Papà De Pasquale, buona sera
febbraio 8, 2010 3 commenti
Era un periodo particolare della vita di Luca De Pasquale.
In qualità di amico, beh, diciamo che ero un po’ preoccupato. Ogni volta che andavo a casa sua, nel suo loft specchiato che affacciava su via Pigna, non percepivo più nell’aria la stessa tranquillità di prima. Luca De Pasquale era inquieto, lo avrebbe capito anche un cammello ritardato.
Poi, un giorno succede che trovo Luca De Pasquale conciato come Billy Idol che mi parla di Brendost, di Crain, della Dimensione 2000 (e di come questi fenomeni reagiscano combinati tra loro).
Quella cena si svolse in un clima artico, tra i suoi singhiozzi e i miei perché.
Tra la pasta al sugo e una fetta di pane della Conad, Luca De Pasquale vuotò il sacco: aveva voglia di avere un figlio, un figlio vero. Il cofanetto dei Rolling Stones, con il poster di Mick Jagger poco più che ventenne, non gli bastava più. Un figlio da vestire, da sfamare, un figlio da amare. Un figlio a cui tramandare lo scibile musicale, a cui leggere i propri racconti prima di farlo addormentare.
Sì, Luca De Pasquale aveva un problema. Un vero problema.
Certo, anche volendo – mi disse – dove lo sistemo in 26 metri quadrati un infante? E i soldi? E i libri per la scuola?
Insomma, eravamo nella merda.
Ascoltai devoto De Pasquale mitragliare lacrime napoletane e decisi di fare qualcosa.
Avrei dato un figlio a Luca De Pasquale.
Non biologicamente, certo, ma avrei fornito la prole in eredità al noto scrittore vomerese.
Quella notte, prima di salutarci, guardammo su you tube una serie di risse di Sgarbi e di gol di Batistuta e capii in che direzione dovevo muovermi. Diedi la mano a Luca De Pasquale e, prima di svicolare definitivamente dal suo loft specchiato, gli feci una promessa: Luca De Pasquale farò qualcosa per te, te lo giuro su Maradona e su Dio Universale. E solo lui conosceva la reazione di questi due fenomeni combinati insieme.
Scesi in strada, il freddo schiarì definitivamente le idee. Il giorno seguente sarebbe partita la mia missione.
Mi svegliai di buon ora (la mezza) e mi recai in un’agenzia del centro che affittava macchine, scooter, motoscafi e mongolfiere alimentate dal sacro fuoco di Brendon. Noleggiai una Panda bianca, annata ’82 come i mondiali di Espana (targata NA Y87632), e – fatto il pieno di benzina e Dimensione Acrain – presi l’autostrada.
Sarei andato in Romania a prendere un figlio a Luca De Pasquale. Un bel bimbo biondo, ignifugo al fuoco sacro di Crain e Brendost, possibilmente agghindato in una maglia di calcio pezzotta di qualche squadra italiana. Questi, i requisiti che avevo letto nelle parole di Luca De Pasquale.
Mi gonfiai il petto d’orgoglio in un respiro pavone: ce l’avrei fatta e Luca De Pasquale sarebbe stato di nuovo contento. Sarebbe tornato a scrivere di cosce tornite in calze sguainate, di coiti a ritmo di Progressive Rock e di monolocali. Insomma, avrei donato al mondo – nuovamente – il miglior scrittore della provincia oscura.
All’altezza di Bologna rischiai, però, di prendere fuoco. Crain e Brendost facevano l’autostop in una piazzola d’emergenza ed io non li avevo riconosciuti a primo acchito. Avevo addirittura fermato la Panda (a “piede”, ché i freni, dopo una certa velocità, perdevano colpi) per farli salire ma, fortunatamente, mi resi conto in tempo che i due fenomeni, combinati, mi avrebbero fatto prendere fuoco all’istante. Sgommai via in una nube di fumo. Dovevo tenere gli occhi aperti 24 ore su 24; Brendon e la Dimensione 2000 mi stavano col fiato sul collo, mi erano ostili, era evidente.
Se mi fossi rilassato un solo istante mi avrebbero fatto prendere fuoco come un arrosticino dimenticato sul grill e arrivederci alla Romania, al sorriso di Luca De Pasquale e alla letteratura italiana del primo XXI secolo.
Arrivai al confine dopo venti ore di viaggio, con la Panda per metà in fiamme. Valicai la dogana a Tarvisio travestito da monaco leghista, con la maschera popolare del luogo (Borghezio Power Ranger) così da non destare sospetti, e mi addentrai nel ventre dell’est Europa.
Avrei traversato l’impervia Slovenia prima di arrivare in Ungheria, dove avrei fatto una breve sosta di qualche ora per girare un porno ambientato in un casinò barocco.
Ma le cose non andarono esattamente secondo i piani.
Vissi avventure incredibili; tra fiches, vibratori al gusto lampone selvatico e seni rifatti che parevano budini Cameo. Divenni Marco “twentyfour” Marsullo e la gente iniziò a riconoscermi per strada. Mi salutavano, inneggiando al sesso libero.
La ricchezza mi diede alla testa; in breve tempo i fumi viscidi del danaro – manna ingannatrice mandatami da Crain in persona – mi destabilizzarono, impedendomi di ricordare la missione per cui ero partito dall’Italia appena qualche giorno prima.
Poi, come d’incanto, la mia illuminazione sulla via di Damasco. Mi apparve, vivido come se non fosse un sogno ma la vera verità, Giuliano dei Negramaro che danzava sinuoso su un motivetto un pop porno.
Giuliano dei Negramaro mi ricordò il perché di tutto questo, riconsegnandomi le chiavi della Panda – che avevo scioccamente sostituito con una Saab decappottabile – dicendomi che per il pieno di benza ci aveva pensato lui. Lo ringraziai, lui si spogliò e mi obbligò a guardarlo avere sei rapporti sessuali con se stesso. Lo scotto da pagare per chi perdeva la retta via, pensai.
Il mattino seguente, dismessi i panni del pornodivo magiaro e fattomi laserare via il tatuaggio di Rocco a Praga, mi rimisi nella Panda, pronto a traversare gli ultimi chilometri della mia Odissea personale.
Mi accorsi che Giuliano dei Negramaro aveva lasciato sul sediolino posteriore dei suoi slip usati. Deciso a non farmi più distrarre da nulla, li scaraventai fuori dal finestrino e sgommai alla volta della Romania.
Dopo qualche ora sulle strade rumene, mi parve di essere tornato a casa, nella Napoli che ricordavo. Groviere d’asfalti e pozze d’acqua marroni mi accolsero, come presagio di labirinto mentale. Era chiaro che Crain, Brendost e perfino Brendon, si erano adunati al confine tra la Romania e la Dimensione 2000 per farmi perire, proprio a pochi passi dalla meta.
Raggiunsi Otopeni, piccolo sobborgo nei pressi di Bucarest. Avevo letto su internet che lì scambiavano bambini, sani e bellissimi, con figurine di Roberto Baggio e Totò Schillaci. Ovviamente ero pieno di effigi dei due celebri calciatori.
Arrivai nel centro abitato e venni accolto da festoni colorati e dalla banda cittadina, vestita con le maglie della Dinamo Bucarest (mi dissero poi che era il loro completo per la festa). Venni sfamato, vezzeggiato e proclamato cittadino onorario. Il sindaco, un trans di nome Venezuela, mi consegnò le chiavi della città. La Panda venne lavata, a mano, da degli immigrati calabresi. Mi dissero che al mattino seguente mi avrebbero portato al bambile per scegliere l’infante che avrei preferito, ma prima volevano vedere la merce, le figurine. Con una certa tracotanza sbattei sul tavolo il codino di Baggio e gli occhi spiritati di Schillaci durante Italia ’90. Un boato accompagnò il movimento.
Festeggiammo per il resto della notte con le note di “Vamos a bailar” di Paola und Chiara, tra fiumi di vino in cartone e dolci calabresi fatti in casa.
Mi portarono, che era praticamente l’alba, nella mia tenda, augurandomi una buona notte. Dopo qualche ora saremmo andati a scegliere il bambino.
Il bambile era un luogo tutt’altro che deprecabile. I bambini erano tenuti in ampie gabbie riscaldate, con timer automatici per il rifornimento di acqua e biscotti Plasmon, che irrigavano le ciotole dall’alto con un meccanismo computerizzato gestito da un Ibm 3.86 (compatibile).
Fui molto critico nell’osservare i marmocchi. Luca De Pasquale si meritava il meglio, non avevo dimenticato i requisiti di scelta, ma pareva non esserci trippa per gatti. Chi era troppo grasso, chi non aveva un occhio, chi era convinto di essere un vampiro. Insomma, stavo per mollare e riprendermi la mia figurina di Baggio che calcia la punizione con la maglia della Juve, quando in un angolo notai un bimbo mingherlino fasciato da una maglia della Cremonese degli anni ’90, quella col numero 11 di Andrea Tentoni, ex idolo della curva di Cremona. I fluenti capelli biondi coprivano un po’ gli occhi azzurri, e un sorriso sdentato sembrava dire: “Prendimi, prendimi, forza Cremonese, alè alè”.
Non esitai oltre. Indicai l’infante e scelsi di portarlo con me. Rinunciai alla confezione regalo, salutai i miei amici rumeni (ancora la banda cittadina accompagnava l’operazione, intonando stavolta una canzone di Sabrina Salerno) e mi rimisi in viaggio per tornare in Italia con Florian, il nuovo figlio di Luca De Pasquale.
Mentre macinavo i chilometri nel verso opposto, pregustavo la faccia di Luca De Pasquale che, al ritorno dal reparto dischi dalla Knack, avrebbe trovato in casa Florian. Florian De Pasquale.
Insegnai, nei due giorni di viaggio, l’italiano al bimbo. Gli fissai in mente delle frasi da dire una volta visto il nuovo genitore. Florian sembrava piuttosto recettivo, tant’è che aveva imparato tutto a menadito già all’altezza di Padova Est.
Le ultime ore di viaggio sgusciarono via in un tramonto che sapeva di liberazione: ce l’avevo fatta.
Quella notte, quando arrivai a Napoli, uscii direttamente al Vomero dalla tangenziale (andando piano perché c’erano i tutor attivi), direzione via Pigna.
Entrai nel palazzo di Luca De Pasquale che Luca De Pasquale non era ancora tornato. Ne avevo la certezza perché quel giorno, in Knack, aveva il turno dalle 6 alle 24.
Corsi con Florian fino al secondo piano dello stabile e, arrivato di fronte alla porta di Luca De Pasquale, la sfondai con un calcio.
Stella, la gatta strabica, mi accolse rotolandosi sul marmo gelido. L’accarezzai e la feci socializzare con Florian, che pareva amasse gli animali.
Preparai una pasta al sugo col battuto GS e attesi che Luca De Pasquale tornasse dalla Knack per mostrargli la clamorosa sorpresa. Florian sembrava vivesse lì da sempre. Aveva già iniziato a giocare con i dischi dei Prodigy, costruendo una tana con i vinili e i cuscini del letto.
Poco dopo la mezzanotte sentii la porta aprirsi (a mano, era sfondata!) e vidi un intimorito Luca De Pasquale solcare il mini corridoio per arrivare nel salotto (che poi è il resto del loft).
Appena mi vide rasserenò il volto in un’espressione compiaciuta. Sorrise liberato, dicendomi che aveva avuto paura che ad entrare fosse stato Crain o, peggio ancora, Brendost l’ignifugo. Solo che, non vedendo il fuoco, si era insospettito. Era stanco in volto e nei gesti.
Gli dissi: “Luca De Pasquale ho una sorpresa per te, guarda!” e lasciai uscire da sotto il letto Florian, ancora avvolto nella maglia della Cremonese di Tentoni.
Il bimbo, riconosciuto il nuovo padre dalla mia descrizione sommaria, gli saltò al collo.
“Papà De Pasquale! Scrittore! Papà De Pasquale! Buona sera”.
Luca De Pasquale scoppiò a piangere e iniziò a maledire Crain, Brendon, Brendost, la Dimensione 2000 e Dio Universale.
Da allora Luca De Pasquale e Florian De Pasquale vivono insieme nel loro loft, giocando a subbuteo, ascoltando heavy metal e leggendo, rigorosamente insieme, i racconti che papà De Pasquale scrive ogni notte. Tra cosce tornite e autoreggenti ombrate.
Nota dell’autore:
Crain, Brandost, Acrain, Brendon, Dimensione 2000 e Dio Universale, sono parti della mente del notorio mago campano Gennaro D’Auria.
Durante la stesura di questo racconto nessun bambino è stato maltratto. Solo la lingua italiana, ne ha risentito un po’. Ma niente di che.
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