Susan & Liberty Jones


di Domenico Caringella

And you can send me dead flowers every morning
Send me dead flowers by the mail
Send me dead flowers to my wedding
And I won’t forget to put roses on your grave
(M.J. – K.R.)

Iniziavano sempre insieme, ma ogni volta era Liberty a svegliarsi per primo. Allora sbarrava gli occhi per riempirseli, per riempirsi, di luce e di realtà. Poi si sedeva e scuoteva la testa e il resto del corpo. Fingeva di credere alla sensazione che quel movimento servisse davvero a scrollarsi di dosso il miliardo di gocce di sudore che gli raggelavano la pelle e a spezzare le catene che lo avevano tenuto fino ad un momento prima. Il rituale, comunque non gli risparmiò l’ultima allucinazione, quella delle dieci Cadillac piantate nella sabbia per metà, come frecce, tra il bagnasciuga e la coperta che quella notte aveva tenuto lui e Susan al riparo dal vento che arrivava dall’oceano. Erano l’esatta copia di quelle del Cadillac Ranch di Amarillo, in un giorno lontano un secolo, dove lui e Sue avevano fatto la loro strana luna di miele e la consegna della prima partita di roba con cui alla fine si erano pagati il viaggio e la baldoria. Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

Intervista a Joe Santangelo

Shoot me! (Chinaski edizioni, 2010)

di Joe Santangelo

 

Un Libro che mescola insieme thriller, saggio, indagine. Come nasce? Da quali esigenze?

Il fulcro di questo libro è un fatto vero realmente accaduto, che è passato alla Storia con la s maiuscola ed è già noto al grande pubblico. Avrei potuto scrivere un testo espositivo dei documenti raccolti nel corso nella mia ricerca, un dossier documentale. Ma la possibilità che avevo di fare qualcosa di nuovo e portare un originale spunto di riflessione era di utilizzare il racconto del crimine per scavare nella vita dei due protagonisti del delitto.

Tutto è partito dalla lettura accidentale dell’ultima intervista rilasciata a Rolling Stones il 5 dicembre 1980. «Niente è reale – dice John Lennon – la realtà in cui noi tutti viviamo è una illusione. La cosa più difficile è affrontare se stessi. Un tempo ero convinto che la colpa fosse degli altri e che il mondo mi dovesse qualcosa… ora ho scoperto che io sono personalmente responsabile di ciò che mi accade, che io e il mondo esterno siamo un tutt’uno… l’impresa più tosta è scovare la bugia che si annida dentro la tua vita». Ho trovato interessante che una delle motivazioni principali portate da Chapman per spiegare la genesi del delitto nella sua testa fosse la phoniness di John Lennon.

Dunque dalla storia vera ho estratto una traccia, e ho organizzato le prove a sostegno in una trama particolare, che mette Lennon e Chapman allo specchio. Ho fatto in modo che il delitto emergesse nel racconto come il risultato di un lungo periodo di preparazione e per questo l’ho collocato al centro del romanzo come il punto di incontro delle due biografie, creando la suspense con l’altalena delle emozioni e degli stati mentali di Lennon e Chapman. I due sono quindi sempre sul punto di non incontrarsi e di trasformare l’esito degli eventi. La mescolanza dei generi è quindi il risultato dello sforzo di affrontare il tema del delitto Lennon in maniera nuova, senza perdere di vista la fedeltà ai fatti e il tributo del giusto rispetto a un uomo che ha pagato un prezzo altissimo per aver voluto intraprendere una ricerca spirituale così importante, pur essendo costantemente sotto i riflettori, esposto al giudizio della moltitudine.

Ribadisci spesso che i due avessero un appuntamento. Puoi spiegarci meglio?

Entrambi – per le motivazioni che ho esposto – sia pure procedendo su rette parallele che si sono incontrate – per una convergenza di fatti, azioni e stati mentali – solo l’8 dicembre, hanno preparato questo incontro nel tempo. C’è stato tra di loro come uno scambio di dati e di flussi di pensiero. Se a quei tempi ci fosse stato Internet – e Lennon sarebbe stato sicuramente un internauta dipendente – è come se un bug sia sfuggito all’attenzione dei suoi programmatori, si sia insinuato nei pc di Lennon e Chapman, e abbia aggiornato l’agenda dei due a loro stessa insaputa. Sono convinto che le emozioni e quello che pensiamo hanno un peso specifico tangibile sulla nostra vita, che siano una materia solida che può realmente condizionare le nostre esistenze.

Shoot me! Perché questo titolo?

È stato John Lennon a suggerirmi questo titolo. Nel 1969 Timothy Leary – allora candidato alla funzione di Governatore dello stato della California – si ritrovò con sua moglie Pamela presso uno dei famosi “Bed-In” di John & Yoko, a Montreal. Leary, psicologo comportamentale, suggeriva provocatoriamente l’assunzione di LSD e di altre sostanze psichedeliche come strumento di apertura mentale, una specie di Aldous Huxley di fine decennio. I contenuti dei suoi interventi durante la campagna elettorale piacquero a John Lennon, che accettò di comporre un pezzo sulla base dello slogan che gli era stato sottoposto da Pamela: «Come together and join the Party». La composizione era quasi completa quando Leary fu arrestato per possesso di marijuana e Lennon si ritrovò questo pezzo (Come together) che si assommò ad altre demo. Durante le ultime session di Abbey Road – ultimo Album dei Beatles – Lennon sottopose il pezzo ai compagni. Paul McCartney suggerì di imporre un giro di basso profondo e potente, così da rendere il pezzo più “cupo”, mentre Lennon inserì un contrappunto iniziale altrettanto forte e provocatorio: «SHOOT ME!». Lennon ha fatto della provocazione un’arma di comunicazione, anche se nella mia analisi emerge una difficoltà a gestirne gli effetti nel lungo periodo. «SHOOT ME!» è il messaggio che arriva a Mark David Chapman attraverso la musica, le radio, le riviste patinate di gossip e la televisione (non dimentichiamo che Chapman ha passato gli ultimi giorni con la televisione sempre accesa e il silenziatore, convinto che dalla televisione gli sarebbe arrivato “il segnale”, il via alla partenza).
«I was drunk, so shoot me!» dice John a Rundgren, nell’alterco che è passato agli annali come “il litigio dell’assorbente”, nel periodo del lost week-end.
Sono il Walrus, il buffone di corte, un ipocrita, uno stronzo, un violento, un alcolizzato, sotto i riflettori del mondo… quindi sparami pure se ne hai piene le scatole perché tanto la verità non muore.

C’è una sorta di fatalismo, di strano misticismo che si legge tra le righe del tuo libro. È un impressione?

Il fato indica la decisione irrevocabile di un dio che pesa sull’esistenza di tutti gli uomini. Io invece credo che ciascuno sia artefice della propria esistenza e che la realtà non sia governata dalla casualità, ma neanche dalla causalità lineare, ossia da un nesso incontrovertibile tra causa ed effetto. Penso invece che ciascuno con un salto nella propria coscienza e nel proprio modo di pensare possa trasformare l’ordine delle cose e che a tutti è concessa l’opportunità di creare la propria vita.

Chi era Chapman e chi Lennon?

Chapman era un signor nessuno alla ricerca del proprio posto nel mondo e di una identità. Un contenitore vuoto che questo ragazzo ha cercato di riempire di contenuti. Il prodotto tipico di una nevrosi dell’uomo contemporaneo legata alla frenesia del fare e del successo, senza il quale si è niente e che incoraggia il gioco delle identità, come un guardaroba di vestiti da indossare a seconda dei luoghi e delle occasioni, con il solo obiettivo dell’affermazione sociale o economica. Lennon era un uomo con una identità fortissima. Così forte che tuttora è un brand a cui attingono individui e imprese. Un uomo e un artista impegnato in una ricerca costante, e spesso estenuante, di nuove direzioni e idee. Una vita in viaggio, in cui non ha esitato a contraddire o scartare convinzioni e teorie precedentemente abbracciate con entusiasmo e a mettersi a nudo sotto gli occhi del mondo. Solo un uomo coraggioso batte questo tipo di strada perché il rischio di perdere la popolarità, di perdere una porzione di mercato e il potere stesso, insomma il rischio di perdere, anche la vita, è connaturato allo sforzo di dire la verità. L’idea più potente è quella di Imagine, che vuol dire nel significato più blando fantasticare su un mondo che non c’è, ma sulla bocca di Lennon è l’invito a creare e proiettare il mondo che si vuole, il mondo migliore di tutti i mondi possibili.

C’è davvero un colpevole e una vittima?

L’essere colpevoli o vittime sono gradazioni sulla scala della responsabilità personale.

Leggendo Chapman c’è una forma di sindrome di Stoccolma. Alla fine si prova una pena empatica per questo personaggio. Ma cosa si prova a entrare nella sua mente?

Ho sentito la sua confusione, la paura del fallimento, il dolore di chi smarrisce la strada. Un ibrido nella terra di nessuno. E ho provato pena e orrore per la sua solitudine, per il deserto di affetti familiari in cui è cresciuto, per la sua incapacità di trovare una guida positiva e uno scopo. Questa cosa mi ha fatto pensare che anche Lennon è partito dalle stesse premesse, da una fanciullezza difficile e solitaria, senza l’amore e la protezione di una famiglia vera. Questo tema è per me centrale nella storia di entrambi. John è riuscito a trasformare questi contenuti, a convertire lo svantaggio della partenza in un vantaggio. Ha percorso una strada tutta in salita… perché aveva una direzione, un sogno! Questo scompenso però lo ha accompagnato per tutta la sua esistenza. Vale la pena di ricordare che all’inizio di Starting over in cui John dice: «It’s time to spread our wings and fly», c’è una campanellina dei desideri che richiama – come John stesso ricorda nell’ultima intervista a Rolling Stones – la campana a morte all’inizio di Mother, la canzone del bisogno, del distacco e della solitudine. Dunque ho usato la biografia di Chapman per riflettere ancora una volta sulla distanza che c’è tra un uomo senza identità e un uomo capace di grandi cose, ma anche sui punti in comune che legano queste due tipologie di uomo quando si incontrano in una situazione così rovinosa. Il libro non a caso inizia con una scena dell’infanzia di Chapman e si conclude con una scena della primissima infanzia di John.

Lennon era un uomo libero come diceva di essere?

Libertà è la capacità di discernere tra bene e male congiunta alla forza personale e alla volontà dell’individuo di fare il bene per se e per gli altri. È uno stato difficile che si guadagna prima raggiungendo uno stato di integrità personale, di unità con se stessi, idee, valori e vita. Se sei unito dentro poi non puoi fare a meno di essere unito con il mondo fuori e quindi di essere libero. John Lennon diceva di se stesso: «Una parte di me pensa che io non valga nulla, l’altra è convinta che io sia Dio». Testi, parole e inviti tuttora vibranti come Serve Yourself e «Don’t follow leaders, watch the parking meters», mi fanno pensare che Lennon fosse sicuramente alla ricerca di questo stato ideale, direi “divino”, ossia proprio della divinità, di unità interiore. Negli ultimi cinque anni della sua vita John si è addirittura fermato per capire il proprio rapporto con il mondo e il mercato e cercare una chiave di volta. «Life begins at forty», aveva detto a chiudere l’ultima intervista. Chissà che cosa avrebbe potuto ancora regalarci se avesse proseguito questo percorso di ricerca della libertà.

Perché così tanta attenzione per Lennon, era davvero così pericoloso? Eppure a un certo punto “rinnegò” in un certo senso il suo passato da manifestante…

Chiunque goda di una grande visibilità è potenzialmente molto pericoloso sia per sé che per il sistema. È un fatto vero oggi ed era ancora più vero trent’anni fa, quando i media disponevano di strumenti tradizionali rispetto a quelli dei giorni nostri. Lennon aveva un problema con l’autorità, che gli arrivava dai primi anni della sua esistenza: lui osservava il mondo e le sue contraddizioni, poi decideva di farci un pezzo sopra o di rivolgersi direttamente alla gente per raccontargli i motivi del disagio dell’uomo comune. Senza veli, senza preamboli, con uno slogan, la capacità di giocare con le parole e le idee, e il suo talento teatrale metteva tutti a tacere: «All we are saying is ‘Give Peace a Chance’ – War is over, if you want it».

Quando decise di tornare sulle scene aveva maturato un’altra e più matura consapevolezza di questo suo potere e al tempo stesso aveva imboccato una strada diversa, più incentrata sul valore della ricerca personale e sui valori familiari; e sulla necessità di raggiungere un equilibrio personale prima di indicare al mondo la propria visione delle cose. Dunque scelse una via più morbida, una strategia di basso profilo. In realtà Lennon non rinnegò mai il suo dovere come artista di portare un contributo alla comprensione del mondo e delle sue dinamiche: «My role in society, or any artist’s or poet’s role, is to try and express what we all feel. Not to tell people how to feel. Not as a preacher, not as a leader, but as a reflection of us all», ma lo spirito naïve con cui – in passato – aveva guidato gli animi dei suoi followers, e l’ingenuità con cui, piegandosi alle logiche di comunicazione di massa, lui e Yoko si erano prestati al ruolo di giullari di corte del movimento giovanile.

Cosa hai trovato di oscuro negli animi e nelle menti dei due protagonisti?

La credibilità di una storia e di uno scrittore passa attraverso l’impegno dell’onestà e della sincerità della pagina. Questa scommessa ti costringe a “essere” il personaggio che vuoi rappresentare, volta per volta. Se racconti un dolore, allora sei chiamato a “provare dolore”, e per far ciò devi conoscere le circostanze emotive, gli scenari, la memoria, il passato dei tuoi protagonisti. Così mi sono dovuto immergere nella vita travagliata di Chapman e in quella straordinaria di Lennon. È stato un percorso duro, doloroso e avvincente. Di oscuro ho trovato in Chapman la forza della fissazione. Una forza malvagia che lo ha trascinato nel baratro, che gli ha chiuso le orecchie, che lo ha isolato dal mondo. Ha parlato per anni con un popolo immaginario e ha seguito una voce interiore – il Demonio, lo chiamava lui – in un contraddittorio che ha destabilizzato completamente la sua già fragile psiche e lo ha lasciato solo allo specchio. L’oscurità di Lennon – se proprio dev’essere stigmatizzata – rimanda alle ferite ancora aperte dopo anni di ricerca e terapia: il senso di colpa per essere stato abbandonato dai genitori e per aver perso la madre, il suo bisogno costante di dimostrare al mondo il proprio valore.

Cosa farai questo 8 dicembre a 30 anni dalla morte di Lennon?

Ho delle interviste radiofoniche, parlerò di lui e del fatto che è vivo tra noi, che la sua storia è concime per nuove imprese. Poi ascolterò la sua musica con mia figlia. A lei ho parlato molto di John. Se chiedi ad Eva che cosa è Shoot Me! ti risponde: «È un libro che parla di un padre e di un bambino…»

Chi è diventato realmente immortale tra Chapman e Lennon?

Lennon. Chapman ha solo preso un treno senza ritorno per l’inferno.

Alex Pietrogiacomi

Un bacio sulla bocca

Tiro fuori dall’armadio la mia borsa nera, quella di vernice con sopra il disegno di una lucertola. È un po’ piccola, ma la riempio con tutto quello che ho sottomano. Due T-shirt, un golfino, la felpa dei Rolling Stones con la lingua di fuori, una tuta da ginnastica e le mie Nike predilette. Non contenta, ci metto pure un paio di jeans, una copia di Vanity Fair, un libro di Patrick McGrath e l’ultimo Cd dei Babyshambles. Però, manca qualcosa.

La Gazzetta di Parma è ancora sopra il letto, aperta in terza pagina dal giorno prima. E lì accanto c’è il libro che avevo comprato per te, Andrea. Il tuo regalo di compleanno.

Ieri non ho fatto in tempo a dartelo, così è meglio che ora lo porti via con me. In ogni caso, non lo avresti letto. Non ti sarebbe piaciuto. Io non so cosa ti piace, così ho scelto un libro a caso, un brutto libro, una storia da quattro soldi che parla d’amore, di destino, e di mille occasioni perdute. Eppure, per un attimo, ho creduto che parlasse anche di noi due.

Invece ho scelto male, Andrea.

Ho sbagliato, perché io non ti ho perduto.

Tu sei in tutte le mie parole, nei miei respiri, nei miei più intimi pensieri. Ma questo non lo sai.

Tu non sai nemmeno che esisto.

Non c’è mai stato niente tra noi due, solo un bacio sulla bocca dato un po’ per scherzo, un po’ per noia. Ma io non ti ho dimenticato. Sono passati quasi tre anni da quel bacio, ed io ti ricordo ancora.

Tre anni, sembra incredibile.

Come vola il tempo quando non ci si diverte. Quando ogni fibra del tuo essere, ogni minuscola particella d’energia che gravita nel tuo corpo è tesa verso un solo obiettivo, un solo amore.

L’amore che quelli come te non meritano. L’amore che capita una volta nella vita, quello che nel Trecento veniva cantato dai poeti. Ma io non sono un poeta. Sono una puttana, sono una stronza, sono tutte queste cose, ma di certo non sono un poeta. Allora mi chiedo perché è successo a me e non ad un’altra. Perché mi sono innamorata del tuo cappotto nero, e di quella sciarpa bianca che ti ostinavi a portare fino a primavera. Eppure, conciato così, ricordavi Bela Lugosi ai tempi dell’Uomo Ombra, o David Copperfield, il mago, durante un trucco di scena. E anche i tuoi occhi erano un trucco, Andrea. Sembravano così intensi, così profondi, quando invece erano vuoti. Vuoti, come vuoto è il baratro che si apre ai miei piedi, ogni volta che un amico mi fa il tuo nome, ogni volta che m’imbatto in una tua fotografia. Già, le fotografie. Quelle sono la cosa peggiore. Mi sento impazzire quando, dal fondo di un cassetto, fa capolino la tua fronte alta, o la bocca che ho baciato avidamente, la stessa bocca che poi mi ha detto parole tanto dure.

Tu hai riso del mio amore, Andrea. Ed io ho passato questi ultimi tre anni ad augurarti tutto il male possibile, a maledire ogni tuo passo, ogni tuo gesto. Perché non hai capito niente. Perché senza di te, mi era impossibile anche respirare.

Tu eri la mia aria. Eri la mia vita, il mio spazio, il mio tempo. Eri il cielo stellato che osservavo da bambina, eri il colore sulle pareti della mia casa, il profumo del pane appena fatto che mi svegliava al mattino presto.

Tu eri tutte queste cose, e non lo hai mai capito.

Hai scelto di andare per la tua strada, come oggi io vado per la mia. Tra poche ore, prenderò il treno che mi porta via da questa città, da quest’Emilia che ci ha fatto incontrare. Tornerò a casa e riabbraccerò i vecchi amici. Mi ubriacherò, mi divertirò, e dimostrerò a me stessa, una volta per tutte, che alla fine sei tu quello che ha perso.

Tu hai perso me, non il contrario. E con me, hai perso tutto il resto. Hai perso un amore che non meritavi. E hai perso anche il tuo compleanno, gli auguri, e la festa.

Finalmente, sulla Gazzetta di Parma vedo anche il tuo nome. L’inchiostro viene via e non si legge bene, ma mi pare di capire che non è stata colpa dell’alcol, quanto della roba che hai preso. È quella roba che ti ha ucciso, Andrea. È stata l’eroina, non l’intruglio che hai bevuto. C’è scritto qui, a caratteri piccolissimi. Ma in queste righe non si parla dei tuoi demoni, della tua paura di vivere. Queste righe non spiegano la tua incapacità di essere felice, ed il dolore che, invece, sei in grado di dare a chi ti ama. Sei solo un tossico da terza pagina che ha sfondato il guard rail, uno dei tanti.

La Gazzetta non dice che ieri era il tuo compleanno. Dice solo il nome del cimitero dove ti hanno sepolto. Quello è scritto in grassetto.

Cristiana Danila Formetta

Papà De Pasquale, buona sera

Era un periodo particolare della vita di Luca De Pasquale.
In qualità di amico, beh, diciamo che ero un po’ preoccupato. Ogni volta che andavo a casa sua, nel suo loft specchiato che affacciava su via Pigna, non percepivo più nell’aria la stessa tranquillità di prima. Luca De Pasquale era inquieto, lo avrebbe capito anche un cammello ritardato.
Poi, un giorno succede che trovo Luca De Pasquale conciato come Billy Idol che mi parla di Brendost, di Crain, della Dimensione 2000 (e di come questi fenomeni reagiscano combinati tra loro).
Quella cena si svolse in un clima artico, tra i suoi singhiozzi e i miei perché.
Tra la pasta al sugo e una fetta di pane della Conad, Luca De Pasquale vuotò il sacco: aveva voglia di avere un figlio, un figlio vero. Il cofanetto dei Rolling Stones, con il poster di Mick Jagger poco più che ventenne, non gli bastava più. Un figlio da vestire, da sfamare, un figlio da amare. Un figlio a cui tramandare lo scibile musicale, a cui leggere i propri racconti prima di farlo addormentare.

Sì, Luca De Pasquale aveva un problema. Un vero problema.
Certo, anche volendo – mi disse – dove lo sistemo in 26 metri quadrati un infante? E i soldi? E i libri per la scuola?

Insomma, eravamo nella merda.
Ascoltai devoto De Pasquale mitragliare lacrime napoletane e decisi di fare qualcosa.
Avrei dato un figlio a Luca De Pasquale.
Non biologicamente, certo, ma avrei fornito la prole in eredità al noto scrittore vomerese.
Quella notte, prima di salutarci, guardammo su you tube una serie di risse di Sgarbi e di gol di Batistuta e capii in che direzione dovevo muovermi. Diedi la mano a Luca De Pasquale e, prima di svicolare definitivamente dal suo loft specchiato, gli feci una promessa: Luca De Pasquale farò qualcosa per te, te lo giuro su Maradona e su Dio Universale. E solo lui conosceva la reazione di questi due fenomeni combinati insieme.
Scesi in strada, il freddo schiarì definitivamente le idee. Il giorno seguente sarebbe partita la mia missione.

Mi svegliai di buon ora (la mezza) e mi recai in un’agenzia del centro che affittava macchine, scooter, motoscafi e mongolfiere alimentate dal sacro fuoco di Brendon. Noleggiai una Panda bianca, annata ’82 come i mondiali di Espana (targata NA Y87632), e – fatto il pieno di benzina e Dimensione Acrain – presi l’autostrada.
Sarei andato in Romania a prendere un figlio a Luca De Pasquale. Un bel bimbo biondo, ignifugo al fuoco sacro di Crain e Brendost, possibilmente agghindato in una maglia di calcio pezzotta di qualche squadra italiana. Questi, i requisiti che avevo letto nelle parole di Luca De Pasquale.
Mi gonfiai il petto d’orgoglio in un respiro pavone: ce l’avrei fatta e Luca De Pasquale sarebbe stato di nuovo contento. Sarebbe tornato a scrivere di cosce tornite in calze sguainate, di coiti a ritmo di Progressive Rock e di monolocali. Insomma, avrei donato al mondo – nuovamente – il miglior scrittore della provincia oscura.
All’altezza di Bologna rischiai, però, di prendere fuoco. Crain e Brendost facevano l’autostop in una piazzola d’emergenza ed io non li avevo riconosciuti a primo acchito. Avevo addirittura fermato la Panda (a “piede”, ché i freni, dopo una certa velocità, perdevano colpi) per farli salire ma, fortunatamente, mi resi conto in tempo che i due fenomeni, combinati, mi avrebbero fatto prendere fuoco all’istante. Sgommai via in una nube di fumo. Dovevo tenere gli occhi aperti 24 ore su 24; Brendon e la Dimensione 2000 mi stavano col fiato sul collo, mi erano ostili, era evidente.
Se mi fossi rilassato un solo istante mi avrebbero fatto prendere fuoco come un arrosticino dimenticato sul grill e arrivederci alla Romania, al sorriso di Luca De Pasquale e alla letteratura italiana del primo XXI secolo.
Arrivai al confine dopo venti ore di viaggio, con la Panda per metà in fiamme. Valicai la dogana a Tarvisio travestito da monaco leghista, con la maschera popolare del luogo (Borghezio Power Ranger) così da non destare sospetti, e mi addentrai nel ventre dell’est Europa.
Avrei traversato l’impervia Slovenia prima di arrivare in Ungheria, dove avrei fatto una breve sosta di qualche ora per girare un porno ambientato in un casinò barocco.
Ma le cose non andarono esattamente secondo i piani.

Vissi avventure incredibili; tra fiches, vibratori al gusto lampone selvatico e seni rifatti che parevano budini Cameo. Divenni Marco “twentyfour” Marsullo e la gente iniziò a riconoscermi per strada. Mi salutavano, inneggiando al sesso libero.

La ricchezza mi diede alla testa; in breve tempo i fumi viscidi del danaro – manna ingannatrice mandatami da Crain in persona – mi destabilizzarono, impedendomi di ricordare la missione per cui ero partito dall’Italia appena qualche giorno prima.
Poi, come d’incanto, la mia illuminazione sulla via di Damasco. Mi apparve, vivido come se non fosse un sogno ma la vera verità, Giuliano dei Negramaro che danzava sinuoso su un motivetto un pop porno.
Giuliano dei Negramaro mi ricordò il perché di tutto questo, riconsegnandomi le chiavi della Panda – che avevo scioccamente sostituito con una Saab decappottabile – dicendomi che per il pieno di benza ci aveva pensato lui. Lo ringraziai, lui si spogliò e mi obbligò a guardarlo avere sei rapporti sessuali con se stesso. Lo scotto da pagare per chi perdeva la retta via, pensai.
Il mattino seguente, dismessi i panni del pornodivo magiaro e fattomi laserare via il tatuaggio di Rocco a Praga, mi rimisi nella Panda, pronto a traversare gli ultimi chilometri della mia Odissea personale.
Mi accorsi che Giuliano dei Negramaro aveva lasciato sul sediolino posteriore dei suoi slip usati. Deciso a non farmi più distrarre da nulla, li scaraventai fuori dal finestrino e sgommai alla volta della Romania.

Dopo qualche ora sulle strade rumene, mi parve di essere tornato a casa, nella Napoli che ricordavo. Groviere d’asfalti e pozze d’acqua marroni mi accolsero, come presagio di labirinto mentale. Era chiaro che Crain, Brendost e perfino Brendon, si erano adunati al confine tra la Romania e la Dimensione 2000 per farmi perire, proprio a pochi passi dalla meta.
Raggiunsi Otopeni, piccolo sobborgo nei pressi di Bucarest. Avevo letto su internet che lì scambiavano bambini, sani e bellissimi, con figurine di Roberto Baggio e Totò Schillaci. Ovviamente ero pieno di effigi dei due celebri calciatori.
Arrivai nel centro abitato e venni accolto da festoni colorati e dalla banda cittadina, vestita con le maglie della Dinamo Bucarest (mi dissero poi che era il loro completo per la festa). Venni sfamato, vezzeggiato e proclamato cittadino onorario. Il sindaco, un trans di nome Venezuela, mi consegnò le chiavi della città. La Panda venne lavata, a mano, da degli immigrati calabresi. Mi dissero che al mattino seguente mi avrebbero portato al bambile per scegliere l’infante che avrei preferito, ma prima volevano vedere la merce, le figurine. Con una certa tracotanza sbattei sul tavolo il codino di Baggio e gli occhi spiritati di Schillaci durante Italia ’90. Un boato accompagnò il movimento.
Festeggiammo per il resto della notte con le note di “Vamos a bailar” di Paola und Chiara, tra fiumi di vino in cartone e dolci calabresi fatti in casa.
Mi portarono, che era praticamente l’alba, nella mia tenda, augurandomi una buona notte. Dopo qualche ora saremmo andati a scegliere il bambino.

Il bambile era un luogo tutt’altro che deprecabile. I bambini erano tenuti in ampie gabbie riscaldate, con timer automatici per il rifornimento di acqua e biscotti Plasmon, che irrigavano le ciotole dall’alto con un meccanismo computerizzato gestito da un Ibm 3.86 (compatibile).
Fui molto critico nell’osservare i marmocchi. Luca De Pasquale si meritava il meglio, non avevo dimenticato i requisiti di scelta, ma pareva non esserci trippa per gatti. Chi era troppo grasso, chi non aveva un occhio, chi era convinto di essere un vampiro. Insomma, stavo per mollare e riprendermi la mia figurina di Baggio che calcia la punizione con la maglia della Juve, quando in un angolo notai un bimbo mingherlino fasciato da una maglia della Cremonese degli anni ’90, quella col numero 11 di Andrea Tentoni, ex idolo della curva di Cremona. I fluenti capelli biondi coprivano un po’ gli occhi azzurri, e un sorriso sdentato sembrava dire: “Prendimi, prendimi, forza Cremonese, alè alè”.
Non esitai oltre. Indicai l’infante e scelsi di portarlo con me. Rinunciai alla confezione regalo, salutai i miei amici rumeni (ancora la banda cittadina accompagnava l’operazione, intonando stavolta una canzone di Sabrina Salerno) e mi rimisi in viaggio per tornare in Italia con Florian, il nuovo figlio di Luca De Pasquale.

Mentre macinavo i chilometri nel verso opposto, pregustavo la faccia di Luca De Pasquale che, al ritorno dal reparto dischi dalla Knack, avrebbe trovato in casa Florian. Florian De Pasquale.
Insegnai, nei due giorni di viaggio, l’italiano al bimbo. Gli fissai in mente delle frasi da dire una volta visto il nuovo genitore. Florian sembrava piuttosto recettivo, tant’è che aveva imparato tutto a menadito già all’altezza di Padova Est.
Le ultime ore di viaggio sgusciarono via in un tramonto che sapeva di liberazione: ce l’avevo fatta.
Quella notte, quando arrivai a Napoli, uscii direttamente al Vomero dalla tangenziale (andando piano perché c’erano i tutor attivi), direzione via Pigna.
Entrai nel palazzo di Luca De Pasquale che Luca De Pasquale non era ancora tornato. Ne avevo la certezza perché quel giorno, in Knack, aveva il turno dalle 6 alle 24.
Corsi con Florian fino al secondo piano dello stabile e, arrivato di fronte alla porta di Luca De Pasquale, la sfondai con un calcio.
Stella, la gatta strabica, mi accolse rotolandosi sul marmo gelido. L’accarezzai e la feci socializzare con Florian, che pareva amasse gli animali.
Preparai una pasta al sugo col battuto GS e attesi che Luca De Pasquale tornasse dalla Knack per mostrargli la clamorosa sorpresa. Florian sembrava vivesse lì da sempre. Aveva già iniziato a giocare con i dischi dei Prodigy, costruendo una tana con i vinili e i cuscini del letto.
Poco dopo la mezzanotte sentii la porta aprirsi (a mano, era sfondata!) e vidi un intimorito Luca De Pasquale solcare il mini corridoio per arrivare nel salotto (che poi è il resto del loft).
Appena mi vide rasserenò il volto in un’espressione compiaciuta. Sorrise liberato, dicendomi che aveva avuto paura che ad entrare fosse stato Crain o, peggio ancora, Brendost l’ignifugo. Solo che, non vedendo il fuoco, si era insospettito. Era stanco in volto e nei gesti.
Gli dissi: “Luca De Pasquale ho una sorpresa per te, guarda!” e lasciai uscire da sotto il letto Florian, ancora avvolto nella maglia della Cremonese di Tentoni.
Il bimbo, riconosciuto il nuovo padre dalla mia descrizione sommaria, gli saltò al collo.
“Papà De Pasquale! Scrittore! Papà De Pasquale! Buona sera”.
Luca De Pasquale scoppiò a piangere e iniziò a maledire Crain, Brendon, Brendost, la Dimensione 2000 e Dio Universale.
Da allora Luca De Pasquale e Florian De Pasquale vivono insieme nel loro loft, giocando a subbuteo, ascoltando heavy metal e leggendo, rigorosamente insieme, i racconti che papà De Pasquale scrive ogni notte. Tra cosce tornite e autoreggenti ombrate.

Nota dell’autore:

Crain, Brandost, Acrain, Brendon, Dimensione 2000 e Dio Universale, sono parti della mente del notorio mago campano Gennaro D’Auria.

Durante la stesura di questo racconto nessun bambino è stato maltratto. Solo la lingua italiana, ne ha risentito un po’. Ma niente di che.

Marco Marsullo