ContraSens – I cani parigini

di Dan Lungu
Traduzione di Clara Mitola

Sono nato nel 1969 a Botoșani e ho scritto alcuni libri di letteratura. Per quel che riguarda il turista che è in me, le cose sono complicate. Se ci penso bene, in effetti, viaggiare non mi è mai piaciuto in modo speciale. Oltre a questo, i primi viaggi, in Romania o all’estero, mi hanno affascinato. La dislocazione dallo spazio abituale e la scoperta di un nuovo mondo mi hanno dato una sensazione di vitalità che, in base ai viaggi, si rafforza o va sfumando. Adesso, quando vedo troppi posti nuovi in una volta, divento come irritabile. E l’unico rimedio è la lettura. Leggo moltissimo quando viaggio, e delle volte mi prende così tanto che rimango in hotel, perdendomi un sacco di “obiettivi turistici”.

Ho compiuto 20 anni giusto nel 1989, e non avevo mai desiderato visitare l’Occidente. In effetti “avevo desiderato” non è l’espressione migliore – molto più veritiero sarebbe dire che una cosa del genere non mi era nemmeno mai passata per la testa. In particolare mi misuravo – in modo confuso, istintivo – con il desiderio di fuggire dal paese, come avevo sentito che succedeva, e non con quello razionale di fare un’escursione in un altro dei paesi del “lager socialista”, come sarebbe stato possibile. Alcuni amici che avevano viaggiato in Bulgaria, Polonia, Ungheria, Unione Sovietica o nella ex DDR, da dove portavano “adidași1”, gomma o mangianastri, avrei potuto desiderare una di queste mete, mentre Francia o Gran Bretagna, per non dire Stati Uniti, non esistevano nella mappa mentale delle possibilità della mia generazione.
Così la mia prima uscita “all’esterno” ha avuto luogo dopo il 1991. Ero uno studente di Sociologia ed ero stato selezionato per uno scambio di esperienze in Francia, insieme ad altri sette o otto colleghi, in un progetto di sociologia rurale. Bisognava andare da qualche parte nel sud-ovest dell’esagono e fare osservazioni in merito ai terreni di certi piccoli proprietari. Per raggiungere quella zona della Francia bisognava cambiare treno a Parigi. Leggi il resto dell’articolo

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ContraSens – londra parigi new york

Poesia di Ruxandra Novac
Traduzione di Clara Mitola

londra parigi new york Leggi il resto dell’articolo

ContraSens – Il primo “Pâh” ovvero Come sono entrato nella nebbia.

Piccoli accorgimenti fonetico-sociali.

Le lettere che contraddistinguono i suoni della lingua romena, e che di conseguenza ne affilano la musicalità in senso specifico, in questi testi non hanno subito traslitterazione. A seguire, una breve guida fonetico-esplicativa per la loro lettura corretta:
Ă: una -a più gutturale, pronunciata con la parte anteriore della gola, a bocca mezza aperta.
Â: una -a gutturale che tende alla -i.
Ț: corrisponde ad una -z dura, come in pazzo.
Ș: corrisponde al suono -sc, come in sciare.
Buona lettura.

Il primo “Pâh” ovvero Come sono entrato nella nebbia.

di Vasile Ernu
Traduzione Clara Mitola

Il mito racconta che Vasile Ernu sia nato nella soleggiata eroica-città di Odessa della gelida URSS. Ha umorismo a sufficienza e ironia klezmer, una miscuglio ebreo-russo-valacco, tanto da non prendersi troppo sul serio, ma da essere lucido a sufficienza. Gli piacciono i fiori e gli indumenti di canapa, non fuma il calumet della pace tranne che per nobili scopi, quando vuole trovare i significati nascosti della vita. Ammira quelli che sanno buttar fuori anelli di fumo ben controllati e ben ritmati.

Sono stato un bambino con un’educazione assai speciale per i tempi e il luogo in cui sono nato. Sono un prodotto fuori dal comune. Come piace dire al mio amico Astvațautorov, anche lui è uno strano miscuglio, noi eravamo giocattoli dei quali si sa già tutto fin dalla fabbrica. Nonostante alcune “disfunzioni storiche”, siamo comunque stati “giocattoli” abbastanza riusciti, dico ora guardando indietro. I nostri genitori ci volevano in un certo modo, la scuola sovietica, come ogni altra scuola, ci voleva in un altro, e gli amici più grandi della scala del palazzo ci volevano in un altro modo ancora. I miei genitori, che per parte loro avevano una severa educazione protestante con regole chiare e rigorose, mi facevano fare i compiti a ore fisse, andavo in chiesa con un rigore invidiabile, conoscevo le Scritture come soltanto il rabbino all’angolo della strada le conosceva e andavo anche a scuola di musica, poiché così si conviene a un bambino di famiglia protestante. La scuola sovietica aveva anche le sue regole. Aveva qualcosa dell’etica puritana, superata solo dall’etica spartana e dal protestantesimo puritano, sebbene negli anni ’80 fosse in decomposizione. Leggi il resto dell’articolo

Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 3

Ho scoperto che le uova bianche, più piccole e allungate, sono di gallina bianca. Le uova delle anatre, invece, c’hanno il guscio verde. Sabato, nel tardo pomeriggio, sono tornato a Roma. Roma l’ho vista, toccata e me ne sono andato. Domenica prima di pranzo ho visto il Ghelli, mi ha chiesto della vita di campagna, e parlando con lui di questa storia delle uova si è finiti a parlare di uova di struzzo. Il discorso nasceva da una strampalata idea di andare a vivere, una trentina di persone, in un villaggio diroccato per creare, da un piccolo borgo abbandonato, una piccola comunità, un villaggio autosufficiente dove poter vivere. Fantasticando su progetti impossibili Leggi il resto dell’articolo

Mekmetal Spa

La rubrica Interlinea ƒ64 nasce dalla collaborazione tra La Rotta per Itaca e Scrittori precari: una volta al mese, uno scrittore, leggendo tra le righe di una fotografia, ci ha raccontato una storia in profondità di campo.

Quello che segue è il quarto e (per adesso) ultimo racconto in vista della pausa estiva.

di Nadia Turrin da una foto di Andrea Pozzato

I muri esterni della Mekmetal Spa sono gli stessi da decenni. Scrostati, incolori, con crepe profonde attorno alle finestrelle, e le centraline della corrente elettrica circondate da inquietanti cavi scoperti e tubi marci di umidità.

«Perché cazzo il sig. Weiner non mette a posto quei cavi, con tutti i soldi che ha?» si chiedono da anni in molti, passando davanti a quei muri.

E da anni c’è sempre qualcuno che replica : «È da tanto che il sig. Weiner vuole rifare tutto, ma poverino, ne ha sempre una. Prima ha dovuto investire nello stabilimento in Romania, che se no non ce l’avrebbe più fatta coi costi di produzione di Bolzano. Poi sono arrivati i cinesi a fare concorrenza. Adesso c’è la CRISI. Poverino!» In ogni caso, ad ogni tornata di licenziamento di massa qualche operaio si è suicidato, mentre il sig. Weiner è sempre vivo. Sarà. Leggi il resto dell’articolo

Papà De Pasquale, buona sera

Era un periodo particolare della vita di Luca De Pasquale.
In qualità di amico, beh, diciamo che ero un po’ preoccupato. Ogni volta che andavo a casa sua, nel suo loft specchiato che affacciava su via Pigna, non percepivo più nell’aria la stessa tranquillità di prima. Luca De Pasquale era inquieto, lo avrebbe capito anche un cammello ritardato.
Poi, un giorno succede che trovo Luca De Pasquale conciato come Billy Idol che mi parla di Brendost, di Crain, della Dimensione 2000 (e di come questi fenomeni reagiscano combinati tra loro).
Quella cena si svolse in un clima artico, tra i suoi singhiozzi e i miei perché.
Tra la pasta al sugo e una fetta di pane della Conad, Luca De Pasquale vuotò il sacco: aveva voglia di avere un figlio, un figlio vero. Il cofanetto dei Rolling Stones, con il poster di Mick Jagger poco più che ventenne, non gli bastava più. Un figlio da vestire, da sfamare, un figlio da amare. Un figlio a cui tramandare lo scibile musicale, a cui leggere i propri racconti prima di farlo addormentare.

Sì, Luca De Pasquale aveva un problema. Un vero problema.
Certo, anche volendo – mi disse – dove lo sistemo in 26 metri quadrati un infante? E i soldi? E i libri per la scuola?

Insomma, eravamo nella merda.
Ascoltai devoto De Pasquale mitragliare lacrime napoletane e decisi di fare qualcosa.
Avrei dato un figlio a Luca De Pasquale.
Non biologicamente, certo, ma avrei fornito la prole in eredità al noto scrittore vomerese.
Quella notte, prima di salutarci, guardammo su you tube una serie di risse di Sgarbi e di gol di Batistuta e capii in che direzione dovevo muovermi. Diedi la mano a Luca De Pasquale e, prima di svicolare definitivamente dal suo loft specchiato, gli feci una promessa: Luca De Pasquale farò qualcosa per te, te lo giuro su Maradona e su Dio Universale. E solo lui conosceva la reazione di questi due fenomeni combinati insieme.
Scesi in strada, il freddo schiarì definitivamente le idee. Il giorno seguente sarebbe partita la mia missione.

Mi svegliai di buon ora (la mezza) e mi recai in un’agenzia del centro che affittava macchine, scooter, motoscafi e mongolfiere alimentate dal sacro fuoco di Brendon. Noleggiai una Panda bianca, annata ’82 come i mondiali di Espana (targata NA Y87632), e – fatto il pieno di benzina e Dimensione Acrain – presi l’autostrada.
Sarei andato in Romania a prendere un figlio a Luca De Pasquale. Un bel bimbo biondo, ignifugo al fuoco sacro di Crain e Brendost, possibilmente agghindato in una maglia di calcio pezzotta di qualche squadra italiana. Questi, i requisiti che avevo letto nelle parole di Luca De Pasquale.
Mi gonfiai il petto d’orgoglio in un respiro pavone: ce l’avrei fatta e Luca De Pasquale sarebbe stato di nuovo contento. Sarebbe tornato a scrivere di cosce tornite in calze sguainate, di coiti a ritmo di Progressive Rock e di monolocali. Insomma, avrei donato al mondo – nuovamente – il miglior scrittore della provincia oscura.
All’altezza di Bologna rischiai, però, di prendere fuoco. Crain e Brendost facevano l’autostop in una piazzola d’emergenza ed io non li avevo riconosciuti a primo acchito. Avevo addirittura fermato la Panda (a “piede”, ché i freni, dopo una certa velocità, perdevano colpi) per farli salire ma, fortunatamente, mi resi conto in tempo che i due fenomeni, combinati, mi avrebbero fatto prendere fuoco all’istante. Sgommai via in una nube di fumo. Dovevo tenere gli occhi aperti 24 ore su 24; Brendon e la Dimensione 2000 mi stavano col fiato sul collo, mi erano ostili, era evidente.
Se mi fossi rilassato un solo istante mi avrebbero fatto prendere fuoco come un arrosticino dimenticato sul grill e arrivederci alla Romania, al sorriso di Luca De Pasquale e alla letteratura italiana del primo XXI secolo.
Arrivai al confine dopo venti ore di viaggio, con la Panda per metà in fiamme. Valicai la dogana a Tarvisio travestito da monaco leghista, con la maschera popolare del luogo (Borghezio Power Ranger) così da non destare sospetti, e mi addentrai nel ventre dell’est Europa.
Avrei traversato l’impervia Slovenia prima di arrivare in Ungheria, dove avrei fatto una breve sosta di qualche ora per girare un porno ambientato in un casinò barocco.
Ma le cose non andarono esattamente secondo i piani.

Vissi avventure incredibili; tra fiches, vibratori al gusto lampone selvatico e seni rifatti che parevano budini Cameo. Divenni Marco “twentyfour” Marsullo e la gente iniziò a riconoscermi per strada. Mi salutavano, inneggiando al sesso libero.

La ricchezza mi diede alla testa; in breve tempo i fumi viscidi del danaro – manna ingannatrice mandatami da Crain in persona – mi destabilizzarono, impedendomi di ricordare la missione per cui ero partito dall’Italia appena qualche giorno prima.
Poi, come d’incanto, la mia illuminazione sulla via di Damasco. Mi apparve, vivido come se non fosse un sogno ma la vera verità, Giuliano dei Negramaro che danzava sinuoso su un motivetto un pop porno.
Giuliano dei Negramaro mi ricordò il perché di tutto questo, riconsegnandomi le chiavi della Panda – che avevo scioccamente sostituito con una Saab decappottabile – dicendomi che per il pieno di benza ci aveva pensato lui. Lo ringraziai, lui si spogliò e mi obbligò a guardarlo avere sei rapporti sessuali con se stesso. Lo scotto da pagare per chi perdeva la retta via, pensai.
Il mattino seguente, dismessi i panni del pornodivo magiaro e fattomi laserare via il tatuaggio di Rocco a Praga, mi rimisi nella Panda, pronto a traversare gli ultimi chilometri della mia Odissea personale.
Mi accorsi che Giuliano dei Negramaro aveva lasciato sul sediolino posteriore dei suoi slip usati. Deciso a non farmi più distrarre da nulla, li scaraventai fuori dal finestrino e sgommai alla volta della Romania.

Dopo qualche ora sulle strade rumene, mi parve di essere tornato a casa, nella Napoli che ricordavo. Groviere d’asfalti e pozze d’acqua marroni mi accolsero, come presagio di labirinto mentale. Era chiaro che Crain, Brendost e perfino Brendon, si erano adunati al confine tra la Romania e la Dimensione 2000 per farmi perire, proprio a pochi passi dalla meta.
Raggiunsi Otopeni, piccolo sobborgo nei pressi di Bucarest. Avevo letto su internet che lì scambiavano bambini, sani e bellissimi, con figurine di Roberto Baggio e Totò Schillaci. Ovviamente ero pieno di effigi dei due celebri calciatori.
Arrivai nel centro abitato e venni accolto da festoni colorati e dalla banda cittadina, vestita con le maglie della Dinamo Bucarest (mi dissero poi che era il loro completo per la festa). Venni sfamato, vezzeggiato e proclamato cittadino onorario. Il sindaco, un trans di nome Venezuela, mi consegnò le chiavi della città. La Panda venne lavata, a mano, da degli immigrati calabresi. Mi dissero che al mattino seguente mi avrebbero portato al bambile per scegliere l’infante che avrei preferito, ma prima volevano vedere la merce, le figurine. Con una certa tracotanza sbattei sul tavolo il codino di Baggio e gli occhi spiritati di Schillaci durante Italia ’90. Un boato accompagnò il movimento.
Festeggiammo per il resto della notte con le note di “Vamos a bailar” di Paola und Chiara, tra fiumi di vino in cartone e dolci calabresi fatti in casa.
Mi portarono, che era praticamente l’alba, nella mia tenda, augurandomi una buona notte. Dopo qualche ora saremmo andati a scegliere il bambino.

Il bambile era un luogo tutt’altro che deprecabile. I bambini erano tenuti in ampie gabbie riscaldate, con timer automatici per il rifornimento di acqua e biscotti Plasmon, che irrigavano le ciotole dall’alto con un meccanismo computerizzato gestito da un Ibm 3.86 (compatibile).
Fui molto critico nell’osservare i marmocchi. Luca De Pasquale si meritava il meglio, non avevo dimenticato i requisiti di scelta, ma pareva non esserci trippa per gatti. Chi era troppo grasso, chi non aveva un occhio, chi era convinto di essere un vampiro. Insomma, stavo per mollare e riprendermi la mia figurina di Baggio che calcia la punizione con la maglia della Juve, quando in un angolo notai un bimbo mingherlino fasciato da una maglia della Cremonese degli anni ’90, quella col numero 11 di Andrea Tentoni, ex idolo della curva di Cremona. I fluenti capelli biondi coprivano un po’ gli occhi azzurri, e un sorriso sdentato sembrava dire: “Prendimi, prendimi, forza Cremonese, alè alè”.
Non esitai oltre. Indicai l’infante e scelsi di portarlo con me. Rinunciai alla confezione regalo, salutai i miei amici rumeni (ancora la banda cittadina accompagnava l’operazione, intonando stavolta una canzone di Sabrina Salerno) e mi rimisi in viaggio per tornare in Italia con Florian, il nuovo figlio di Luca De Pasquale.

Mentre macinavo i chilometri nel verso opposto, pregustavo la faccia di Luca De Pasquale che, al ritorno dal reparto dischi dalla Knack, avrebbe trovato in casa Florian. Florian De Pasquale.
Insegnai, nei due giorni di viaggio, l’italiano al bimbo. Gli fissai in mente delle frasi da dire una volta visto il nuovo genitore. Florian sembrava piuttosto recettivo, tant’è che aveva imparato tutto a menadito già all’altezza di Padova Est.
Le ultime ore di viaggio sgusciarono via in un tramonto che sapeva di liberazione: ce l’avevo fatta.
Quella notte, quando arrivai a Napoli, uscii direttamente al Vomero dalla tangenziale (andando piano perché c’erano i tutor attivi), direzione via Pigna.
Entrai nel palazzo di Luca De Pasquale che Luca De Pasquale non era ancora tornato. Ne avevo la certezza perché quel giorno, in Knack, aveva il turno dalle 6 alle 24.
Corsi con Florian fino al secondo piano dello stabile e, arrivato di fronte alla porta di Luca De Pasquale, la sfondai con un calcio.
Stella, la gatta strabica, mi accolse rotolandosi sul marmo gelido. L’accarezzai e la feci socializzare con Florian, che pareva amasse gli animali.
Preparai una pasta al sugo col battuto GS e attesi che Luca De Pasquale tornasse dalla Knack per mostrargli la clamorosa sorpresa. Florian sembrava vivesse lì da sempre. Aveva già iniziato a giocare con i dischi dei Prodigy, costruendo una tana con i vinili e i cuscini del letto.
Poco dopo la mezzanotte sentii la porta aprirsi (a mano, era sfondata!) e vidi un intimorito Luca De Pasquale solcare il mini corridoio per arrivare nel salotto (che poi è il resto del loft).
Appena mi vide rasserenò il volto in un’espressione compiaciuta. Sorrise liberato, dicendomi che aveva avuto paura che ad entrare fosse stato Crain o, peggio ancora, Brendost l’ignifugo. Solo che, non vedendo il fuoco, si era insospettito. Era stanco in volto e nei gesti.
Gli dissi: “Luca De Pasquale ho una sorpresa per te, guarda!” e lasciai uscire da sotto il letto Florian, ancora avvolto nella maglia della Cremonese di Tentoni.
Il bimbo, riconosciuto il nuovo padre dalla mia descrizione sommaria, gli saltò al collo.
“Papà De Pasquale! Scrittore! Papà De Pasquale! Buona sera”.
Luca De Pasquale scoppiò a piangere e iniziò a maledire Crain, Brendon, Brendost, la Dimensione 2000 e Dio Universale.
Da allora Luca De Pasquale e Florian De Pasquale vivono insieme nel loro loft, giocando a subbuteo, ascoltando heavy metal e leggendo, rigorosamente insieme, i racconti che papà De Pasquale scrive ogni notte. Tra cosce tornite e autoreggenti ombrate.

Nota dell’autore:

Crain, Brandost, Acrain, Brendon, Dimensione 2000 e Dio Universale, sono parti della mente del notorio mago campano Gennaro D’Auria.

Durante la stesura di questo racconto nessun bambino è stato maltratto. Solo la lingua italiana, ne ha risentito un po’. Ma niente di che.

Marco Marsullo