Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 1

Il sugo è quasi pronto, cuoce da quattro ore, forse cinque. Stamattina, appena sveglio, ho tirato fuori dal frizzer delle salsicce che aveva lasciato Gaetano, dicendomi che dovevano essere consumate. Ho tagliuzzato le cipolle e il sedano – mi mancavano le carote, l’altro giorno che son sceso in paese a far la spesa avevo titubato nel comprarle, e in effetti sarebbero servite – e ho soffritto il tutto con due spicchi d’aglio; ho sfumato con del vino bianco, poi, poco dopo che ho buttato in pentola le salsicce, oramai quasi del tutto scongelare, ho fatto lo stesso con un po’ di rosso. Quando la carne era quasi cotta ho aggiunto il pomodoro. Dapprima mi sono messo a girovellagare su internet, poi ho spento il computer e mi sono messo a leggere. A un certo punto, mentre il sugo cuoceva e io ero in bagno e leggevo Agostino (il romanzo di Moravia, non il santo), ho sentito i cani abbaiare. Non era il solito abbaiare di quando sentono rumori, persone o vedono mostri, no, era un abbaiare diverso, rabbioso, nervoso. Leggi il resto dell’articolo

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Zero al 100%

Zero al 100% (Pascal, 2010)

 

Riportiamo un breve estratto del nuovo libro di Alfonso Diego Casella, che raccoglie 52 storie che l’autore scrisse nel 2000 su materiali vari (pubblicità elettorali, piatti di plastica, cartoni, etc), appositamente per un reading, e che vennero poi gettati l’indomani dalla donna delle pulizie. Gli stessi, tornarono nelle mani del suo creatore alcuni anni dopo, in condizioni rocambolesche, e vengono qui raccolti come incipit di ipotetici «romanzi digitali interrotti da un semplice clic» e collegati tra loro da parole che fungono da link, e che ci guidano nel passaggio da una chatroom all’altra, nel tentativo di riportare su carta quella che sembra a tutti gli effetti una narrazione partorita in rete. Come recita la quarta di copertina, quello di Casella è «un prontuario su come sopravvivere nel postfuturo postumo che si sta lentamente avverando».

 

– Siccome mi ritrovo ora queste stimmate sopra le mani, ecco che mi manderanno alla TELEVISIONE nazionale, con un bel taglio fresco qui che sanguina e sanguina, proprio come richiede il palinsesto. E non vuoi che quando incespico dentro lo studio, ci sta un presentatore fotogenico che avverte al microfono gli spettatori: signore e signori, dice, eccolo qua il santo con le stimmate più genuine della terra.

– …

E tutti cominciano un applauso e il cameramen inquadra bene il palmo della mano destra, qua, dove io sto sanguinando esagerato: da santo, con le stimmate vere e non c’è vilipendio alla religione. Ma che celebrità sono ora diventato; quasi un divo del cinema. E quante ammiratrici che mi telefonano… per curiosare meglio il santo da vicino, per sapere se è vero che sgorga proprio spontaneo, a fiotti, questo sangue qua.

Oppure se esiste un trucco alla diretta, chiedono loro. E ora vogliono toccare la ferita da vicino, e ora verificare meglio la piaga dall’interno; e mi domandano l’autografo, ma in realtà finiamo a letto punto e basta.

– …

– Ero un manovale dapprincipio e salivo nel gelo la mattina presto sopra le impalcature dei palazzi in costruzione; e lavoravo al cantiere fino a tarda sera. Nessuno mi notava mai alla balera, se io ballavo da solo la milonga. Anzi, le donne mi scansavano come un appestato.

– …

– Ora mi strapagano invece e mi rimborsano gettoni di presenza, bevo gratis nelle discoteche. E i clienti si voltano a guardarmi, mentre ballo con la mano fasciata intorno al palmo destro. Le guardie del corpo attorno scansano le fans, che loro vogliono per forza toccare la ferita.

– …

– E così mi hanno scritturato per lanciare nel mercato alimentare lo yogurt rosso sangue Zaferòl. Che me ne resto in piedi, a pregare all’interno del reparto surgelati, vicino al congelatore. E sotto c’è la telecamera accesa; e io mi tolgo la benda inzuppata di sangue sgocciolato dalle mani, recitando in tono ascetico: ehi, ragazzi… volete avere stimmate come queste, bevete lo yogurt del Nostro Signore.

Alfonso Diego Casella

Il cielo dei se

IL CIELO DEI SE *

Era così profondo che a guardarlo dall’alto quasi avevo le vertigini. Il canyon che mi ritrovavo sotto il collo, là dove normalmente sorgono floride colline, mi lasciava in uno stato di arida desolazione ogni volta che mi esaminavo allo specchio. Profilo destro. Profilo sinistro. Frontale. Osservavo attentamente qualsiasi impercettibile rigonfiamento che potesse farmi sperare in un embrione di femminilità. Ma niente. Lo specchio, facendomi rassegnate spallucce, mi rifilava sempre lo stesso verdetto: anche questa estate niente tette. Mi rivolsi allora all’unico santo a cui potevo votarmi: mia nonna Alberta, intenta in quel momento a fare la sfoglia. Diceva rosari per ogni gattino smarrito, ogni gamba fratturata, ogni colpo di tosse del paese: non vedevo proprio perché non potesse occuparsi del problema del mio seno, che all’epoca mi sembrava poter competere con la guerra e la fame nel mondo per aggiudicarsi il titolo di più grave catastrofe dell’umanità. E così le commissionai due rosari, uno per seno, e che ci si mettesse d’impegno, la rimbrottai direzionandole lo sguardo a quei tristi bottoni di tettucole che avevo al posto del decolleté.

Il punto è che io volevo diventare bella e grande per lui, Bici Rossa, il mio amore sedicenne, un affascinante moretto che passava le vacanze nel mio paese. L’estate per me cominciava quando riuscivo a vedere (dopo settimane intere di indecenti appostamenti in cima alla collina) la macchina dei suoi genitori parcheggiata davanti alla sua villa e finiva quando lui se ne andava con le prime folate settembrine. Trascorrevo l’intero inverno a immaginare il momento in cui ci saremmo rivisti: lui scendeva dalla macchina dei suoi, mi scorgeva (nel frattempo ero diventata una strappona bionda, alta un metro e ottanta, con la quarta di reggiseno e avevo anche ottenuto magicamente un paio di occhi verdi) mi diceva “sei proprio tu? Sei diventata meravigliosa!”, s’innamorava all’istante, ci baciavamo e vivevamo felici e contenti, come in tutte le fiabe che si rispettino. Proprio quel giorno, finalmente, l’estate era arrivata in macchina con Bici Rossa e me ne stavo irrequieta al fiume con i miei amici, sapendo che poteva comparire da un momento all’altro.

Era così profondo il fiume che ogni volta che mi tuffavo per andare a toccare il fondo non riuscivo a riemergere per vari secondi. Quando sbucai dall’acqua gelida e me lo ritrovai davanti, lì in acqua accanto a me, lo accolsi con la mia muta bocca spalancata: è qui che il mio film cominciava. Ma io non ero una strappona bionda bensì un’aspra dodicenne e neanche quell’anno, chiaramente, il film cominciò. Bici Rossa mi salutò con il suo sorriso pieno di sole e malizia, mi fece una carezza sulla testa di quelle che si fanno ai bambini e si occupò presto di altro, anzi di altre. Loro sì che erano appetibili: avevano addirittura tredici anni, venivano dalla “città” e non gli mancavano di certo delle arroganti, altezzose mammelle. Bici Rossa e gli altri ragazzini cominciarono per scherzo a slacciare a tutte il bikini. A tutte tranne che a me, perché era inutile. Un pochino mi rodeva.

La sera, come ogni sera, raggiunsi gli altri nel piazzale. Anche se eravamo piccoli nel paese non si celavano pericoli e i nostri genitori ci facevano restare fuori fino a tardi, le undici. Io avevo sempre i capelli ancora un po’ bagnati e un inebriante odore di balsamo addosso: era quello il profumo dell’estate per me, l’odore di una promessa mai completamente mantenuta.

Giocavamo sempre a un nascondino evoluto, che aveva come confini i dintorni del paese. Anche quella sera Daniele cominciò a contare Uno, due, tre…novantanove, cento! e noi ci spargemmo dietro ai porticati, giù per i borghi, sotto il Ponte medioevale, su a perdifiato per le colline. Io “casualmente” mi nascosi nel prato in cima alla collina con Bici Rossa. Mentre eravamo stretti stretti dietro a un dosso, il silenzio della notte si addensò attorno a noi e lui mi disse “quando sarai più grande ripasserò”. E allora cominciai subito ad aspettare di diventare grande, e a contare Uno, due, tre…novantanove, cento… Gli sorrisi per quella spremuta di potenzialità che mi stava offrendo, felice in fondo di non essere ancora. Ci sdraiammo sul prato senza fare più nulla se non contemplare le stelle che pattinavano veloci sul cielo nero.

Era così profondo il cielo e così pieno: pieno di tutto quello che mi sarebbe accaduto, di tutto quello che mi sarebbe potuto accadere e anche di tutto quello che non mi sarebbe accaduto mai. Mentre sentivo di lontano gli echi degli scalpiccii di qualcuno, dei “Tana per me!” e mia mamma che mi reclamava dalla finestra – No, mamma, fammi giocare ancora un po’– io mi scioglievo tra le trame oscure del cielo, da cui mi sgocciolavano addosso dei seducenti

SE      SE      SE…

Sofia Assirelli

* racconto pubblicato sul Corriere di Bologna