, se da una parte questo discorso mi sembra valere per un genere come la recensione – sempre più spesso relegata al compito di decorare l’informazione (e non vale solo per internet) – direi che la questione dei “commentari” non si può liquidare semplicemente paragonando la discussione a un’arena dove si battono i “tori della tastiera”, anche perché non mancano, come in ogni corrida che si rispetti, i toreri con il loro seguito di picadores.
Propongo allora di non prendere il toro per le corna e di considerare la questione da un altro punto di vista: forse che il problema è legato solo all’ambito dei “blog o siti letterari”?
Quella dei cosiddetti disturbatori è una categoria trasversale, che costituisce una delle componenti del web, ma che evidentemente da più fastidio quando si esibisce in certe arene anziché in altre (motivo per cui alcune di queste vengono chiuse ai commenti). Ecco perché eviterei di usare una categoria quale la Letteratura e mi concentrerei piuttosto sulle scritture, che è lo stesso motivo che mi porterebbe a sostituire l’arena con la palestra, dove la definizione di “agonismo muscolare” perderebbe un po’ di quella violenza di cui si nutre invece ogni corrida che si rispetti. Il web come palestra di scrittura, e dunque come scrittura performativa, lo trovo un buon punto di partenza per una serie di motivi: innanzitutto perché il personal trainer ha modo di disciplinare l’ambiente avendo al tempo stesso la possibilità di allenarsi (molto spesso è qualcuno che quella stessa palestra l’ha in passato frequentata come tesserato), ma senza sentirsi in diritto d’infilzare chi vuol fare di testa sua con gli attrezzi, perché è sufficiente stirarsi un muscolo per capire come regolarsi la volta seguente (leggasi autoregolamentazione). Certo, un po’ come avviene con l’insistenza nel curare il proprio corpo, anche quella della scrittura in internet sembra essere per certi aspetti una pratica compulsiva, una fissazione che si rafforza con il protrarsi dell’allenamento, e questo è il motivo per cui mi annovero tra i fautori del cosiddetto web 3.0, dove si rende auspicabile un dialogo effettivo tra la rete e il suo esterno, perché, se proprio devo dirla tutta, a me pare che la scrittura in rete sia più vicina all’oralità che alla scrittura vera e propria. Un’oralità che certamente risente di certi modelli, come quelli del talk show televisivo, dove si fa a chi urla di più, ma non sarà perché forse è la stessa critica ad alzare la voce per farsi sentire, come quando finisce puntualmente a scornarsi sulla questione dei premi letterari, tanto per fare un esempio?
Ecco che allora sembra non esserci poi tutta questa differenza fra internet e il resto, se non, giustamente, per una questione di maggior visibilità a minor costo.
Ma è tutta qui la prerogativa del web?
Il fatto è che molto spesso i blog o i siti letterari (dai più piccoli ai più grandi e importanti) sono ben poco pluralisti, poiché per pubblicare si devono avere i contatti giusti, essere un minimo conosciuti, come d’altronde è sempre accaduto per le riviste cartacee e per quanto concerne qualsiasi attività che sia gestita da una redazione (anche se, come ricorda Carla Benedetti nel suo pezzo, c’è sempre la possibilità di pubblicare una risposta ben articolata). Ora, la rivoluzione del web sembrava proprio consistere nello scavalcamento di questa sorta di barriera, in una libertà pressoché assoluta che si sta però dimostrando di difficile gestione, poiché questa voglia di letteratura (e non solo, ma atteniamoci al nostro caso) si quantifica in un’appendice di commenti come unico spazio disponibile al confronto, e dove effettivamente assistiamo troppo spesso a diatribe personali che deviano ben presto l’attenzione dall’articolo di partenza. Ché poi, a dire il vero, più che di disturbatori (che sono una minoranza) si dovrebbe parlare semmai di affezionati, di blogger (o semplici utenti) che seguono tutte le discussioni e si accalorano nel difendere quello o attaccare quell’altro, mimando quelle stesse dinamiche che si ritrovano in una riunione di condominio o in un’assemblea popolare (sì, è vero, sul web c’è il nick name dietro cui nascondersi, ma io di alcuni dei miei condomini non è che ne sappia poi molto di più). Con questo non voglio affatto mettermi a difendere chi usa lo spazio dei commenti per offendere o attaccare gratuitamente questo o quell’altra, ma solo precisare che forse certi contenuti e certi modi di veicolarli possono attrarre più facilmente di altri interventi del genere (che naturalmente ogni sito o blog ha la libertà di scegliere come meglio regolamentare).
Cominciamo allora a chiederci da dove viene tutta questa necessità di parlare di Letteratura, soprattutto in un paese dove secondo alcuni sarebbero di più gli scrittori dei lettori.
Forse che questa compulsione a scrivere potrebbe essere incanalata in esperimenti di scrittura collettiva (e già ce ne sono, cito su tutti il SIC), alla quale il web si presta per sua natura, e che magari metterebbe anche un freno alla sovrapproduzione di libri e libricini che esiste in Italia? I “tori da tastiera” potrebbero così trasformarsi nelle lepri dietro cui correr coi cani, e chissà, magari a forza di dar loro la caccia si finirebbe pure con lo stanare delle storie interessanti – ma in fondo lo diventano anche certe polemiche, arricchite da personaggi che per quanto ne so potrebbero essere del tutto inventati, e che pure finiscono con l’appassionarmi nel loro carteggio allo stesso modo di un feuilleton o di una telenovela ben articolata.
Ché poi, a pensarci bene, siamo proprio sicuri che questi siti non sentirebbero la mancanza dei tori scatenati con cui scaldare il pubblico dell’arena?
Simone Ghelli
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