La linea infinita
aprile 5, 2011 2 commenti
La rubrica Interlinea ƒ64 nasce dalla collaborazione tra La Rotta per Itaca e Scrittori precari: una volta al mese, uno scrittore, leggendo tra le righe di una fotografia, ci racconterà una storia in profondità di campo.
Quello che segue è il secondo racconto.
di Ilaria Mazzeo da una foto di Andrea Pozzato
Da Rogoredo a Stazione Centrale ci sono undici fermate della linea gialla della metro.
Sara lo sa perché le ha contate sulla cartina, e le sembrano inaffrontabili, infinite; ostili.
Tutto è ostile, da due anni a questa parte.
Inizia a scendere le scale, con il cuore che ogni tanto, le pare, salta un battito; ma poi lo recupera in velocità.
Sara si fa forza stringendo in mano il suo ciondolo. Glielo ha regalato suo padre, molto tempo fa. Poi si tocca la pancia, e attraverso la maglia sente quel calore che la rassicura. Sembra dirle: «Non sei sola».
Sola lo è stata, per tanto. Percorrendo il lungo corridoio che porta ai tornelli, Sara cerca di non pensare a quello che sta facendo, ma non ci riesce. Butta le chiavi di casa in un cestino, e prosegue, rasentando il muro, con la gente che la supera velocemente, senza degnarla di uno sguardo.
L’idea gliel’ha data Julia Roberts.
Qualche sera prima, in tv, ha visto un vecchio film con lei protagonista. Il titolo era stupido: A letto con il nemico, ma Sara ha seguito con grande attenzione, mentre suo marito russava nell’altra stanza.
Nel film, la diva Julia è sposata con un animale che la picchia e la umilia in tutti i modi; i due vivono in una casa bellissima con vista sull’oceano, e il pazzo è un uomo alto, prestante, con folti capelli neri.
Sara e suo marito vivono in un bilocale con vista sui binari della stazione di Rogoredo, e lui non somiglia proprio per nulla a un attore americano; per il resto, però, la situazione è la stessa. E lei, come la Roberts nel film, ha deciso di scappare.
Fino a pochi giorni prima una soluzione del genere non le era balenata alla mente nemmeno nelle sue fantasie più sfrenate; neanche dopo l’ennesima umiliazione subita al Pronto Soccorso, dove una dottoressa, a occhio sua coetanea, le aveva detto apertamente che quei segni sul collo e sulla schiena non erano compatibili con nessuna caduta, e che la smettesse di prenderla in giro, per favore.
Lei era stata zitta e aveva tenuto gli occhi bassi, come quando, a scuola, la beccavano impreparata; si era fatta medicare e incerottare per bene ed era filata a casa a preparare la cena, terrorizzata che lui tornasse da lavoro e non trovasse il piatto in tavola.
Sara arriva al tornello e tira fuori il biglietto, che, nell’agitazione, le cade per terra. Lo raccoglie con mani tremanti e lo inserisce nella fessura.
Con gli occhiali da sole, là sotto, vede a malapena dove mette i piedi, ma non se li toglierà per nessun motivo, così come non si toglierà il cappellino da baseball con la scritta “I love Milano”, comprato appositamente su una bancarella del mercatino di Senigallia per poterci poi nascondere i capelli sotto. Nel film, la Roberts si metteva una parrucca bionda. Lei non avrebbe saputo dove andare a comprarla e, comunque, ha pochi soldi.
Il tornello si sblocca e Sara passa oltre, cercando di non accelerare. Si guarda intorno: nessuno fa caso a lei. Forse, grazie allo zaino e al cappellino, può passare per una turista. Vorrebbe correre, ma non lo fa; fino a stasera, del resto, lui non potrà accorgersi della sua fuga. Non hanno il telefono fisso, a casa, e lei ha simulato uno scippo con conseguente perdita del telefonino, proprio il giorno prima. Lui, naturalmente, si è incazzato di brutto, e le ha urlato che se lei, inutilezoccola, è così stronzadeficiente da farsi derubare dal primo rumenodimmerda che passa per la strada, a lui nonglienefregauncazzo, e il cellulare, almeno per ora, non glielo ricomprerà, ziocane.
In realtà il cellulare Sara ce l’ha nello zaino, ma con un’altra Sim, acquistata ieri.
La sua è andata a lanciarla nel Naviglio Grande, insieme alla fede; così, se mai le ritroveranno, magari penseranno che si è suicidata, o che l’hanno uccisa. Per lei va bene. Le sarebbe andato bene anche morire, fino a pochi giorni fa; ora, però, non vuole più.
Sara è sulla banchina, adesso; il tabellone luminoso comunica che al prossimo treno per Maciachini mancano tre minuti. Avrebbe preferito trovare il treno già pronto ad accoglierla nella sua panciona lucida, ma non tutto può andare come nei film. Ora che è riuscita ad arrivare fin quaggiù si sente più forte: non credeva che ce l’avrebbe fatta. Forse allora è vero che non è quella nullità che il marito sostiene.
Ripensa a sua madre, a quando le ha telefonato, ieri. Non la sentiva da due anni, ma non si è stupita che la voce fosse sempre la stessa, uguale a quella che ha continuato a venire a trovarla in sogno: bassa e decisa, senza mai un’esitazione. Sara, invece, balbettava. Mi aiuterai, mamma? Sì. Posso venire da te, mamma? Sì, figlia mia. Ti voglio bene, figlia mia.
«Anche io, mamma».
Sara lo dice ad alta voce, entrando nel treno della metropolitana, diretta alla Stazione Centrale, da dove ripartirà per Napoli, e da lì per Agropoli, il suo paese. Qualcuno si volta a guardarla, ma lei bada solo a trovare un posto libero per sedersi. Rogoredo rimane alle sue spalle, e anche Porto di Mare, Corvetto, Brenta…
Sara tiene le mani posate delicatamente sul grembo, per sentire ancora quel calore forte, rassicurante.
«Ce ne andiamo, piccolo mio,» mormora. E sorride.
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