Cucciolo mio

Tony Pappalardo dominava la classifica. Gli ascoltatori di Radio Las lo chiedevano in massa nel primo pomeriggio, durante il programma di musica a richiesta condotto da Vitonello. Maria Rosaria  voleva chiamare anche lei, s’appuntava il numero sul bordo del libro di trigonometria e si scriveva affianco pure la canzone da domandare, lei avrebbe fatto una scelta fuori dal coro, avrebbe scelto i Queen, i Queen con Time. I Queen con Killer Queen. I Queen con Don’t stop me now. Tornava a casa giusto in tempo per vedere i suoi uscire per il turno di pomeriggio, certe volte trovava solo la caccavella ancora calda con gli gnocchi azzeccati sul fondo ma era sempre in tempo per Radio Las. Il programma cominciava alle 14, giusto in tempo per il rientro da scuola dei maggiori ascoltatori. Maria Rosaria aveva acceso la radio ancora con lo zaino sulle spalle, ancora con il giubbino attaccato alla schiena in uno strato sottile di condensa e così facevano tutta una serie di adolescenti  che il direttore di Radio Las sapeva appena usciti dai licei sperimentali e dagli istituti professionali sparpagliati come grani di sale lungo tutta la piana del sele. Erano pomeriggi di dediche a Cinzia della terza A sperimentale linguistico di Campagna da parte di Apollonia della seconda B sperimentale sociopsicopedagogico succursale di Campagna, canzone Bella Stronza, messaggio: «Tanto Antonino non ti vuole». Vitonello giocava bene sui titoli, ripeteva il nome di chi chiamava e il nome del destinatario un paio di volte, poi lanciava Masini (Bella stronza e Vaffanculo), Tozzi (Ti amo), Pausini (Non c’è), Alessandro Mara (Ci sarò), Alessandro Errico (Rose e fiori), Massimo di Cataldo (Michela) e in certi casi anche Eros Ramazzotti (Dolce Barbara).  Ma Tony Pappalardo imperversava, la fila delle dediche era lunghissima, Vitonello lo passava sei volte in due ore e mezza ripetendo sempre quanto la hit fosse richiesta, quanto Tony fosse contento del suo successo e quante emozioni suscitava dentro questa bellissima canzone. Anche Maria Rosaria se l’era imparata a memoria nell’autobus, quando, durante il tragitto di ritorno, sognava ancora di potersi unire al coro delle figliole sedute negli ultimi posti, le meglio figliole che avevano tutte gli occhi chiari, tutte i capelli lisci, tutte i pantaloni a zampa e tutte la maglia attillata della magilla, della onyx, della phard. Un pomeriggio aveva preso nota  e sulla brutta  copia della versione di latino, Orfeo e Euridice, aveva scritto: «Cucciolo mio sei sotto casa, ma tua madre è affacciata, stasera, chissà che cosa dirai, che scusa mai inventerai». Il foglio era stato piegato ed inserito nella mascherina dell’abbonamento mensile, l’avrebbe tirato fuori al momento giusto, quando suo padre avrebbe preso lo stipendio e avrebbe avuto anche lei gli stivaletti con le zeppe. Però intanto ripassava: «Quando il buio scenderà, in quel posto che sai già, noi, abbasseremo i sedili, e via i nostri vestiti, e l’amore sarà». Nel ritornello Tony Pappalardo alzava la voce di un quarto e , infine, cantava: «Solo con te vorrei restare, solo per poi poterti amare, verrò da te per abbracciarti, accarezzarti e poi baciarti, per poter restare insieme a te, insieme a te».

Maria Rosaria inizialmente non aveva accettato di buon grado l’equazione semplice di Tony, le era sembrata troppo elementare. Una volta usciti, Tony e la figliola di Tony che cosa facevano? La figliola di Tony studiava pure lei il latino e rosa rosae, gli parlava di Pope e dell’interrogazione su Madame de Staël? Una volta che era uscita di nascosto, come faceva a rientrare? Aveva rimostranze specialmente su quel «ma tua madre è affacciata» e s’era sentita piuttosto offesa dal sentirla cantare durante l’assemblea d’istituto, s’era dissociata pure dalle compagne di classe che frequentavano corsi autogestiti di latino americano. All’inizio c’aveva provato pure lei, aveva imparato a fatica il Tiburon, il Pam pam e la Ritmovuelta, alla fine della prima settimana era diventata padrona al punto di essere invitata al Lillypark, serata latino americano.

Il Lillypark era un albergo ristorante a due piani e lo si vedeva, rosa confetto, pochi attimi prima che l’autobus voltasse  la rotatoria del quadrivio: al Lillypark stavano i MakP di tutti gli istituti, venivano da tutta la piana a fare le feste di diciotto anni e Maria Rosaria non  c’era mai entrata, tre o quattro volte aveva preso il pullman che fa il giro per le campagne giusto per passarci davanti ma con molto dolore aveva scoperto che non si vedeva niente manco da Puglietta, da Varano, da Galdo e dal resto delle frazioni di due tre case e campi di olive. La sera del latino americano sarebbe stata la prima sera, quella necessaria al suo ingresso in una società che la includeva solo a fasi alterne, soprattuto in prossimità delle interrogazioni e dei compiti in classe, quando si moltiplicavano le firme sul diario in cambio dell’analisi del testo della morte di Ermengalda. Pure Maria Rosaria teneva le trecce morbide, il petto non c’era ma sarebbe stato, nel caso, di sicuro affannoso come nel canto dell’Adelchi, e aspirava da un anno alle pizze al sabato, al cinema a Battipaglia, ai filoni a Salerno, alle canne, sarebbe stata contenta persino di cacciare le 5 mila lire di quota per il regalo di compleanno di Loredana, di Giulia, di Marianna ma, malauguratamente, Maria Rosaria era inciampata durante la  doppia giravolta della Duena de  lo Swing. L’intero Lillypark aveva riso, lei s’era sentita come Carrie in Carrie lo sguardo di Satana e aveva preso un primo atto della sua inadeguatezza.

Quando aveva saputo che il padre non le avrebbe comprato gli stivali con la zeppa, infine, era andata a parlare con il rappresentate d’istituto. Il rappresentate d’istituto di chiamava Donato ma per tutti era semplicemente Casarsa, perché, per l’appunto era nato nella frazione Casarsa, quattro case sotto il sole cocente. Teneva diciannove anni, i capelli lunghi e due tre sulla pagella di fine anno, e quando l’aveva vista le detto: «Ah, e perchè non sei con le altre figliole, non ti piacciono i latino americani? Vedi che mo facciamo pure un corso autogestito di canzoni spagnole di Ricky Martin». Lei aveva fatto l’offesa e Donato Casarsa, seduto mollemente al tavolino del bar di Mauro, l’unico bar del paese con la musica, le aveva fatto una specie di interrogatorio:

«E che musica ti senti?»

«I Queen. I Nirvana. Lucio Battisti».

«Ah. E Jon Bon Jovi ti piace? Ia, sei simpatica, vuoi fare un corso pure tu?»

Il corso autogestito di letteratura contemporanea era cominciato il giorno appresso: si sarebbe discusso di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Noi ragazzi dello zoo di Berlino, Due di Due, Il giovane Holden, Il profeta. Casarsa ci aveva portato due o tre persone, il professore di chimica aveva offerto la sua disponibilità per una lezione sul Simposio di Platone, ne aveva pure regalato una copia a Maria Rosaria, detto che si trattava di un’iniziativa per persone speciali. Ma nel caos dell’autogestione, mentre nei bagni le ragazze fumavano e provavano i balletti per partecipare al programma Popstars su Italia uno, erano arrivati nell’aula due ragazzi disabili accompagnati dalla professoressa di religione, avevano tutti inveito contro questi ragazzi dello zoo di Berlino che buttavano al vento la loro vita di bambini sani e Maria Rosaria s’era trovata a difendere Cristiane F. e la sua triste storia, si sentiva molto vicina a Cristiane F. in ogni caso, non avesse avuto paura degli aghi avrebbe sicuramente deciso di farsi pure lei.

Casarsa alla fine l’aveva abbracciata e le aveva offerto la malboro rossa che in gergo significava «mi piaci assai» e Maria Rosaria s’era trovata contenta di aver imparato a fumare due settimane prima.

Carolina le aveva dato lezioni approfondite in cambio della versione di francese su Lamartine, le aveva spiegato che il trucco stava, una volta dato il primo tiro, nell’aspirarlo. Per aspirare il fumo stava una tecnica semplicissima: si tirava e bastava dire: «Uh papà», come se fossi stata sorpresa da tuo padre a fumare dietro la porta del cesso e già sapevi che sarebbero state mazzate. La paura, diceva Carolina, avrebbe fatto il resto. Così era stato: dopo venti «Uh papà», Maria Rosaria sapeva fumare. Casarsa l’aveva guardata sorpreso, ma solo di mezzo quarto, poi le aveva detto che poteva darle un passaggio fino al quadrivio. Una volta arrivati alla rotatoria lui era entrato nel parcheggio del Lillypark e sotto il palazzo rosa confetto le aveva dato un bacio, poi le aveva spiegato che lei era troppo piccola, avevano cinque anni di differenza ma era bellella, mo doveva andare a prendere il pullman però, che era tardi e lui doveva farsi una canna.

Radio Las aveva appena mandato in onda la pubblicità di un negozio di vestiti da sposa che promettevano di vestire il magico momento per coronare il grande sogno, poi Vitonello era tornato in diretta e ripetuto il numero delle dediche. Maria Rosaria teneva in corpo ancora metà del fumo, sentiva le parole vicine alle labbra ma una volta aperta la bocca dimenticava cosa ci stava da dire, sapeva solo Casarsa, Casarsa, Casarsa, Lillypark, Casarsa. Fece il numero di slancio, non ci voleva manco il prefisso, e quando Vitonello rispose scandendo lo slogan dell’emittente («Radio Las, addò ti piglia là te lass») Maria Rosaria avrebbe solo dovuto chiedere dei Queen, o dei Nirvana, o di Jon Bon Jovi, sapeva esattamente cosa fare, l’aveva scritto sul quaderno di inglese, l’aveva scritto chiaro, nomi di canzoni e dedica per il miglior rappresentate d’istituto. Invece  s’era messa a raccontare del bacio, della canna, del filone che dovevano fare il giorno appresso, di lui come si chiama, lui si chiama Casarsa, Donato Casarsa, io sono Maria Rosaria, vorrei sentire una canzone tutta per lui, i Queen, i Nirvana, Jon Bon Jovi. A Radio Las non c’erano molti dischi di musica, la maggior parte erano robe anni settanta dei Collage, dei Pooh e de il Giardino dei Semplici. I Nirvana Vitonello non li sapeva proprio, dei Queen aveva Dirodedé e di questo Bon Jon Jovi stava solo Always, Maria Rosaria cosa voleva? Lei rideva dall’altro capo del filo. «Maria Rosaria», aveva detto lui «lascia fare a me, ti metto la migliore canzone del momento, tutta per te».

Dopo due secondi era tornato in diretta con una nuova dedica speciale per una storia d’amore appena nata tra Maria Rosaria della prima A sperimentale linguistico e Donato Casarsa, il rappresentante del liceo di Campagna, con il messaggio: «Grazie del nostro bacio di oggi e sono contenta che facciamo filone domani». On air: Tony Pappalardo con Cucciolo mio.

Raffaella R. Ferré

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Marzo

La mattina mi alzo che è ancora notte, ho messo la sveglia sul cellulare, una musica che ho registrato al mio paese quando sono tornato l’anno scorso. E’ una musica molto bella e veloce che mi fa svegliare pensando che sto duemila chilometri più ad est e poi subito sopra, come se tra me e casa mia ci fosse solo un lunghissimo corridoio.

Dove abito adesso non ho il corridoio: per entrare in una stanza devi passare per un’altra stanza e così via. Anche per andare nella cucina devi passare prima per il cesso e per andare al cesso devi passare per la stanza di Tonja.

Tonja esce anche lei presto di mattina, Tonja è arrivata da due mesi e i primi tempi non aveva capito dell’organizzazione di casa nostra, era uscita e aveva chiuso la stanza a chiave e io e Vladi siamo rimasti nella stanza di fondo e non potevamo uscire, né mangiare, né bere e manco andare al cesso. Vladi doveva far pipì, allora si è affacciato al balcone e ha controllato che non ci fosse nessuno nel vicolo dove stanno le altalene e ha pisciato attaccato alla pianta di bamboo. L’ha fatto con una certa naturalezza, pareva stesse  valutando le possibilità di ripresa della pianta, che la stesse innaffiando che sicuramente ne aveva bisogno, era tutta gialla e raggrinzita nello stelo come il collo di una vecchia, e poi comunque ero contento che pisciasse sopra le altalene, speravo anche che qualche goccia della sua urina finisse in capa ai bambini che giocano a pallone e non ci fanno dormire quando rientriamo il pomeriggio.

Quando Tonja è tornata le abbiamo spiegato a voce forte che non doveva più permettersi e ci aspettavamo che lei piangesse, ci aspettavamo che lei si chiudesse in camera, ci aspettavamo che lei ci mandasse a fanculo ma lei ci ha risposto aprendo le mani e mostrando la chiave come fosse una caramella o un gioco di quelli che fai da bambino. Ci ha detto che a questo punto ce la restituiva, che tanto non sentiva nemmeno di poterla chiamare con l’aggettivo possessivo la stanza dove dormiva, che si vedeva che era una sala da pranzo, ci stavano i piatti appesi vicino alle mura.

Sui piatti appesi vicino alle mura ci sono disegnati pezzi del paese in cui siamo adesso, tutti scheggiati dalle lame dei coltelli, e mi sembra una cosa molto significativa: noi davvero di questo posto ci mangiamo, nelle campagne che ci stanno dipinte noi raccogliamo i broccoli e la rucola sotto a certi capannoni. Il lavoro che faccio io si chiama lavorare dentro ai frigoriferi. L’ho tradotto nella mia lingua per spiegarlo a mia madre quando ho chiamato la settimana scorsa, l’ho tradotto parola per parola e mia madre deve avermi immaginato con un camice bianco tipo ingegnere, deve aver pensato che adesso possiedo i segreti della refrigerazione, che ho gli occhialini leggeri o qualche mascherina, che ho i capelli tagliati a spazzola e io gliel’ho lasciato pensare, non c’era alcun bisogno di dirle che di chimico là dove sto io sono solo pesticidi e freddo.

Mi ha detto il padrone che ad aprile faremo le fragole, forse anche prima di aprile se il tempo si mantiene buono. La gente è solo pigra, ma mica è scema, crede alle fragole solo quando il sole dà conferma, dice. Io non ci crederei comunque ma al padrone non l’ho detto, lui mi guardava e ripeteva fragole come se fosse qualcosa che io non avevo mai sentito o mai visto o mai mangiato.

Tonja fa un altro lavoro che non ho capito bene. Certe volte deve solo attraversare il vico e salire due piani. Quando torno da lavoro riesco anche a vederla, se mi alzo sulle punte arrivato all’ultimo scalino delle scale. Vedo sempre che non fa niente, sta seduta vicino al tavolo e davanti a lei sta un vecchio. Il vecchio ha tutti i capelli bianchi, lunghi dietro le orecchie, e non dice niente. Sentono insieme una radio in cui si parla solo e non ci sono mai canzoni; a parlare è una donna, lo fa con un tono monocorde che a me farebbe dormire. Anche Tonja e il vecchio sembrano dormire. Per questo motivo non farei mai il suo lavoro, perchè quando lei torna a casa sembra sempre più stanca di me anche se io ho alzato venti chili di frutta e verdura e c’ho le mani rosse dal gelo e lei è stata seduta davanti ad una tavola. Poi mi metto sul letto, sento la schiena che mi fa male troppo che non riesco manco a girarmi e allora vorrei andare nella stanza di Tonja e chiederle di fare cambio.

Anche a lavoro da me si sente la radio e molta musica, ma è una lingua che non conosco, non ha niente a che fare con l’italiano che so io, non somiglia alle canzoni che sentivo da bambino. E’ una conversazione veloce, che mi esclude, che mi fa il vuoto intorno, le parole sono come olio nell’acqua della mia grammatica base. Pagherei per sentire una voce che conosco, a lavoro. L’ho detto a Vladi e Vladi mi ha detto che è un grosso sbaglio e che è questa la cosa a cui bisogna fare più attenzione: quando sei tanto lontano da casa e senti parlare la tua lingua gioisci, senza chiederti se chi ha parlato è un amico o un nemico. Io faccio sì con la testa, ma penso che Vladi sia un po’ stronzo, o anche scemo. O solo infelice. Io, se dovessi sentir parlare il dialetto di me bambino, non potrei fare a meno di voltarmi e sorridere.

Vladi ha questo modo di fare simmetrico puntuale razionale che si estende alle pieghe dei suoi pantaloni, alte un paio di centimetri sulle caviglie. Appena arrivati qui ci hanno messi insieme e allora venne vicino a parlarmi, mi disse che adesso dovevamo fare un patto. Voleva sapere di potersi fidare di me e me lo chiese proprio, con parole semplici e finite. Era un discorso preparato ma sentito, un discorso che uno può sentir poche volte nella vita, se è fortunato. Perchè non accade spesso che le persone vengano a chiederti se sei d’accordo e cosa ne pensi di una situazione che non si è ancora verificata. Vladi invece venne a parteciparmi delle sue impressioni su di me e delle sue intenzioni circa il rapporto che avremmo dovuto avere. La cosa mi lasciò piuttosto stranito ma apprezzai che non avesse giocato d’astuzia come fanno tutti, che ti girano intorno e lasciano che il tempo faccia il resto che, come dice il padrone, la gente è solo pigra, ma mica è scema. Non si trattava di bisogno di sicurezza, come avevo pensato all’inizio, o meglio, non solo. Vladi mi spiegò tutto la notte appresso. Mi spiegò che la sua era anche una dichiarazione. Che aveva bisogno di tener fede ad un impegno, di non lasciarsi andare adesso che stava lontano da casa, anche di ricordarsi i verbi base della sua lingua che è anche la mia tranne che per certe inflessioni date dai molti chilometri di distanza tra le località dove siamo nati, dove siamo cresciuti, correndo dietro alle galline nel cortile.

L’impegno non era assai, si trattava di parlare e basta. Anche di abbracciarlo, ma poche volte, siamo due ragazzi sì, ma siamo pur sempre uomini. Tonja non ha messo in discussione il nostro rapporto: Vladi continua a parlarmi anche dopo esser passato dalla sua camera. Io un poco ci soffro, sento che ci sono parti del suo affetto che non posso conoscere; a me non è dato capire le sue mani se non nelle strette energiche che fa certe mattine che sono bloccato con la schiena. A me non è dato sapere se è dolce con le donne o se non lo è. A me non è dato quasi nulla, penso mentre lavoro e lavo i broccoli. Poi la sera lui si siede ai piedi del mio letto e mi parla di tutta una serie di cose a cui devo stare attento, mi dice quello che ha visto la mattina, quello che ha sognato il pomeriggio, ed io credo mi basti, come se non ci fosse alcuna altra possibilità a parte quella di starlo a sentire nel buio. Di questa possibilità non avverto le limitazioni, è una costante onnicomprensiva: la lingua sua è tutt’uno con il nero e con il resto dei colori che quando spengo la luce non si vedono più.

La mattina mi alzo che è ancora notte. Il cellulare mio suona forte e la signora che abita affianco a noi bussa contro il muro, insieme a me si sveglia anche lei e un po’ mi dispiace, ci penso per le due ore che vengono appresso, penso a lei come fosse mia madre, stanca e con le gambe pesanti e io che l’ho svegliata alle quattro come se sapere di farla saltare nel letto mi levasse qualche parte di fatica. Mi propongo sempre di abbassare la suoneria della sveglia o anche di cambiarla, oppure di concentrarmi forte in modo da potermi svegliare da solo senza il bisogno di un allarme, ma la sera sono troppo stanco per ricordarmelo.

Dal balcone il pomeriggio vedo una ragazza: sta seduta al computer o vicino ai libri e penso che deve averci una vita molto semplice che vorrei fare cambio. Quando i bambini giocano a pallone lei si alza e grida forte in italiano che le loro madri sono delle cesse. La prima volta che l’ho sentita io volevo sorridere e dire che ero d’accordo, allora ho alzato la persiana ma lei se ne è accorta ed ha chiuso le tende; io l’ho capito e non alzo più la persiana, la spio dai buchetti pieni di polvere, ci ho passato un fazzoletto scottex per vederla meglio. La ragazza ogni tanto piange. Sta là, ferma, con la testa su certi libri alti,  pare andare tutto bene, parla pure al telefono, e poi piange. Allora io non la invidio più e vorrei fare qualche cosa, darle pure una carezza in testa come quelle che Vladi fa a Tonja, fatta senza capire il perchè in lingua parlata, con un significato che sta tutto sotto le unghie. I miei polpastrelli sono ruvidi, tagliati nel mezzo come se avessi suonato la chitarra e invece io ho colto i broccoli. I broccoli quando escono a marzo hanno steli affilati che bucano la terra fredda come fossero coltelli.  Allora vorrei poterle dire qualche cosa, magari le dico le cose che Vladi dice a me la sera, gli sbagli e le cose a cui bisogna fare attenzione, ma non sono sicuro nemmeno della traduzione in italiano.

Magari le porto le fragole, però quando escono quelle buone, magari anche lei è come il resto della gente, pigra sì, ma mica scema.

Raffaella R. Ferré

Diario di bordo – Napoli

Tutta colpa dei precari. Stavo scrivendo il mio nuovo romanzo, ho lavorato alla brutto dio per 24 giorni, dal 1 agosto fino al 24, chiudendo le prime due parti, poi al lavoro (quello che mi occorre per pagare l’affitto della mia stanza e il cibo e pochi vizi) mi hanno costretto a fare straordinari (che è pure una cosa buona, visto che sto con “le pezze ar culo”, ma c’è sempre la storia maledetta del tempo che manca per scrivere), poi sono tornati i precari dalle loro più o meno vacanze, c’era da organizzare il tour e la maratona letteraria, e addio scrittura. Affanculo il mio romanzo. Per adesso ho scritto le prime due parti e stanno bene lì, a riposare. Troverò il tempo per riprendere, adesso sono qui nella mia stanza a Roma, sono tornato da qualche ora da Napoli, devo scrivere questo pezzo d’apertura del diario di bordo del tour precario, alla mail ci sono già i pezzi di tutti gli altri, sono in ritardo ma va bene lo stesso. Debbo distillare il tempo inquinato dagli imprevisti.

Napoli è cominciata a Roma.

È tra le mura capitoline, dove il collettivo è nato, cresciuto ed ha cominciato a farsi conoscere, che abbiamo ricominciato. Giovedì 17 settembre, a San Lorenzo, al Simposio, il ritorno del nostro reading itinerante dopo la pausa estiva, volevamo qualcosa di memorabile, e credo che ci siamo riusciti, grazie ai tanti bravissimi ospiti presenti in sostegno della nostra causa e di un pubblico meraviglioso.

Si sono alternati a noi nelle letture Antonio Romano, Girolamo Grammatico, Ilaria Mazzeo, Cristian Giodice, Dario Falconi, Peppe Fiore, Roberto Mandracchia, Alessandro Hellmann, Luca Moretti, Cristiano Armati, Dario Morgante, Massimiliano Coccia e Vanni Santoni.

Ha suonato per noi Mad. Res. Klern (cliccate sul suo nome e andate ad ascoltare la sua musica sul suo myspace)

Ne approfitto per ringraziare pubblicamente tutti a nome mio e di Scrittori precari.

Tra qualche settimana nascerà un nostro canale youtube dove potrete vedere e ascoltare tutti gli scrittori che hanno partecipato alla maratona letteraria, seguiteci qui e appena sarà pronto ve lo comunicheremo.

Quindi Napoli.

Al mattino sveglia alle sette meno un quarto. Solito risveglio e poi al lavoro. Ultimo giorno e poi in ferie per una settimana. Sono pronto, l’ultimo sforzo, intanto che sono ancora convalescente, il primo freddo e l’acqua addosso della prima copiosa pioggia mi avevano causato un brutto raffreddore e una tosse tremenda che aggredisco continuando a fumare, poi a casa per una doccia al volo e via di corsa verso la stazione dove trovo ad aspettarmi Alex e Luca. Dopo qualche minuto arriva Simone ed eccoci pronti. Zabaglio salirà a Latina.

Fame. Dovevo mangiare qualcosa, avevo i crampi allo stomaco e mi sentivo debole. Un panino pietoso all’autogrill dentro la stazione Termini, che poi se ci pensate, non molti anni fa gli autogrill erano solamente sulle autostrade, adesso sono dappertutto, a maggio mi sono spesso nutrito ai loro chioschetti che si trovavano ovunque all’interno della Fiera Internazionale del Libro di Torino.

Fatti i biglietti, saliamo sul treno. Dopo dieci minuti mi telefona Zabaglio, dice che non sa se riesce a prendere il treno, sta male. Panico generale. Poi arrivati a Latina Zabaglio chiama Simone e chiede a che vagone siamo. La comitiva era riunita.

Alex faceva foto in continuazione, alcune le trovate già sul nostro Flickr. Si ride, si scherza, si discute e il viaggio è già qualcosa che vale la pena di esser vissuta.

Arrivati a Napoli, metro fino a Montesanto ed a piedi superiamo piazza del Gesù e siamo presto davanti alla Ubik.

Questa città folle e magica ci avvolge. Riconosco echi della lingua delle mie origini, sono vicini i luoghi che mi hanno dato i natali, dove sono cresciuto, Napoli che è Napoli, da secoli e secoli scriviamo di questo luogo mitico, una storia millenaria, infinita, tutta da raccontare.

Davanti alla libreria c’è Raffaella con Pino Imperatore. Ci presentiamo, facciamo un giro nella libreria e intanto arriva pure il giovanissimo Marco Marsullo. Sono i primi tre pezzi della Brigata Parthenope, un collettivo di scrittori campani. Marco lo avevo conosciuto in fiera a Torino, me lo presentò Dario Falconi.

Presto ci raggiunsero anche gli altri “brigatisti”. Si decise di andare a prendere qualcosa da bere. Ci allungammo di due passi a piazza San Domenico e lì chi prese una birra, chi un caffè, chi una coca cola e chi una cedrata. Era una bella tavolata numerosa.

E finalmente il reading.

Abbiamo presentato i due collettivi e poi abbiamo letto un po’ di cose. Una bella serata. Tra il pubblico c’era Francesca, una ragazza che ci aveva conosciuto attraverso internet e ci aveva proposto una serata a Benevento, e a fine presentazione, mentre si parlava di cosa fare per la serata, lei disse che sarebbe stata al Perditempo, un posto dietro piazza Bellini. Disse che sarebbe stato un bel luogo per fare un reading.

“Andiamo mo’, vediamo se possiamo fare qualcosa stasera”, buttai in mezzo io.

Ed eccoci lì, il posto era accogliente e le persone squisite. Mentre leggevo, una vecchia, matta, con dei santini in mano, mi fissava. Io sono sbottato a ridere. Insomma, una serata meravigliosa, siamo stati apprezzati, hanno preso parecchi librini. Sarebbe da raccontare ogni istante, ogni frammento di tempo, di vita vissuta, ma credo che io mi sia dilungato già abbastanza. Si era detti poche righe a testa, ma tanto il blog lo gestisco io e faccio come mi pare. I ragazzi sono d’accordo che io faccia come mi pare. C’è grossa fiducia reciproca tra di noi. Alla base di Scrittori precari c’è una forte consistenza di rapporti umani. Probabilmente questo, unito alla passione che ci mettiamo nel fare quello che ci piace, sono la nostra forza.

Che altro dire? Siamo stati benissimo, abbiamo fatto due reading al prezzo di uno, e ci siamo divertiti un mondo. A conti fatti, coi librini venduti sinora tra la maratona e il doppio appuntamento napoletano, riusciamo a mettere il gas (perché noi scrittori siamo ecologici) per arrivare a Firenze prima e poi a Bologna. Non abbiamo ancora in tutti i posti che toccheremo dove dormire, e si prevede di mangiar poco, stiamo investendo i pochi spiccioli che abbiamo in questa meravigliosa avventura, ma va bene così. Questa è una grande avventura.

Vi lascio ai resoconti degli altri precari. Se chi ben comincia è a metà dell’opera, c’è del buono in cui sperare.

Vibrazioni positive, dice l’amico Vanni Santoni. Ci siamo sentiti qualche ora fa per darci appuntamento. A Firenze ci aspettano. Ci vediamo martedì.

Gianluca Liguori

Napoli, 19 settembre 2009 – San Gennaro

Arriviamo alla libreria Ubik alle ore diciotto circa. C’è il tempo per una birra e quattro chiacchiere con gli amici scrittori della Brigata Parthenope , poi siamo catapultati insieme a loro in un reading facilitato dall’aria condizionata e da un buon pubblico.

Finisce bene. Tanto bene che in realtà non finisce. Tra il pubblico, Francesca Capone, persona generosa e vogliosa di promuovere noi precari in terra campana, si fa avanti assoldandoci per due reading nel Beneventano, a ottobre, e organizza in pochi minuti una performance al Perditempo, un locale in centro, dietro piazza Bellini. Lì incontriamo Luca, un poliedrico dj dalla cultura musicale sconfinata, che con maestria inserisce basi elettroniche ad accompagnare le nostre parole.

Ancora una volta finisce bene e non sarebbe potuta iniziar meglio.

Napoli c’ha accolto e coccolato salutandoci a tarda notte mentre qualche clacson si perdeva all’inizio del nostro sonno.

Forse questa prima data del nostro tour è ciò che si definisce un inizio inaspettato. Forse Napoli c’ha illuso, oltre ad averci ben trattato.

Ma noi ci speriamo, abbiamo fede e questo, per ora, è l’importante.

Luca Piccolino

Sciorta, pianti di dolore, febbre e voglia di non partire che i dolori erano lancinanti. Il treno arriva alla stazione di Latina e chiamo il Ghelli che è l’unico che è wind che così ho i minuti, per sapere in che vagone sono. Li trovo. Seduti vicino ai cessi più sporchi di trenitalia. Si arriva a Napoli ed una cocacola mi rispolleva un po’. Alla libreria si legge a turno tra Scrittori precari e Brigata Parthenope. Ancora non mi sono ripreso del tutto e leggo un po’ fiacco anche perché il bianco sparato della libreria rende il tutto asettico, o forse devo solo mangiare. A Napoli le mammelle la fanno da padrona ed il tutto è molto gradito ai miei occhi. Mi viene voglia di mozzarella di bufala ma con lo stomaco dolorante non è il massimo. E si arriva a pigliare un pezzo di pizza che mi rifocilla. Intanto il Liguori e Francesca organizzano in meno di 12 secondi un reading al Perditempo a piazza Bellini. Ed il clima è totalmente diverso e più vivo: gente che fuma, anziane che vendono santini, neri fattonissimi e gente che ascolta e ride. Il succo di frutta alla banana è finito e mi offrono uno alla pera che mi risolleva del tutto. L’energia è parecchia ora e si legge da paura col della musica elettronica di sottofondo. Si vendono un botto di libretti precari e ci accompagnano a casa di mia nonna. Poi il Ghelli crolla a dormire noi quattro ci inoltriamo nella notte napoletana per comprare due cornetti e due birre da portare su in casa. Appena fuori il portone sette truzzi (su due motorini) ci accolgono con “Song’ arrivati i pank!!!”. Ma nulla. Su in casa si fumacchia e si parla di tutto. Al mattino davanti al bar (lo stesso della notte prima) trovo 5 euro e con quella ci paghiamo la colazione, poi cacca, si ripulisce casa dallo schifo della sera prima, lavata e via a prenderci una pizza al volo e dei babbà. Io sto una chiavica raffreddato e con la tosse da vecchio. Ma Napoli mi ci voleva proprio. Era troppo tempo che non respiravo la sua aria nelle vene.

Andrea Coffami

Napoli, 19 settembre 2009

In treno ci preoccupavamo per il sangue di San Gennaro, e invece era del Napoli calcio che dovevamo preoccuparci.

Marsullo ci accoglie davanti alla Libreria Ubik orfano di alcuni compagni della Brigata Partenope, che hanno preso la via dello stadio per godersi la partita.

Gli confido la mia passione amaranto, ma lui smorza subito i toni, dando a intendere che non lo troverò mai un posto dove spizzare qualche azione della partita con la Juve. E invece più tardi San Gennaro mi fa il miracolo, allestendo due maxi schermo lungo la via che porta alla friggitoria dove ci siamo rifocillati. Miracolo è un parolone, diciamo mezzo, che alla fine il Livorno ha perso e a dire il vero io manco l’ho visto, che la serata è migrata al Perditempo, dove abbiamo costretto gli ignari bevitori ad ascoltare le nostre parole. Francesca ci aveva parlato con entusiasmo del posto, e dall’accoglienza abbiamo subito inteso il perché: un luogo piccolo e raccolto dove ci siamo sentiti subito a casa, cullati dalla generosità di Napoli e dei suoi abitanti.

Il viaggio è appena all’inizio, ma San Gennaro ci ha dato la sua benedizione…

Simone Ghelli


Si parte. Uno lo pensa, lo dice, poi lo fa. E mi ritrovo su un treno per Napoli, ovviamente un interregionale, che siamo precari, anche se io non lo sono. Questo è il primo pensiero durante il tragitto. Ho un lavoro, sono sempre in movimento e sto con questi ragazzi che il precariato lo vivono sulla pelle davvero ogni santo giorno. Sì, anche io ho avuto il mio momento, ma adesso!? Mi guardo attorno: Ghelli dorme, Piccolino guarda fuori con il suo sguardo perennemente perso dietro a pensieri che secondo me parlano d’amore, Zabaglio sta sistemando le cover dei suoi cd da vero maniscalco e Liguori legge l’articolo di Franchi su D di Repubblica.

Abbiamo un’intera carrozza per noi e capisco che il precariato che condivido con loro è quello emotivo-sentimentale. Un precariato esistenziale per usare termini grossi.

Ridiamo e discutiamo e ridiamo. Se le nostre risate fossero monete potremmo aprire tre case editrici. Questa è una delle grandi forze che abbiamo.

Napoli è una botta allo stomaco, stiamo vicini e ci guardiamo attorno, ognuno sta facendo la spugna e sta assorbendo dalle strade che percorriamo. Lo so per certo. Le vedo le facce e i sorrisi. Sono quelle di chi sta mangiando l’aria.

A proposito di mangiare, nella fretta nessuno ha messo qualcosa nello stomaco e io e Luca iniziamo a perdere colpi. Ubik. Libreria ospitale e ospitante. C’è la Brigata. Sono giovani, freschi e hanno la cazzima vera! Vogliono fare. Sono abbracci, saluti, sono nomi e foto su facebook o su libro che diventano persone.

“Eddai!” penso. Guardo intorno a me e rivedo Napoli con questi amici.

Tutto scorre: la presentazione/reading, le fotografie, Zab e Luca che mi cojonano mentre leggo (mortacci!!!), Gianluca che fa da collante, il Ghelli che ride. La gente c’è e ci sta. Precari e Brigata fanno un bell’assist alla tradizione orale (no bukkake please) e sono sempre più convinto che se non si continuano a fare queste “performance” non si potrà andare avanti. Basta con gli scrittori che si incazzano e si sputano addosso, qui ci vuole unione d’intenti. Diverse angolature, diversi colori, sapori. Ma unione.

Spunta di botto un’amica di Gianluca ed ecco che la serata diventa un blitz precario in un locale chiamato Perditempo. “Prima se magna però!” io e Luca lo diciamo in coro, che le gambe stanno diventando pesanti e accusiamo il colpo. Dobbiamo trascinare via a forza il Ghelli dalla partita del Livorno (“O Ghelli!!! Dai!” “Giungo!”) e mangiamo la pizza più cattiva di Napoli se ciò è possibile.
Via al locale. Mo se comincia a ragionà! Il posto ricorda San Lorenzo, alla consolle il dj è una specie di Vincenzo Mollica, soltanto che ha “una testa così” per la musica, e lo fa capire immediatamente. Siamo accolti da re, ci sorridono, ci ringraziano e ci offrono da bere. Comincia il reading ed è jam session. Stavolta è jam session e si sente nell’aria che stiamo dividendo.
Finisce tutto. Ci accompagnano a casa dove vengo a conoscenza di cose che voi umani è meglio che non sappiate, altro che Necronomicon e Abdul Alhazred!

Mi faccio una gran bella dormita. Io tendenzialmente professato all’insonnia dormo della grossa e prima di chiudere gli occhi mi faccio una grassa risata. Perché questo tour non me lo potrò vivere tutto, ma una sola tappa mi ha fatto capire che qui c’è molto di più di un progetto in ballo, molto di più di un semplice reading, qui ci sono cinque vite che si stanno sbattendo insieme per qualcosa che non ha un nome. Qualcosa che si può vivere soltanto quando siamo tutti nella stessa stanza.

p.s. Il Liguori è psicotico: alle 8.20 di mattina, visto che partivo per primo, si è alzato per dirmi di inviargli le foto per il blog.

p.p.s. Il Ghelli è stato il primo ad andare a letto.

p.p.p.s. Piccolino dorme come se avesse schienato un avversario di Wrestling, praticamente domina il cuscino.

p.p.p.p.s. Zabaglio… bè, Zabaglio… Bukkake

Alex Pietrogiacomi