… e poi c’erano i consigli di lettura

A volte faccio conversazioni immaginarie col subcomandante Liguori.
– Santoni, è un po’ che non fai recensioni.
(il Subcomandante reale in realtà è troppo un signore per spaccare le palle chiedendo post, ma il mio Subcomandante interiore è fatto così. La maieutica di quello vero è più sottile, per esempio porta in qualche modo la gente a fare conversazioni responsabilizzanti con una proiezione immaginaria di sé)
– Eh ma come faccio, c’è la promozione di In territorio nemico, ottanta date e rizzati, c’ho da finire due libri…
– Un pezzo breve lo potresti anche fare.
– Ma c’ho le riedizioni dei vecchi libri, gli articoli per il giornale… Tra un po’ c’è Torino una sega 3 e io non ho neanche letto i libri presi al Salone…
– E da maggio ti saranno arrivati una ventina almeno di pacchetti dagli uffici stampa.
– Più i pdf…
– E mi vorresti dare a bere che di tutta quella roba non hai letto niente?
– Giusto quelli che mi sembravano più interessanti…
– E lo erano?
– Alcuni sì, ma non ho tempo di strutturare una recensione, di riprendere in mano i testi…
– E allora fai un post di consigli di lettura.
– Dici che è utile?
– Se è utile? Ma lo vedi quanta roba esce? Le case editrici da un lato piangono miseria, invocano diradamenti delle uscite, auspicano maggiore attenzione per la qualità, e dall’altro continuano a intasare le librerie con fiotti di libri ogni tre mesi, nella speranza che uno faccia il miracolo, e per gli altri c’è immediata l’oscurità…
– Se vuoi un pezzo sul mercato editoriale chiedi a Carolina Cutolo, a Federico Di Vita… Non so, a Christian Raimo…
– Voglio un pezzo di consigli di lettura. La gente esige consigli di lettura. È arrivata anche l’estate. Sai, una cosa tipo letture sotto l’ombrellone. Non vorrai mica consegnare gli ombrelloni a Dan Brown?
– E sia, Liguori interiore, e sia. E dato che siamo qui a far dialoghi immaginari, per prima cosa consiglio la lettura di Mio salmone domestico di Emmanuela Carbé, curioso testo che inaugura una nuova direzione per la collana Contromano di Laterza, sia perché Carbé è esordiente assoluta, sia perché Mio salmone domestico (titolo completo: Mio salmone domestico. Manuale per la costruzione di un mondo, completo di tavole per esercitazioni a casa) è un romanzo del tutto atipico

[devo interrompere. Sto scrivendo questo pezzo al Caffè Notte ed è passato per l’appunto Di Vita, e mi ha detto di leggere assolutamente Matteo Galiazzo; io che ho cominciato a scrivere a fine 2004, non ho la minima percezione di cosa sia accaduto nella narrativa italiana gli anni subito precedenti – ricorderà il succitato Raimo la meraviglia che provavo di fronte alla libreria di casa sua, così ricca di romanzi italiani usciti tra il ’94 e il 2004, volumi usciti per i più grandi editori, magari buoni, forse eccellenti, i nomi dei cui autori erano già completamente dimenticati, oppure al massimo echi captati in un commento su Nazione Indiana, nelle note di qualche vecchia Leggi il resto dell’articolo

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Quel piano B che si chiama letteratura

Alcune riflessioni su L’arte del piano B, Per legge superiore, Zona, L’inferno del romanzo.

di Vanni Santoni

Qualche settimana fa ho ricevuto un libro – un bel libro, anzi: bella carta, ben impaginato, con la copertina spessa e, come si dice, embossed. Questo libro mi ha stupito tre volte. Innanzitutto mi ha stupito vedere che un piccolo editore indipendente, del quale fino a quel momento non avevo coscienza, e sì che abita a pochi chilometri da me – Piano B edizioni, Prato, leggo sul loro sito – produca volumi di siffatta qualità. Poi mi ha stupito vedere che un editore che si chiama “Piano B edizioni” pubblichi un libro che si chiama L’arte del piano B: coincidenza? Accordo? Manifesto d’intenti? Sincronicità? (La risposta, per i curiosi, è suggerita dentro al libro). Infine, mi ha stupito vedere che Gianfranco Franchi, il letterato fondatore e animatore di Lankelot, rivista letteraria improntata alla massima serietà, si fosse avventurato in qualcosa che sta tra il saggio di costume e la satira del saggio di costume. Franchi fa proprio un concetto della cultura popolare contemporanea – quello del “piano B” ovvero del piano alternativo, segreto e pronto all’uso in caso di impraticabilità del “piano A” – e lo declina in tutti i modi possibili, ne enuncia principi e applicazioni, ne inquadra i nemici e gli alleati, lo sviluppa e lo spiega sia filosoficamente che per esempi. E coglie l’occasione, parlando del “piano B”, per uscire dalla satira dei manuali di autoaiuto, e andare a parlare di molte cose; in particolare, io credo, di quelle che gli stanno a cuore, come il problema, di recente tornato ad animare il dibattito culturale, della pseudoeditoria: Leggi il resto dell’articolo

Nel bianco

Nel bianco (Rizzoli, 2009)

di Simona Vinci

Eppure io odiavo viaggiare, forse una parte di me lo odia ancora adesso: viaggiare, intendo farlo sul serio, è faticoso. Faticoso da subito, ancora prima di partire davvero. […] Poi è cambiato qualcosa, anche se non so cosa, perché l’idea del viaggio come obbligo culturale e sociale, l’ossessione dei piantatori di bandierine sul mappamondo continuo a detestarla e sono consapevole che i viaggi sono diventati una banalità, un’ovvietà: tutti lo fanno, ma cos’è che vedono davvero? Cos’è che gli resta dei posti che hanno visto? Cos’hanno capito, quando tornano? E soprattutto, sono cambiati? […] A me interessa soprattutto l’abitudine: riuscire a restare in un posto abbastanza a lungo da annoiarmici, perché sono convinta che è solo nella noia che di colpo le cose si svelano nella loro luce più vera.

 

All’inizio del 2008 Simona Vinci, messe da parte le sue paure, parte per l’Africa, Sierra Leone, uno dei paesi più poveri del mondo con il più alto tasso di mortalità infantile. È come se avesse cominciato una nuova fase del suo percorso. Quando mesi dopo decide di partire per un mese in Groenlandia il più è fatto, i suoi timori sono ormai superati. Le resta da sistemare le cose da portare con sé, preparare un minimo di attrezzature per affrontare il freddo, quello vero, quello che non siamo abituati a conoscere.

Si fermerà una settimana in Islanda – stregata da quella terra magica di ghiaccio e di fuoco, di mare e di monti altissimi – per poi dirigersi a Tasiilaq, in Groenlandia, che in inuit significa «come un lago immobile». Simona Vinci resta per un mese Nel bianco e ci regala uno dei reportage – sebbene costringere quest’opera nella categoria del reportage sia quasi comprimerla in una definizione troppo ristretta – più interessanti su quella terra ricca di fascino e di mistero, dove si cerca di non restare mai soli. La solitudine è l’incipit della fine. La vita è vissuta a stretto contatto con la comunità – ristrettissima – con cui si divide la quotidianità. Live together, die alone.

Gli inuit sono i protagonisti silenziosi, un popolo emarginato che sembra incarnare tutto ciò di cui non ci curiamo, quello che non è sufficientemente importante per essere da noi conosciuto e studiato. Un popolo che sta subendo la devastazione delle propria terra in nome del dio petrolio. Simona Vinci cerca di entrare nella loro comunità, pone domande, si relaziona a loro. Entra nell’ospedale della città, parla con gli adolescenti della cittadina, visita il cimitero. Si immerge nei luoghi che la circondano, fa in modo che tutte le barriere che ci portiamo dentro cadano, tenta di non avere filtri nei loro confronti. Si lascia andare all’imprevisto, al viaggio, all’accidentale. Al caso. Alle storie in cui inciampa e che racconta. È stregata dal bianco abbagliante, quasi mistico, che tutto circonda e avvolge. Il bianco che le porta alla mente Melville che, riflettendo sulla bianchezza della balena in Moby Dick scrive che «c’era un vago orrore senza nome… una cosa così mistica e pressoché ineffabile, che io quasi dispero di renderla in forma comprensibile. Era la bianchezza della balena che sopra ogni cosa mi sgomentava». La balena bianca è ciò che non conosciamo, il mistero della vita. Il bianco contiene l’intero spettro cromatico della luce, ma nasconde i colori ai nostri occhi.

Che cosa resta alla fine di un viaggio?

Cosa rimane impresso, indelebile, nell’iride dei nostri occhi? Quali saranno gli odori, i sapori, che riusciremo a portare con noi per il resto della nostra vita?

I viaggi sono i viaggiatori. Tocca metterci in marcia. Partire. Tornare. E partire ancora. Senza stancarsi. Mai.

Si dice sempre che prima o poi, nella vita, arriva il giorno in cui sai qual è il tuo posto nel mondo. Per me, penso mentre sto seduta su un muretto davanti all’ufficio postale di uno sperduto paesino della Groenlandia orientale, quel giorno non è ancora arrivato. Ho trentotto anni e ancora non lo so qual è il mio posto nel mondo. […] Forse, penso, essere uno scrittore vuol dire proprio non avere un posto nel mondo. E quindi vuol dire anche averne tanti quante sono le storie che ti si agganciano addosso mentre vai senza sapere di preciso dove.

 

Serena Adesso

 

La vita erotica dei superuomini

La vita erotica dei superuomini (Rizzoli, 2008)

di Marco Mancassola

New York, primavera 2006.

Sotto il cielo luminoso, tra le strade inquiete ed insonni della Grande Mela, vivono i supereroi. O meglio, quello che di loro rimane. Non è più il tempo degli eroi, non è più il tempo dei super poteri e dei sogni di un mondo diverso. Non c’è nessuno da proteggere.

Reed Richards, alias Mister Fantastic, eroe dal corpo di gomma, mente ed organizzatore del gruppo, vive una vita dignitosa come scienziato. Si culla negli agi e nei confort, ma ciò che gli manca è l’amore, la passione, una forma qualunque di sentimento che lo scuota dalla routine in cui è precipitato.

Mystique – donna forte, paladina di molte battaglie, dalla pelle bluastra – abbandonata ogni lotta contro la società conformista, lavora in tv ed è la star della comicità e la regina delle imitazioni.

Addio mio Mister Fantastic. Addio mia Mystique.

Ecco che la routine è turbata. Ecco che qualcuno, un assassino che evidentemente deve avere un legame emotivo con i supereroi, invia loro dei messaggi a cui segue sempre un omicidio.

Marco Mancassola utilizza il thriller per riflettere sulla caducità del corpo, della vita: cosa rimane dei supereroi? Come possono – possono davvero – tornare agli splendori degli anni passati? Come si sopravvive al proprio stesso mito?

I supereroi nel 2006 sono dei relitti: inseguono passioni false perché non hanno la capacità di provarne di autentiche, si lasciano trasportare dalla corrente come delle zattere alla deriva, lasciano che tutto fluisca senza lasciare traccia. E quale posto migliore per “perdersi” se non New York, la città dove tutto è possibile?

Le descrizioni di Mancassola sono splendide, la città stessa è uno dei protagonisti del romanzo. È una città che trasuda vitalità, che pulsa, la cui vanitosa ed esibita esuberanza stride con la condizione psicologica dei supereroi. L’autore riesce ad utilizzare uno stile sobrio, accurato, senza mai un aggettivo che sia ridondante o fuori posto.

Addio mio Batman.

È un mondo intero che sta scomparendo. È la fine di un ciclo.

Eppure questo romanzo non è solo uno struggente addio. È anche un nuovo inizio.

Nell’epilogo troviamo Superman, il più anziano dei supereroi. Superman non ha mai perso la speranza. Sta continuando ad addestrare futuri supereroi. Clark Kent non è nostalgico del suo passato, non ha rimpianti. Ciò che è stato, è semplicemente stato. È al futuro che guarda. E sulla terra ci sarà sempre qualcosa per cui varrà la pena di combattere, ci sarà sempre qualcuno da difendere, ci sarà ancora un’idea per cui valga la pena spendere la propria vita. E sempre ci sarà necessità di qualcuno che si assuma questa responsabilità.

Serena Adesso

La dismissione

La dismissione (Rizzoli, 2002)

di Ermanno Rea

Per il palato di uno come me, che viene da una città industriale come Piombino, il romanzo di Ermanno Rea assume tutto un sapore particolare. Un sapore che ricorda certi odori delle acciaierie, che mi accompagnano sin da quando ero bambino e che variano in base ai venti. Di quegli odori che ti si attaccano alla pelle e ai vestiti e di cui non ti scordi più, che sanno di cieli innaturalmente arrossati e della limatura di ferro che in certi giorni, insieme alla sabbia delle dune marittime a ridosso della fabbrica, sembra posarsi dappertutto, anche nelle narici e sulla lingua.

Per chi, come il sottoscritto, nella fabbrica c’è anche entrato – se pur per un brevissimo periodo, come brevi sono gli unici due racconti che ad essa ho dedicato – questo sapore si suddivide poi in una gamma di odori più specifici, di immagini un po’ apocalittiche che Ermanno Rea sa restituirci magistralmente, senza mai compiacersene troppo.

La storia di Vincenzo Buonocore, ex operaio poi divenuto tecnico specializzato, va infatti oltre i confini di Bagnoli dov’è ambientata, poiché ci parla di un’Italia che sta ormai scomparendo, di un paese che è tornato a essere preda di lotte intestine che ne minano la pur precaria unità.

Da questo punto di vista La dismissione è anche un romanzo profetico, e in questo consiste forse la sua grande forza, poiché, a distanza di quasi otto anni dalla sua uscita, il libro di Rea ci parla del processo, politico e culturale, in atto nel nostro paese (un processo iniziato già negli anni ’80, e acutizzatosi, proprio come per l’industria siderurgica, nel corso del decennio successivo).

Un romanzo, dunque, che attraverso la storia di una delle ultime grandi lotte del movimento operaio ci parla in sostanza della dismissione del sistema Italia, della sua svendita, pezzo dopo pezzo. Con la differenza sostanziale che nel lavoro maniacale e certosino di Vincenzo Buonocore, che la maggior parte degli operai in lotta sembra non comprendere, trasuda l’amore totale e devoto nei confronti della sua fabbrica, che se proprio deve finire nelle mani dei cinesi, deve arrivarci senza uno sgraffio, senza un difetto che possa comprometterne il perfetto funzionamento. Se i pezzi di Bagnoli continuano a funzionare in un altrove disseminato – non solo la sterminata Cina, ma anche la stessa Piombino o Taranto – è proprio grazie a una coscienza di classe che ha cominciato a cedere con l’epoca della cassa integrazione e dei prepensionamenti, e che è venuta meno con la precarizzazione selvaggia di ampi settori lavorativi, con la conseguente disaffezione nei confronti del proprio operato e del proprio spazio d’intervento.

Ecco perché il romanzo di Rea si presenta ancora come una lettura attuale e necessaria, come un’opera che non soltanto – e non è poco – conserva una memoria storica e culturale, ma che c’invita a riflettere sulla deriva intrapresa da questo paese, e lo fa senza indicare i nomi dei “mandanti”, perché i primi ad aver accettato lo smantellamento, i primi responsabili, siamo proprio noi: noi italiani.

Simone Ghelli