Fisiologia della parola – #TUS2

danteOggi si gioca in casa, per i testi del reading Torino Una Sega 2È infatti il turno del nostro Simone Ghelli, che ha letto un brano da Il lavoro culturale di Luciano Bianciardi e il testo che proponiamo di seguito, Fenomenologia della parola – qualche breve riflessione intorno all’elemento del sangue nella scrittura. No, tranquilli: non è un testo di poetica emo.


Dire “parole di sangue”, o anche “scrivere di pancia”, son dei modi per offrire un corpo alla scrittura: come a intendere che essa ci procuri dei brividi, o degli spasmi, o anche solo delle contrazioni; come quando si aggroviglia l’intestino per un’emozione – che poi il romanticismo si disperde tutto in qualche emissione d’aria che ci si sforza di contenere. Di pancia e dell’intestino han già scritto in tanti: si pensi al Boccaccio o a Rabelais, ma anche a Dante e Céline, e spesso nelle feci è capitato anche di trovarci del sangue. Le due cose non sono infatti forse intimamente collegate? Ora, se si tralascia il discorso sui generi del terrore e dell’orrore (dei quali si sappia che io son sempre stato appassionato fin dall’adolescenza), il sangue è sempre elemento accidentale, imprevisto: qualcosa che fuoriesce e del quale si teme la vista – mentre delle feci ne possiamo provare schifo, del sangue se ne ha paura, in quanto indica un malfunzionamento dell’organismo: cacare o pisciare sangue, tanto per dirne una, non è certo indice di buona salute. Leggi il resto dell’articolo

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La dolce fiaba delle sette bandiere – #fiabebrevichefinisconomalissimo

di Francesco Muzzopappa

Quando una bandiera svetta in cielo è sempre una festa per i bambini. Leggi il resto dell’articolo

TORINOUNASEGA2

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TORINOUNASEGA2

Firenze. Caffè Notte. Stasera. Ore 21. 

Ci trovate lì.

 

Picchia tua moglie. Lei non sa perché, ma tu sì – seconda parte

[Qui la prima parte del racconto]

di Alessandro Busi

IV

Il rumore dello sfondarsi di una porta di legno sembra un suono compatto, ma non lo è. Innanzitutto c’è l’impatto del corpo dello sfondatore contro la porta. Può essere l’incidere acuto di un ariete di metallo, il tonfo sordo della spalla, il colpo vivido e profondo dello scarpone. Poi, se si presta attenzione, si sente lo scricchiolio del legno che si rompe, il cedere di alcune fibre e il soffio della laccatura che si polverizza. Poi c’è il rumore dei cardini, con le viti che si allentano nel muro e stridono quasi silenziose nel metallo del cardine stesso. Poi c’è la serratura che frantuma il telaio ed esplode fuori dai propri spazi. Poi, solo per un orecchio fino, c’è il battito della maniglia che si muove scomposta e tintinna. Poi c’è lo sbattere della porta sfondata a terra o contro un altro muro. E infine c’è il rumore a coppia dell’eccitazione di chi entra e della paura di chi subisce l’irruzione, quello che si materializza nei battiti cardiaci e nel ritmo dei respiri, ma che è anche molto di più e suona nell’aria come l’odore dell’antilope per il leone.
Marina, dal momento in cui la porta cedette, si sentiva come l’antilope. Le tornarono in mente i cani di un esperimento che aveva studiato durante gli anni di psicologia. Leggi il resto dell’articolo

CRISTALLI

Il cristallo è la mia casa da almeno un anno.

Il cristallo mi permette di stare al sicuro, di poter vedere la realtà nella sua interezza, nel suo vero significato.

Questa vita carica di nulla scompare totalmente nel cristallo.

Me ne avevano parlato molte volte. Mi avevano detto che non ci sarebbe stato più nessun significato ma solo significanti. Nessuna domanda, solo risposte. Pulite, solitarie nella loro chiarezza.

All’inizio ho creduto che fosse soltanto una delle solite cialtronate: quelle offerte che non si possono rifiutare, che non puoi non prendere in considerazione. Dopo le prime reticenze c’è stato il primo avvicinamento.

Non si può entrare nel cristallo di colpo. Il cristallo ti fa suo, ti prende e non lascia più la tua carne, perché il legame è fino alla morte. Leggi il resto dell’articolo

Centrattacco, sfonda mento.

Il dolore, se lo conosci, se t’ha già morso, impari a difendertene, a sentirlo sopraggiungere, il dolore, ne avverti il fetore. E se poi ti scorge, mannaggiallui, con l’occhio iniettato di sangue, ti punta; ti carica; viene per farti male, nuovamente, il dolore.

Virgilio è felice, quand’è ragazzino, si sente una gioia dentro quando vede il mare che gli viene da pensare meglio di me, nessuno, altro che Dante. Leggi il resto dell’articolo

Solo 5 minuti

di Maura Chiulli

Un viaggio insieme: avevamo deciso di starcene sole, io e lei, a godere di noi. Arrivammo ai Castelli romani, lì dove avevo lasciato a giacere un mio pezzo di vita vecchio. Avevo a mente odori e vicoli e dopo anni, ogni cosa era rimasta al suo posto. Dalla finestra della nostra stanza appoggiavamo lo sguardo su Roma assolata e munifica. Decisi di farle percorrere col dito le strade che avevo consumato. Elisa ascoltava, tenendomi stretta a sé. Avevo quarant’anni, credevo di aver esaurito pallottole e possibilità. Lei arrivò come un lampo e vederla la prima volta quasi mi uccise. Una specie di energia mi percorse la schiena e dopo un anno, continuavo a nutrirmi della stessa elettricità. Amarla era facile. Amarla mi purificava. Amarla mi sottraeva al veleno dei miei ricordi. Vivevo un eterno presente da quando l’avevo guardata, quel giorno in spiaggia. Aveva i capelli raccolti e un costume bianco. Mi girai verso di lei, avevo bisogno dei suoi occhi piccoli. Le sfilai gli occhiali scuri e la baciai, col carezzo intenso che vuole l’amore, quello che ti percorre e ti bagna, quello che non puoi trattenere il desiderio. I suoi ansiti brevi ci unirono in una scopata monumentale: io ed Elena sapevamo unirci in un incastro perfetto. A quarant’anni avevo imparato l’amore, quando tutto mi pareva essersi scolorito nelle brume dense della coscienza, quando non sapevo più di che cosa erano fatti i sogni. Era arrivata per salvarmi, per indicarmi una decorosa possibilità. Le leccai il fiore e sentii il suo seme. Le percorsi i seni e la attraversai. Ci sentimmo, come ogni volta, un unico corpo liquido. Leggi il resto dell’articolo

1° Maggio 2011

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

Se in effigie tramuti il corpo, e rendi
Carta l’effigie, plastica e cotone,
Io piango i tempi in cui si usava l’oro
Per forgiare vitelli, come grido,
oggi, all’idolo usato per frodare
la festa di quei corpi martoriati
dalle cave ombre di antichi tiranni,
larve per prime schiave
del loro stesso bramare.

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

È nel calice il sangue di settembre
Che su croce di piombo benedì
Con voce di metallo la sua gente?
È cileno quel corpo che spartisci?
Quali agnelli tu invochi perché accolgano
I peccati del mondo? Se tu màrtiri
Cerchi, sotto le zolle degli stadi
Irrigati dal rosso ti rivolgi?
O al silenzio distrutto dal supplizio
Che i boia inflissero alle sante carni,
carni di figli, che in piazza, le madri,
lucenti di grazia, nere di lutto,
Chiedono in nome del corpo e del calice?
Non vederli risorti è loro colpa?

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

Mentre le masse, raccolte per l’idolo,
Vestono i colli gravati da macine
D’asino, mentre nel tempio ai mercanti
Lo spazio si prepara,
Io testimonio con sommo timore:
Io testimonio per quanto di Cesare
Viene accettato o preso, e a Dio offerto,
Io testimonio la stirpe di Giuda,
Per la quale, domenica,
Il Salvatore verrà bestemmiato.

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

È di Augusto quel sangue,
È di Augusto quel corpo,
È del Giuda che un popolo tradì
Senza gettare quei trenta denari,
Senza conoscere albero e vergogna.
E nel tempo in cui l’idolo fu carne,
Anima e spirito, carne al servizio
Per sedere alla destra del Signore,
Quella carne, di bianco rivestita,
Il tuo gregge con scandalo mirò
Mentre stava alla destra,
Alla destra di Giuda, le cui nozze
Benedì tramutando in vino il sangue;
Quando il gregge mozzarsi preferì
Gli occhi, i piedi, e le mani,
Perché quell’uomo erede di quel Pietro,
Chiese che Giuda non fosse impiccato,
Lui disse al gregge di rendere a Dio
Grazia e perdono che primo non chiese.

Per chi innalzi quel sangue dentro il calice?
Per chi spezzi quel corpo che spartisci?

E queste mie, parole senza scandalo,
Saranno spreco e compagne di vento
Perché in ginocchio, pregando, a te affido
Il mio petroso pianto di straniero.
Io testimonio con sommo timore
Ed è per questo che infine ti chiedo:
In quale vigna, da umile, lavori?

Matteo Pascoletti