E poi madri per sempre

E-POI-MADRI-PER-SEMPRE_copertina-FRONTPubblichiamo un breve estratto del libro E poi madri per sempre di Maria Grazia Giordano (Compagine Edizioni, 2012), nonché alcune riflessioni dell’autrice in risposta ad alcune nostre domande.

Monica

Potrebbe essere nostro figlio, potrebbe essere suo figlio. Potrebbe essere il figlio che abbiamo atteso con tutto il nostro amore.
Potrebbe essere un clandestino. Approdato con la violenza nel mio ventre. Non la sua violenza, ma quella degli eventi, al di fuori di lui, che lui ha subito come l’ho subita io.
Adesso altro non chiederebbe che di vivere, di avere la possibilità a cui tutti coloro che vengono al mondo avrebbero diritto. Invece del figlio dell’amore potrei portare in grembo un clandestino. Leggi il resto dell’articolo

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R-estate con noi

Scrittori precari vi saluta dandovi appuntamento a settembre. Ci lasciamo alle spalle una nuova stagione positiva e, come abbiamo ribadito di recente anche al K.Lit a Thiene, non ci aspettavamo neanche, quando abbiamo iniziato, di percorrere tutta questa strada, di incontrare così tante persone ai nostri reading o di creare un seguito numeroso al blog tale da renderlo tra i più influenti della blogosfera italica. A dicembre saranno ben quattro anni da quella prima lettura in quel dell’Alphaville, al Pigneto. Accadde che avevano proposto a Simone di organizzare una serata di reading; si decise di chiamarla “Scrittori precari” Leggi il resto dell’articolo

croccantissima

croccantissima (autoproduzione, 2011)

di simone rossi

«(…) la semplicità è la qualità più difficile da ottenere, less is more,
ci vuole più tempo a scrivere un libro corto che un libro lungo.»
(p. 52)

Simone Rossi continua sulla strada dell’autoproduzione: su croccantissima (leggi l’estratto pubblicato su SP la scorsa settimana) c’è scritto che «questo libro non ha una casa editrice» e che «puoi ordinarlo a silkeyfoot@gmail.com».
Me lo immagino con i racconti in tasca – lo so, non è difficile immaginarlo visto che lo conosco – che li tira fuori e li legge come se fossero canzoni – anche se in fondo al libro dice che lui non legge, ma vi assicuro che la chitarra la suona. In queste storie – ma alla fine è una sola, e si capisce che ci sono vari fili tirati tra una storia e l’altra, anche se per vederli ci vuole orecchio – in queste storie, dicevo, si sente che c’è la musica, e il ritmo, le strofe e ritornelli, e i testi delle canzoni fioriscono un po’ ovunque – e poi nel mezzo capita anche la storia di questo cantante, questo Elliot Smith che intervistarlo «è come lanciare una palla a un cane», perché «invece di scodinzolare e correre a prenderla rimane lì piantato e ti guarda un po’ imbambolato». Leggi il resto dell’articolo

L’ORA MIGLIORE E ALTRI RACCONTI

Esce in questi giorni in libreria L’ora migliore e altri racconti (Edizioni Il Foglio, 2011), una raccolta di storie più o meno brevi scritte da Simone Ghelli in questi ultimi anni.

Quella che segue è la “Premessa dell’autore”.

 

L’acqua è un elemento che mi accompagna sin dalla nascita.

Quella di un fiume mi salvò la vita che avevo visto la luce da appena tre giorni, e m’indicò la strada per gli studi, diversi anni dopo: del primo non ho mai saputo il nome, mentre del secondo ricordo che era la Senna, quello su cui si muove L’Atalante di Jean Vigo – ancora in bianco e nero, come questi caratteri su carta.

L’acqua, elemento metamorfico per eccellenza e sintomo di cambiamento, mi segue da sempre anche nei sogni; d’altronde è l’habitat del mio segno, che comunica col mondo dei morti.

Questi racconti abbracciano un arco temporale lungo sei anni, durante i quali l’acqua ha continuato ad accompagnarmi nel mio modo di procedere, di farmi portare dalla scrittura anziché anteporle una trama; forse perché la mia vita, sin dall’inizio, è stata messa in mano d’altri.

Lo so che un Autore non dovrebbe mai parlare in questi termini, dare il minimo segno di cedimento, ma il mio destino è quello d’immergermi sotto la superficie. Questo non significa che mi piaccia scrivere in apnea, di getto; è vero piuttosto il contrario: il fatto di aver sfiorato la morte mi ha distolto fin da subito dalla cattiva abitudine di confondere la scrittura con la vita.

Non so se tutto questo c’entri col fatto che sul mio cammino io abbia incontrato spesso la follia (per me l’atto stesso di scrivere, la compulsione che mi spinge, lo è); per certo attraverso tutte queste storie ho cercato di ricavarne un disegno: una sinfonia che si apre e si chiude con un sogno (o un incubo).

Tutto quello che si trova nel mezzo lo lascio al vostro sguardo.

 

SIC – Un romanzo a 200 mani

Dopo quattro anni complessivi di lavoro, il Grande Romanzo SIC, primo romanzo a 200 mani della storia della narrativa, entra nell’ultima fase della revisione.

Il progetto SIC – Scrittura Industriale Collettiva nasce nel 2007 con l’obiettivo dichiarato di dare un fondamento metodologico alla pratica della scrittura collaborativa e portare una squadra di 100 autori a scrivere un romanzo che sia innanzitutto un buon libro.
Dietro la progettazione del metodo, la volontà di superare i limiti di coerenza e omogeneità della scrittura collettiva “a staffetta” e rendere invece la produzione di testi letterari da parte di gruppi e masse un vero processo collettivo, possibile anche laddove i vari scrittori non si conoscono tra loro e la produzione del testo è interamente coordinata via Internet.

Ci sono voluti due anni di sperimentazione del metodo, nei quali sono stati scritti e pubblicati cinque racconti, e due anni di stesura, ma oggi, dopo 935 schede individuali consegnate dagli scrittori per circa 3000 pagine totali di materiali, 170 schede definitive composte dai direttori artistici (di cui 24 schede personaggio, 35 schede luogo, 18 schede trattamento, 93 schede svolgimento) e 4 ritiri in un eremo collinare, il distillato finale del progetto SIC, un romanzo storico-avventuroso ambientato negli anni dell’occupazione tedesca in Italia e della Resistenza, entra nell’ultima fase della sua produzione.

Per ulteriori informazioni: www.scritturacollettiva.org

FACEBOOK, UN LIBRO DI FACCE /1

Secondo Time, l’uomo dell’anno 2010 è Mark Zuckerberg, il ragazzo che ha inventato l’unica cosa che anche i tecnodiffidenti utilizzano: Facebook.

Molte persone non riescono ad avvicinarsi alla tecnologia perché ne hanno paura e ne hanno paura perché non la conoscono. Non si tratta di persone stupide o particolarmente retrograde, piuttosto di persone non compatibili col meccanismo della Rete. In effetti le proprietà di questo meccanismo sono, per alcuni aspetti, davvero singolari.

Una delle quattro proprietà principali della Rete è la memoria.

La Rete conserva memoria di tutto, non è composta di verba ma di scripta, tutto “rimane agli atti”. Il problema è che questo modo di scrivere si avvicina, per emotività e velocità, più ai verba che agli scripta e tutti sappiamo quante sciocchezze dette a voce poi, a vedersele davanti per iscritto, farebbero arrossire. Questa “ipermemoria” conserva tutto ciò che scriviamo, tutto quello che digitiamo velocemente sulla tastiera con la leggerezza tipica della chiacchiera, in sostanza tutto ciò che ci passa per la mente viene fissato da qualche parte. È come una colossale intercettazione dei nostri pensieri: stati d’animo, battute di spirito, osservazioni finiscono nero su bianco nel cyberspazio, spesso senza il loro contesto originario, e così enucleate diventano tutt’altra cosa.

Un’altra delle proprietà principali della Rete è la velocità.

Questa proprietà nasce da tre caratteristiche ben precise della Rete stessa, che sono: multimedialità, orizzontalità e immediatezza.

Se siamo sul sito dell’ANSA a leggere un articolo sul premier islandese, grazie alla multimedialità, potremmo finire sul sito della tv russa a vedere un filmato o su quello della BBC per guardare delle foto o su quello della CNN per sentire una registrazione: non c’è più un solo documento da visionare, ma una catena di documenti visionabili che si legano tra loro tramite link.

Il fatto che i documenti siano fra loro collegati e che nella Rete non ci sia una graduatoria dei siti – se non quella dettata dai motori di ricerca – ci porta direttamente alla seconda caratteristica: l’orizzontalità non è altro che la tipica assenza di gerarchia del materiale di Internet. Non ci dobbiamo arrampicare per 1500 metri su una montagna per avere una stella alpina, ma “navigare” o “surfare” in un mare in cui tutto è al livello del pelo dell’acqua pronto a essere cliccato. La Rete è un oceano dove ci sono solo isolette collegate fra loro da un numero indeterminabile di canali: spetta a me decidere dove andare, perché la Rete non m’impone una salita ai 1500, ma solo una navigazione della rotta incerta.

Ma quanto tempo si perderebbe a girare questo sterminato arcipelago? Infinito, se non fosse per l’immediatezza del meccanismo, che consente di muoversi in “tempo reale”: invio una mail in Australia e in un secondo è arrivata, cerco la biografia di un attore e in men che non si dica è davanti a me, clicco su una clip di Youtube e immediatamente inizio a guardarla. Questa navigazione fulminea, però, ha bisogno di alcune condizioni: i contenuti devono essere scaglionati in capoversi per essere più leggibili, i post reperibili attraverso i tag per risparmiarsi la lettura sommaria di tutto, le frasi senza troppe subordinate o congiuntivi per non essere troppo impegnative, i siti “accessibili” e intuitivi, i colori accattivanti e allo stesso tempo riposanti, etc. Tutto, dall’ideazione di un contenuto alla sua pubblicazione on-line, viene semplificato per essere creato e fruito più velocemente possibile: è l’unico vincolo che il meccanismo richieda. Anche per questo postare qualcosa ragionatamente diventa difficile, perché mentre navigo voglio disporre subito dei contenuti, quindi i contenuti devono essere postati altrettanto velocemente: ecco come gli scripta diventano verba e possono diventare imbarazzanti.

Queste tre caratteristiche sono tutte menzionabili come velocità: da un media all’altro velocemente, da un sito all’altro velocemente, dal mio cervello al web velocemente.

Terza principale proprietà della Rete è la virtualità.

Per virtualità bisogna intendere l’esistenza di uno spazio che in realtà non è uno spazio, ossia di un luogo che sopprime tutti i problemi collegati col mondo fisico: in Rete non esiste la distanza, la Cina o l’Ungheria sono ugualmente vicine, parlare con un pakistano è facile come parlare col mio vicino di casa, tutto è a portata di clic.

Addirittura, per chi naviga sistematicamente, la vita on-line è molto più ricca e completa di quella reale. Quest’ultima vive di routine e regole precise, quella virtuale è imprevedibile (le rotte incerte) e informale (la velocità non può perder tempo in convenevoli). La vita in Rete è vertiginosa perché attraverso il modem tutto il mondo entra in una stanza: pur essendo irreale non smette d’essere autentica, è finta ma viva. Come tutte le fantasie è impalpabile e coinvolgente.

Quarta principale proprietà della Rete è l’autonomia.

Sul concetto di autonomia, come su quello di virtualità, bisogna intendersi. Autonomia significa darsi delle proprie leggi, cioè delle proprie regole e delle proprie parole d’ordine, vivere in base a quanto diciamo noi stessi e non in base a quello che dicono gli altri. Chi è autonomo è Demiurgo di se stesso.

L’esempio più eclatante di autonomia è il nickname, un’identità creata da noi stessi. Non siamo più come gli altri ci vedono (cosa tipica della vita reale), ma siamo come vorremmo essere: il profilo – che fa capo al nick – può diventare tutto quello che vogliamo, possiamo costruirlo su quello che desidereremmo essere, diventa lo specchio deformante in cui somigliamo al nostro ideale. La menzogna è facile in Rete perché la virtualità salva dalla realtà e se si pesa cento chili, ma sul profilo si scrive sessanta, per tutto il web si peserà sessanta e nessuno potrà negarlo perché nessuno è lì a guardare.

Possiamo mentire, d’accordo, ma non dobbiamo sottovalutare la memoria del sistema: se scriviamo in un sito che la nostra taglia è 56 e il giorno dopo, su un altro sito, scriviamo che pesiamo sessanta chili il sistema non lo dimentica e ci smaschera. Il bugiardo deve avere buona memoria nella vita reale, ma in Rete deve averla ottima. Solo a questa condizione l’illusione che creiamo può reggersi.

A questo punto poniamoci di nuovo la domanda: perché alcuni non sono compatibili con queste quattro caratteristiche?

La risposta che potremmo dare è la seguente: perché ognuna di queste porta con sé un paradosso.

Sembra una cosa da niente, ma un paradosso è come il pisello sotto il materasso della principessa: pochi se ne accorgono, ma quei pochi non riescono a far finta di niente.

Il paradosso della memoria è che, anche se scriviamo come se stessimo chiacchierando per strada, tutto rimane. Non conta cosa diciamo né come lo diciamo né se vogliamo che rimanga: resta e basta. Quindi la nostra volontà di conservarlo non conta. Una memoria simile è inconcepibile per un essere umano perché sopprime completamente il concetto di tempo: ciò che è stato detto anni fa è reperibile come se fosse stato detto ieri.

Il paradosso della velocità è che ha cambiato la natura del mezzo scritto: nato per conservare un pensiero ragionato si è trasformato nell’espressione dell’emotività. Prima lo scrivere comportava una mediazione razionale, una volontà precisa, un controllo su ciò che veniva detto; ora si tratta d’un getto di pensieri quotidiani, spesso non ponderati, spesso molto emotivi. Scritto e parlato, in Rete, non si distinguono quasi più e ciò influenza anche l’uso della lingua scritta al di fuori del web. Così come non si distinguono più i luoghi, perché grazie alla velocità lo spazio non esiste più.

Il paradosso della virtualità riguarda la capacità di coinvolgimento di una cosa finta. C’è senza esserci. È come immaginare una stanza: proprio perché non esiste nella realtà, ma solo nell’immaginazione può contenere qualsiasi cosa, contiene ciò che non si può (o non si vorrebbe) contenere. Non è un caso che il web sia definito “amplificatore”: si pensi all’eco che può produrre una stanza infinita.

Il paradosso dell’autonomia, infine, riguarda due aspetti della psiche umana. Il primo è quello della creazione, perché grazie al nickname creatore e creatura coincidono; il secondo è quello del narcisismo, che viene esasperato perché, se Narciso poteva distrarsi senza che nulla cambiasse, chi mente su se stesso in Rete dev’essere costantemente concentrato per impedire che lo specchio deformante si sconti con la dura realtà e vada in pezzi uccidendo la finzione. In Rete chiunque può giocare a essere quello che vuole (si pensi a tutti quelli che, prima di fare una strage, si filmano e si mettono su Youtube), ma per continuare a esserlo deve mantenere un’attenzione quasi paranoica.

Antonio Romano

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 14

[continua da qui]

Insomma, i cinque arrivarono a Milano carichi come una bomba a orologeria, pronti a esplodere da un momento all’altro, magari proprio nell’ora dell’aperitivo, in mezzo al brulichio e al cicaleccio di certi personaggi azzimati e impomatati che sembrano usciti fuori da una pubblicità di qualche analcolico on the rocks.

Da testimoni attendibili risulta che i sedicenti scrittori alloggiarono in periferia, presso una cugina di primo grado in dolce attesa, e che vi giunsero soltanto in quattro, ma piuttosto trafelati e puzzolenti e ancora carichi di scatoloni di libri rimasti invenduti. Dal qual particolare si evince una volta di più che destava interesse il loro fenomeno, l’esser dei saltimbanchi, o dei pagliacci se preferite, piuttosto che la sostanza delle loro idee, la scrittura vera e propria.

La riunione si realizzò poche ore dopo sulla scalinata del Duomo, un po’ ingrigita e impallinata dai piccioni, ma pur sempre affascinante sotto quel cielo incredibilmente terso e romantico, come documentato dalla foto traditrice, che riprende un abbraccio in bianco e nero tra i nostri, mentre tutt’intorno la piazza pullula di poliziotti col pastore tedesco al guinzaglio e di turisti all’oscuro del fatidico disegno.

È ovvio, a questo punto, che i fatti precedentemente riportati siano tutti quanti viziati da un madornale errore di fondo, alla luce del quale dovremmo rivedere l’interpretazione vigente. Chiediamoci quindi il perché di questa macchinazione, partorita dalle menti di chi si è voluto dipingere in pubblico come puro artista, come animo intonso ancorché impegnato, e del ruolo rivestito infine da questo fantomatico quinto componente. Quale doveva essere la sua funzione, se non quella di coordinare da una torre di controllo le scriteriate gesta dei suo compari, inficiando così la teoria del piano improvvisato sul momento? Ecco allora spiegata la natura guerrigliera di costui, il suo impegno nelle arti marziali e il ruolo strategico di ufficio stampa alle dipendenze di un editore noto da tempo come sovversivo e sobillatore.

Ed è a questo punto, cari i miei lettori, che mi ritrovo, dopo tanto peregrinare tra scartoffie, interviste e dichiarazioni varie, a esser costretto a prendermi anch’io qualche licenza poetica, ad azzardare qualche ipotesi che non potrà mai essere tanto inverosimile quanto la realtà riportata nei commenti dei nostri protagonisti.

Dopo tanti giorni passati chino sui fogli o con le orecchie attente ad auscultare le intercettazioni ambientali, posso affermare di aver fallito nella ricostruzione dettagliata del piano (ed è questo il dubbio che più mi arrovella, poiché questa pecca giustificherebbe ancora l’ipotesi di un colpo di testa, di una bravata improvvisata), ma di aver compreso alcune cose affatto secondarie sulla psicologia di questi scrittori ributtanti e rivoltosi.

La prima è che non avevano una, non dico due o tre, ma un’idea che fosse una di letteratura, la qual cosa si deduce dall’uso sproporzionato di aggettivi indecenti e deleteri quali carino e interessante, con cui infarcivano le loro riflessioni di bassa lega. Hai letto quel mio lavoro?, chiedeva loro qualcuno, e giù a dire che sì, che era carino, interessante, ma che c’era qualcosa che non andava, che non convinceva fino in fondo. Ecco, di questo qualcosa, che immagino costituisse proprio l’irriducibile sostrato letterario della questione, essi non sapevano darne una definizione precisa. Arrancavano, come i più che oggi si buttano a scrivere in mancanza d’altro e che per lo stesso presupposto, quasi che siano spinti da forza d’inerzia, finiscono persino con l’accettare l’obolo del pagamento pur di vedere pubblicate le loro elucubrazioni da quattro soldi. Loro cinque si dichiaravano però contrari a questa forma masochista di letteratura, per quanto poi non si vergognassero di fare la questua a questo o a quell’altro personaggio famoso pur di ottenere un minimo di spazio e di visibilità.

Insomma, se proprio posso permettermi anch’io un poco di licenza poetica, direi che la storia del nostro glorioso paese doveva ancora conoscere dei simili gigolò della letteratura, che forse non sarebbero dispiaciuti al D’Annunzio, se non fosse che questi non avevano neanche l’ardire di rischiare la propria vita per la patria.

Altro che rivoluzionari della parola!, essi miravano né più e né meno all’effimera gloria, al caduco successo, quello stesso che avrebbero raggiunto con più facilità in uno studio televisivo che nell’impervio mare di carta che s’eran prefissati d’attraversare…

Simone Ghelli

Coincidenze – Segreto e grazia

A causa di una delle continue e vaste reti di coincidenze che innervano le nostre vite, Andrea si accorse di cosa volesse davvero dire essere religiosi.

Alcune persone illuminate sanno benissimo che la libertà dell’essere umano è possibile solo in teoria, che l’infinità delle possibilità è un’astrazione perché all’atto pratico nessuno può diventare qualsiasi cosa o vivere qualunque esperienza, limitandosi di solito a sguazzare nel probabile e soprattutto nel possibile.

Andrea sapeva benissimo che non sarebbe mai diventato un fisico nucleare o il leader dei Foo Fighters, anche se teoricamente sarebbe stato possibile. Sapeva che le scelte fatte si assommavano a quelle da fare in un bilancio, anzi, in una statistica la cui media era difficile da smuovere, ormai. Se hai deciso di fare lettere non puoi più fare il fisico nucleare.

Ne aveva parlato durante le vacanze, agli amici, ed erano stati tutti insieme a parlarne fino alle quattro del mattino, come ai bei tempi, in cui con una chiacchierata di una sola notte sembrava possibile risolvere i problemi del mondo.

Tornando a casa si era detto che Dio era un porco, che il libero arbitrio era una fandonia e che siamo tutti schiavi delle circostanze. Da quando era arrivato all’età della ragione aveva smesso di credere in Dio, di avere fede nel futuro e nell’uomo, di interrogarsi su come avrebbe dovuto comportarsi: semplicemente viveva, attendendo la fine e cercando di godersela quanto più possibile. No, ormai non aveva nemmeno più un brandello di religiosità in sé, tutto spazzato via dalla semplice constatazione che: in un mondo come questo Dio non può esistere, perché se esistesse sarebbe davvero uno stronzo.

Tornando a casa si era detto che non percepiva più nemmeno l’atmosfera delle festività, che Natale Capodanno ed Epifania si erano spenti completamente nel suo animo da tanti tanti anni. Li vedeva come feste commerciali, di scambi di soldi e regali, roba da cambiavalute o usurai.

Arrivato a casa respirò l’aria del porticato. Era lo stesso odore di quand’era bambino, quando quei giorni avevano un senso per lui. Inspirò e si rammaricò per la perdita. Quello che di quei giorni, da bambino, gli era piaciuto moltissimo era stato il senso di mistero: Babbo Natale, la Befana, la Messa di mezzanotte, i regali comparsi misteriosamente e cosparsi di miracolo… ogni cosa traspirava segreto e grazia.

Mentre passeggiava fumando per il porticato guardò verso il cielo e si convinse che, senza il mistero, il Natale il Capodanno e l’Epifania avevano perso tutto: la fede, senza mistero, perde il suo fascino, perché se tutto è chiaro ed evidente non c’è modo per la fede e per l’incanto di attecchire e rimane solo l’aridità.

Mentre passeggiava fumando per il porticato pensò che per la scrittura si poteva dir la stessa cosa: tutti i suoi amici scrittori parlavano sempre di “scrittura” e mai di “letteratura”, non si consideravano “letterati” ma “scrittori”, implicitamente affermavano di non creare bellezza ma storie, di essere cronachisti e non creativi, contaballe non artisti. Per loro la letteratura aveva perso il mistero e si era trasformata in un esercizio di menzogna, come una messa a cui non si concede nemmeno un’occasione di stupore, come un Dio a cui non si offre neanche una possibilità d’invidia.

Antonio Romano