Movimento laterale

flipper anni 70di Marco Montanaro

Una che scopavo s’è sposata. L’ultima volta che sono tornato al paese me l’hanno detto. L’ho vista che passeggiava con uno e aveva un’acconciatura. Non faccio caso alle dita, agli anelli, allora ho guardato il tipo che era con me e lui fatto «Ah». Come se dovessi rimanerci. Me la sono immaginata subito con l’acconciatura di dopo, quella che viene col primo figlio. Io al paese scendo poco e lo faccio solo per mio padre. Che dice che sta male e poi non è vero. Su dove sto faccio lavori così, pesanti si dice, mi sono uscite due spalle e in paese non mi riconoscono. Porto la barba adesso e se qualcuno ricorda dice «Quando la tagli» anche se non mi vede da dieci anni. Mi piace che passo inosservato. Mi siedo nei bar e vedo quelli che fanno le stesse cose da anni e dicono le stesse cose alle stesse persone da anni e io posso starmene accanto a origliare tanto non mi vedono. E se mi riconoscono mi prendo il caffè offerto, mi alzo e me ne vado.

Mio padre fa finta che non ha capito che faccio questi lavori impossibili e allora se la prende che non scendo mai. Così dice. Invece finisce che scendo ogni mese che lui si fa male. Si spezza, dice. Io dico che è un vecchio e si spezza come i vecchi. L’ultima volta il piede. Ma ogni volta pare che è l’ultima. Stavolta l’ho trovato peggio del solito, è vero. «Sono di passaggio» ha detto, ma non ci credeva. «Siamo tutti così, stiamo tutti così» gli ho detto io. Eravamo al pronto soccorso e c’era una fila. Leggi il resto dell’articolo

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Il Fungo – #gunstreet

fungodi Domenico Caringella

Mi è capitato di leggerne per la prima volta nel verbale di un vecchio caso, mentre facevo delle ricerche per la Disciplinare sull’attività del tenente Bednarik. Nella sua relazione Chuck come al solito divagava e così aveva scritto che le gambe del “Fungo” avevano lasciato una doppia scia di sangue, “un binario morto” che portava dritto dritto al garage di casa. Adoro i treni. Abbandonai per il momento Bednarik e seguii il binario.
Oggi posso concludere che perdere il padre, più o meno insieme all’innocenza, sarebbe stata la cosa peggiore che potesse accadere a Jim Bob McIntyre III Leggi il resto dell’articolo

La parte più calda

[Siamo lieti di riproporre ai nostri lettori il racconto La parte più calda, pubblicato su Los Ingrávidos, numero 12 della rivista Colla, dello scrittore spagnolo, classe ’85, Juan Soto Ivars e tradotto da Marco Gigliotti. Buona lettura.]

di Juan Soto Ivars

1.

Erano i giorni in cui il lavoro non ci aveva sfiorato. I giorni in cui conoscevamo intimamente l’estate e lei ci permetteva di passeggiarle sul dorso. Per noi la vita era andare su e giù per strade conosciute, portare a spasso la noia per le campagne che circondavano il paese e fantasticare sulle ragazze: creature incomprensibili e desiderate che ci ignoravano come se fossimo mendicanti molesti. Ricevevano in cambio le nostre risposte iraconde e ingegnose. Le nostre sassate cariche d’amore.
Il paese era piccolo ma le differenze tra gli abitanti erano molto marcate: c’eravamo noi e quelli che potevamo spaventare facilmente. Io vivevo con la mia famiglia in un complesso residenziale modesto vicino ai binari del treno. Innumerevoli giorni della mia infanzia ho aspettato, con altri come me, che passasse il treno merci carico di container di legno e cisterne di butano. A volte scommettevamo sul numero di container che avrebbe trasportato il treno. Ci giocavamo soldi o figurine dei calciatori. Altre ci divertivamo mettendo pietre enormi sulle rotaie. Pietre rotonde che esplodevano quando venivano schiacciate dalle ruote metalliche e che mettevamo lì con la speranza di far deragliare il treno. Immagino che volessimo far succedere qualcosa per spezzare la monotonia. Qualcosa che non ci è mai riuscito. Leggi il resto dell’articolo

L’anello d’oro

Al principio c’è il sonno. Sento addosso uno strano senso d’inquietudine misto a paura. Spalanco gli occhi, respiro l’odore caldo del pomeriggio. Uscirei, ma il caldo è un nemico troppo grande per me. C’è un suono che continua a infastidirmi più del caldo, proviene dalla stanza attigua alla mia: dalla camera di mia sorella. Gli occhi volano su tutti gli oggetti sparsi per camera. Come sempre ordinata e pulita. Osservo con acutezza un poster dei CCCP, che sta alla base del mio letto, un residuato bellico del mio periodo da politicante. Dietro di esso si nasconde un buco. Uno dei modi per comunicare con mia sorella senza lasciare la stanza e senza urlare. Mi avvicino a carponi e scruto dalla fessura.
Il mio occhio vede due ragazzi nudi. Leggi il resto dell’articolo

Picassiana

Ero un Picasso e lei mi comprò ed il fatto che ero da un rigattiere non voleva dire niente. Era stata colpa di un critico d’arte che di me non aveva capito un cazzo. Si era fermato alla superficie, alla tela: al mio naso storto, al mio unico occhio, al mio cappello fatto di carta di giornale, senza riuscire ad andare oltre. Eppure era facile: bastava chiudere gli occhi della ragione e guardarmi con quelli del cuore, bastava insomma dimenticare per un attimo le regole della prospettiva per vedere la mia profondità.

La nostra vita è in mano a incompetenti, a sfigati del cazzo che non si sono mai domandati il perché delle cose, a segaioli che hanno sostituito le nozioni al bello, e una cosa è bella non perché… ma solamente perché è bella.

Lei mi appese nel salotto. Il suo appartamento era grande, al settimo piano di un palazzo nel centro di Parigi: due camere da letto, due bagni, una cucina e un salotto appunto. Nel salotto c’era la televisione via cavo, l’impianto stereo e un computer collegato a internet. Lei stava fuori tutto il giorno e io in casa guardavo la televisione, poi verso sera facevo la spesa e preparavo una bella cenetta per due a lume di candela. Lei mangiava sempre con le calze a rete e apprezzava tutto quello che le facevo. Aveva le unghie smaltate di rosso, i capelli castani e gli occhi chiari. Aveva il naso lungo con una leggera gobba, ma sul suo viso le stava bene, anzi io lo trovavo sexy persino di più dello smalto e delle calze a rete così, dopo aver mangiato, facevamo l’amore. All’inizio la sua figa era secca perciò gliela leccavo fino a che non si bagnava e il clitoride usciva fuori, a quel punto glielo infilavo: prima solo la cappella, andando lentamente avanti e indietro poi tutto il resto, sifonandola con forza. Lei urlava, mi graffiava la schiena, sembrava che il letto dovesse sfondarsi da un momento all’altro. Io continuavo fino a che non ce la facevo più. Lei godeva e io non venivo quasi mai ma godevo nel vederla venire, nel sentirla tremare accanto a me anche dopo aver fatto l’amore.

Nel mondo esiste un solo tipo di amore, quello egoista: quello che ti fa desiderare ciò che ami. L’amore che noi chiamiamo “divino”: quello che ti porta verso il bene senza il desiderio del possesso invece non esiste. Nemmeno Dio ce l’ha, perché dovremmo averlo noi? Dio ha solo l’eternità dalla sua parte e con essa può permettersi di aspettare il breve periodo della nostra esistenza senza romperci troppo i coglioni, prima di riaverci tutti con lui.

La mia vita andava avanti tranquilla e nel quartiere mi ero anche fatto anche degli amici.

Uno era un barista amante dell’arte, mi offriva da bere perché restassi nel suo bar: trovava chic avere un Picasso nel locale anche solo per qualche ora. Un altro era un barbone: un filosofo. Non diceva mai niente, restava seduto per terra e guardava la gente che passava. Io quando uscivo dal bar, gli portavo una birra e mi sedevo accanto a lui.

La gente corre e ha facce serie, magari girato l’angolo ride, scherza, è contenta ma per quei dieci metri di marciapiede sembrava volerti spaccare la faccia. Ma a me non me ne fregava niente perché sapevo che la mia vita era migliore della loro, almeno di quella che passavano in quei dieci metri, perché io vivevo in un bell’appartamento e tra qualche ora, dopo aver cenato con una bella donna ci avrei fatto l’amore e l’avrei sifonata così forte da sfondare quasi il letto e lei avrebbe goduto e tremato e mi avrebbe desiderato ancora di più.

Tu non cambi mai, dalla nascita alla morte sei sempre lo stesso, quello che cambia è solo il contorno: la casa, la macchina, il luogo in cui abiti, le amicizie, il vestito, il taglio di capelli ma tu resti sempre uguale. Ciò non comporterebbe nessun problema se ti accettassi per quello che sei, ma purtroppo nella maggior parte dei casi non è così e siccome non puoi cambiarti cerchi di cambiare gli altri.

E’ per questo che lei mi ridipinse il naso dritto, mi aggiunse un occhio e mi comprò un cappello nuovo. Io la feci fare perché l’amavo e poi tutto sommato ero venuto anche bene: ero diventato il ritratto dell’uomo che tutte le donne desideravano. Avevo anche trovato un lavoro in una azienda di import-export. Certo era un’occupazione che non aveva niente a che fare con le mie attitudini artistiche ma avrei fatto qualunque cosa per continuare a piacerle e restare con lei.

La sera però non avevo più tempo per prepararle la cena e lei non si metteva più le calze a rete, scopavamo poco e quando lo facevamo lei non godeva più.

Un giorno la pedinai. Era un giorno pieno di sole, con gli alberi verdi, il cielo azzurro e i turisti in calzoncini corti che fotografavano i monumenti. Io mi sentivo un punto nero in un poster pieno di colori.

La vidi entrare in una piccola galleria d’arte dietro Notre-Dame. Poi da una piccola finestra sul retro, vidi un Kandinsky spogliarla, leccarle la figa e scoparla a più non posso. Lei urlava gli graffiava la schiena sembrava che il letto dovesse sfondarsi da un momento all’altro………………..

Ritornai a casa, mi cancellai l’occhio, il naso dritto che mi aveva dipinto e mi rimisi il mio vecchio cappello di carta di giornale. Da quel giorno non l’ho più vista.

Ora vivo in un monolocale a Saint Germain des Prés ho avuto diverse valutazioni ma ancora nessuno che sia seriamente intenzionato a comprarmi. Così resto qui in cerca di un acquirente:

Lo vorrei di sesso femminile, tra i venti e i trent’anni, di bella presenza, alta, simpatica e intelligente, amante dell’arte e della buona cucina, possibilmente senza figli e con una buona posizione sociale.

Federico Mazzoli