La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 17

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Rubare le parole al Presidente, si era detto in principio; ma quali reali intenzioni si nascondevano dietro questo slogan da letterati dell’ultim’ora?

La maggior parte degli opinionisti pensò subito a un tentato rapimento, magari condito da rivendicazioni filmate e videointerviste; insomma, a una guerriglia combattuta con le stesse armi del potere mediatico tanto inviso a questi intellettuali del precariato.

Vorrei soffermarmi un poco su questo concetto, prima di passare alle altre ipotesi, poiché non è affatto roba di poco conto. All’epoca c’era chi ancora non accettava come “naturale” questa condizione d’instabilità lavorativa – e molto spesso, a rimorchio, anche sentimentale e psicologica: c’era cioè chi si prefiggeva ancora di ridare una coscienza di classe, o almeno una sua parvenza, a un insieme eterogeneo di persone. Per la prima volta, ad esempio, cinquantenni e ventenni si potevano ritrovare nella stessa poco invidiabile condizione – per chi ancora si ricordava dei posti sicuri nelle aziende e nel pubblico impiego – di dover firmare contratti brevi, anche della durata di poche settimane. A nessuno balenava in testa, all’epoca, che a essere poco “naturale” fosse l’ipotesi di uno stato che come una madre potesse continuare a nutrire a ufo i propri figli, né che l’uguaglianza fosse roba buona solo per i filosofi, poiché l’uomo è avido ed egoista, e di questa stessa risma sceglie i propri governanti.

Ancora legati a un’utopia di stampo tardo ottocentesco, questi scribacchini non intuivano che da tempo il mondo avesse già preso altre strade, e s’incaponivano per questo di riportarlo sulla retta via, a costo di dover ripercorrere all’indietro un cammino già lungo di decenni. Essi non si arrendevano all’ipotesi vincente, e convalidata col sangue nel corso di tutto il Novecento, della selezione naturale, dello spietato darwinismo che si rendeva necessario corollario del capitalismo. Sarebbe bastato loro di rileggere il Leopardi per arrivar più lontano di quanto potessero fare le loro stesse gambe, ma anche volendo, il vizio dell’ideologia avrebbe impedito loro di aprire gli occhi dinanzi alla realtà.

Come non considerare la letteratura roba buona solo per oziosi, quando quest’ultima si compiace a prescindere di difendere gli ultimi e i bighelloni? Quando si batte per un immobilismo sociale che equivarrebbe a un ristagno culturale?

Ecco perché suona strana l’ipotesi del rapimento o dell’attentato; perché una banda di siffatti rammolliti non sarebbe stata in grado né di pianificarla, né tanto meno di eseguirla.

Più verosimile risulterebbe invece la teoria del confronto pubblico col Presidente, attraverso un tentativo, seppur violento, di appropriarsi di una cassa di risonanza tale da acquisire quella visibilità che non avrebbero raggiunto attraverso i loro libri.

Essi ambivano quindi ai microfoni e alle telecamere di uno studio televisivo? Erano, cioè, davvero così sicuri del loro armamentario verbale da cimentarsi in uno scontro – per la verità ben poco democratico, visto il rapporto di uno a cinque – con quello che molti ormai ritengono – e lui stesso concorderebbe con l’interpretazione – lo statista, nonché comunicatore, più importante di tutta la gloriosa storia del nostro stivale?

Simone Ghelli

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 14

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Insomma, i cinque arrivarono a Milano carichi come una bomba a orologeria, pronti a esplodere da un momento all’altro, magari proprio nell’ora dell’aperitivo, in mezzo al brulichio e al cicaleccio di certi personaggi azzimati e impomatati che sembrano usciti fuori da una pubblicità di qualche analcolico on the rocks.

Da testimoni attendibili risulta che i sedicenti scrittori alloggiarono in periferia, presso una cugina di primo grado in dolce attesa, e che vi giunsero soltanto in quattro, ma piuttosto trafelati e puzzolenti e ancora carichi di scatoloni di libri rimasti invenduti. Dal qual particolare si evince una volta di più che destava interesse il loro fenomeno, l’esser dei saltimbanchi, o dei pagliacci se preferite, piuttosto che la sostanza delle loro idee, la scrittura vera e propria.

La riunione si realizzò poche ore dopo sulla scalinata del Duomo, un po’ ingrigita e impallinata dai piccioni, ma pur sempre affascinante sotto quel cielo incredibilmente terso e romantico, come documentato dalla foto traditrice, che riprende un abbraccio in bianco e nero tra i nostri, mentre tutt’intorno la piazza pullula di poliziotti col pastore tedesco al guinzaglio e di turisti all’oscuro del fatidico disegno.

È ovvio, a questo punto, che i fatti precedentemente riportati siano tutti quanti viziati da un madornale errore di fondo, alla luce del quale dovremmo rivedere l’interpretazione vigente. Chiediamoci quindi il perché di questa macchinazione, partorita dalle menti di chi si è voluto dipingere in pubblico come puro artista, come animo intonso ancorché impegnato, e del ruolo rivestito infine da questo fantomatico quinto componente. Quale doveva essere la sua funzione, se non quella di coordinare da una torre di controllo le scriteriate gesta dei suo compari, inficiando così la teoria del piano improvvisato sul momento? Ecco allora spiegata la natura guerrigliera di costui, il suo impegno nelle arti marziali e il ruolo strategico di ufficio stampa alle dipendenze di un editore noto da tempo come sovversivo e sobillatore.

Ed è a questo punto, cari i miei lettori, che mi ritrovo, dopo tanto peregrinare tra scartoffie, interviste e dichiarazioni varie, a esser costretto a prendermi anch’io qualche licenza poetica, ad azzardare qualche ipotesi che non potrà mai essere tanto inverosimile quanto la realtà riportata nei commenti dei nostri protagonisti.

Dopo tanti giorni passati chino sui fogli o con le orecchie attente ad auscultare le intercettazioni ambientali, posso affermare di aver fallito nella ricostruzione dettagliata del piano (ed è questo il dubbio che più mi arrovella, poiché questa pecca giustificherebbe ancora l’ipotesi di un colpo di testa, di una bravata improvvisata), ma di aver compreso alcune cose affatto secondarie sulla psicologia di questi scrittori ributtanti e rivoltosi.

La prima è che non avevano una, non dico due o tre, ma un’idea che fosse una di letteratura, la qual cosa si deduce dall’uso sproporzionato di aggettivi indecenti e deleteri quali carino e interessante, con cui infarcivano le loro riflessioni di bassa lega. Hai letto quel mio lavoro?, chiedeva loro qualcuno, e giù a dire che sì, che era carino, interessante, ma che c’era qualcosa che non andava, che non convinceva fino in fondo. Ecco, di questo qualcosa, che immagino costituisse proprio l’irriducibile sostrato letterario della questione, essi non sapevano darne una definizione precisa. Arrancavano, come i più che oggi si buttano a scrivere in mancanza d’altro e che per lo stesso presupposto, quasi che siano spinti da forza d’inerzia, finiscono persino con l’accettare l’obolo del pagamento pur di vedere pubblicate le loro elucubrazioni da quattro soldi. Loro cinque si dichiaravano però contrari a questa forma masochista di letteratura, per quanto poi non si vergognassero di fare la questua a questo o a quell’altro personaggio famoso pur di ottenere un minimo di spazio e di visibilità.

Insomma, se proprio posso permettermi anch’io un poco di licenza poetica, direi che la storia del nostro glorioso paese doveva ancora conoscere dei simili gigolò della letteratura, che forse non sarebbero dispiaciuti al D’Annunzio, se non fosse che questi non avevano neanche l’ardire di rischiare la propria vita per la patria.

Altro che rivoluzionari della parola!, essi miravano né più e né meno all’effimera gloria, al caduco successo, quello stesso che avrebbero raggiunto con più facilità in uno studio televisivo che nell’impervio mare di carta che s’eran prefissati d’attraversare…

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 13

[puntate precedenti]

Non voglio con questo farvi intendere che gli altri tre fossero dei briganti da meno, o che non fossero anche loro già provvisti di idee malsane, soltanto che la grande trovata venne al toscano come conseguenza della legge di trasmutazione dall’originale – il Luciano Bianciardi – al personaggio che costui si era ritagliato addosso. Insomma, egli seguì né più e né meno ciò che stava scritto in quel romanzo a lui tanto caro, forse perché partorito in quella maremma maiala la cui storia rispecchia per certi aspetti quella dell’italico stivale: un luogo impervio e bonificato, trasformato e trasfigurato dal boom economico, che ha visto nascere e crollare il mito di una modernizzazione destinata a rimanere appannaggio di pochi.

Ma chi erano poi questi altri personaggi della combriccola?

Seguendo l’ordine di apparizione, sempre per attenerci a fatti di cronaca irrimediabilmente compromessi dalla finzione, c’era il poeta dei monti Aurunci, che per sbarcare il lunario eseguiva lavoretti da muratore e da imbianchino, tanto che pare scrivesse più col pennello che con la penna. Questo, per non essere da meno, s’era messo in testa di somigliare addirittura a Vasco Pratolini, che ne aveva fatti tanti di mestieri, ma non certo quello di stuccare i buchi nei muri. Probabilmente quest’uomo che estraeva poesie dal secchio della calcina, com’ebbe a scrivere un suo estimatore dopo averlo incontrato tra i vicoli di Colle val d’Elsa (e che ci facessero là entrambi, rimane per me uno dei tanti misteri di questa storia), rimase affascinato dalle ambientazioni neorealiste dello scrittore fiorentino, ma ancora di più dalla scelta di rendere protagonisti i personaggi del popolo: appunto, imbianchini e muratori.

Ma il più spassoso era quello che si credeva un Ezra Pound remixato a colpi di neomelodici napoletani e coi pantaloni a bracala tipo gangsta rapper, e che si fece crescere la barba per apparire ancora più maledetto, col risultato che gli ci zompavano dentro le pulci al ritmo dei suoi versi. Pare fosse proprio lui il più gettonato sul palco, quello che ammaliava il pubblico, che con labbra penzoloni si godeva questo saltimbanco del calembour. Era anche l’unico a conoscere a memoria le proprie parole, che sputava velocissime sul microfono, mentre gli altri quattro andavano avanti con i fogli in mano, come degli attori che stiano provando la loro parte, con il bel risultato d’incepparsi ogni tre righe. Perché dal vivo, a onor del vero, non è che essi fossero poi tutta questa cosa straordinaria: semplicemente degli scrittori che leggevano le loro cose, con stili assai diversi, e forse piacevano proprio per questa presunta genuinità e biodiversità.

Resta invece l’ombra del dubbio sul quinto e ultimo, in ordine di apparizione, componente, ché non volle somigliare a nessuno – forse perché comparve effettivamente soltanto in quel di Milano? – ma che per non sciupare il trucco venne accostato al Camillo Boito, un po’ per il fiero cipiglio, e un po’ per l’esser scapigliato e dunque romantico e decadente, nonostante una corporatura da lottatore che non si confaceva certo al paragone. Sicuramente vi era però un’affinità nella scelta dei temi, che entrambi ricercavano la bellezza in tutte le sue forme, e in primo luogo quella femminile, da lusingare a forza di periodi contorti e di fascinose metafore; e qui si chiude il cerchio, se me lo concedete, sull’argomento donne, sul quale potete adesso sentirvi liberi di trarre le vostre conclusioni.

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 11

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Il riferimento al bello ci è utile anche per comprendere l’univocità di genere caratterizzante il gruppo, che non era certo costituito di soli maschi per una forma di maschilismo o di misoginia – o almeno ciò non sembra emergere dai loro scritti – ma piuttosto perché essi erano accomunati da tratti fisici non proprio ripugnanti, ma sicuramente non piacevoli. A vederli nelle foto che si son divertiti a scattare durante il viaggio, emerge anche una certa sciatteria nell’abbigliamento e nelle posture, che addizionata al venir meno del cosiddetto fascino dello scrittore in un’epoca poco avvezza ai libri, ci dà la soluzione al quesito sull’assenza delle donne in questa combriccola.

E questo dev’esser stato sicuramente un altro chiaro motivo di frustrazione, che ha spinto i cinque, bombardati da una continua pioggia ormonale, a riversar la loro carica su altri obiettivi, e in particolare su quello assurdo e grottesco di rubare le parole al Presidente. Detto così, potrebbe sembrare un gioco letterario, una sorta di gara di retorica, ma dietro questo slogan un po’ naïf, questi terroristi del verbo nascondevano ben altri intenti.

Per niente sfiancati dalla prestazione bolognese, essi ripresero infatti la marcia verso nord, in direzione della capitale ambrosiana, e fu probabilmente durante quel viaggio che iniziarono a pianificare la loro strategia. Se nelle tappe precedenti il significato del loro discorrere sembrava ancora tutto compreso nell’universo letterario, durante la serata milanese sembrarono emergere degli elementi nuovi, che ci permettono di leggere in chiave ideologica anche certi passaggi dei loro scritti. Non parlo della trita propaganda di cui erano intrisi da cima a fondo i loro testi più impegnati, ma degli altri racconti e poemetti per così dire d’evasione, che nascondevano invece una critica ben più radicale al sistema in cui si andavano muovendo. V’era inoltre in quel loro modo un po’ sornione e testardo di stare sul palco nonostante tutto – i brusii, i movimenti, persino lo svuotarsi degli spazi – un irriducibile e caparbio residuo d’utopia, che si pensava ormai spazzata via grazie ai soporiferi talk show televisivi e all’informazione precotta che si vendeva un tanto al chilo.

Tutto ciò emerse chiaramente in quel di Milano, dove i nostri sembravano dei bambini in gita, e come questi non si risparmiavano in critiche da bar legate a un po’ di sano campanilismo: la prima delle quali fu di carattere meteorologico, ché chi vive a Roma s’affeziona al sole e al cielo della capitale, e per queste due qualità subisce volentieri il peso di tutte le altre angherie della città dei ministeri. Insomma, gli è che anche sotto un cielo terso, ai loro occhi in quella città sembrava comunque tutto grigio, probabilmente per via di una visione viziata da anni di dicerie, al punto che l’immaginario inabissava la realtà a portata di mano.

Ma c’è un fatto che più di altri dimostra la presenza di una trama oscura dietro l’apparente sciatteria del progetto; un particolare non da poco che emerge da una delle fotografie archiviate dal quintetto, che ritrae un abbraccio sospetto ai piedi degli scalini del Duomo. Nell’immagine si vede chiaramente lo scrittore con attitudini alla lotta salutare due dei suoi compari di viaggio, in un modo che indica in maniera lampante la ricongiunzione dopo un considerevole lasso di tempo, e che desta molti dubbi sulla veridicità degli appunti ritrovati tra le loro carte. Come se il viaggio fosse insomma stato riscritto al suo termine, per raccontarci una storia un poco diversa da quella realmente accaduta.

Già vi sento obiettare che in fondo questo è il compito dell’artista, che s’ingegna nel rimescolare un poco gl’ingredienti di un piatto che siamo abituati a trovare servito e condito, e al cui sapore ci assuefacciamo facilmente e volentieri – nel nostro paese la televisione è in fondo servita proprio a questo: a presentarci sempre il solito menù, e non è un caso che stia caparbiamente accesa mentre la famiglia si riunisce a tavola per desinare.

Il compito di un buon degustatore – che sia lettore o spettatore non importa – è però quello di saper discernere quest’ingredienti, in modo che non corra il rischio d’esser caso mai avvelenato; perciò siamo arrivati al punto di dover sporcare un poco le nostre mani, per separare il buono dal cattivo, come in ogni opera che si rispetti.

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 10

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Ci sono diverse teorie sulle attitudini politiche del quintetto, tutte ben argomentate, ma smontate dal fatto che in ognuna di quelle teste la visione del mondo era bacata in un modo diverso. Non v’era cioè uno sguardo d’insieme sulla realtà, ma semmai un’accozzaglia d’idee – o, per esser più precisi, di principi d’idee – che rimanevano abbozzi, e che di tanto in tanto rispuntavano dal terreno per poi ricader subito per terra al primo alito di vento. In verità, i più – ad eccezione dei pochi facinorosi rimasti a piede libero nel nostro beneamato paese – concordano sul fatto che le tendenze eversive del gruppo nascessero da un eccessivo bisogno di comparire, nonostante tutti i proclami contro la società dello spettacolo e via discorrendo.

Questa loro necessità di trasformare la parola in azione era insomma il risultato di un lento logorio dell’anima, la quale ambiva a trovare un riscontro della propria esistenza in mezzo agli altri, al di fuori di quelle poche righe scritte, perlopiù non reperibili dal grande pubblico. Per chiamare le cose con il loro nome e non fare il gioco di questi scrittori, così bravi a ribaltare il senso e a colpir di metafora, si può dire che il vero motivo di tal furore poetico fosse un male assai ricorrente e banale pei nostri tempi: la frustrazione. Nonostante gli alti ideali, risorgimentali o rinascimentali che fossero, costoro erano in tutto e per tutto figli della nostra epoca, in cui l’occhio precede gli altri organi, e perciò incapaci di condurre quella vita isolata e anonima che apparteneva ai grandi scrittori di una volta. Forse questi novelli scrittori non avevano così tanta fiducia nella loro parola, e allora dovevan batter di gran cassa, buttarla insomma in caciara, e per farlo non trovarono di meglio che mirare al bersaglio grosso della politica, ché tanto quello fa sempre rumore.

Gli è che questi cinque affabulatori si sentivano posseduti dalla voce del popolo; un popolo, a dire il vero, che non rispecchiava certo la maggioranza degli italiani, ché ormai alla precarietà c’aveva fatto il callo da tempo e che non si riempiva di certo la panza con la cultura. Essi identificavano però il popolo in quel manipolo di spettatori che nel bene o nel male continuavano a seguirli, senza considerare problemi di ordine statistico – ché i letterati non si abbassano a certe cose – dai quali avrebbero subito dedotto che trenta persone, per quanto siano risultato più che dignitoso per una lettura, sono una minoranza della minoranza in una penisola abitata da milioni d’individui. E invece le loro gole s’incendiarono per qualche applauso di convenienza, che scambiarono per fermento culturale – e qua ci sarebbe da incolparne quelli che non capiscono quanto fragili siano le menti di certi soggetti portati al romanticismo, e che anziché spegnerne preventivamente i bollenti spiriti, si divertono nel gettar benzina sul fuoco delle loro passioni.

A volte, come il caso in questione dimostra, è da certi errori di valutazione che nascono poi i peggiori mostri, che di qualche idea strampalata finiscono per farne un manifesto, o addirittura un piano che prevede il sovvertimento della retorica dominante e il sabotaggio del linguaggio del potere; che da qui a scambiare una visione personale del mondo – oltretutto insana, aggiungo io – per la realtà delle cose, il passo è breve. Anzi, brevissimo.

Insomma, se il virtuale altro non è che un potenziale reale – qualcosa che attende di essere messo in pratica – allora la colpa di tutto quanto è primariamente di quei lettori che non s’avvidero della pericolosità soggiacente tra le righe, e ancora più di chi non legge, perché è come chi si tappi gli occhi davanti all’orrore per non esser costretto a guardarlo in faccia. Se questi cinque modesti scribacchini avessero goduto di un pubblico più ampio, probabilmente non starei qui a raccontarvi questa storia, perché nella massa sarebbe balzato agli occhi, anche ad una sola persona, l’aberrante disegno che si andava delineando. Ma forse, a pensarci bene, in tali condizioni non si sarebbe neanche sviluppato quel senso di frustrazione che vedo all’origine del tutto, e che dimostra che il male si annida sempre laddove non vi sia del bello. Un sentimento, mi pare ormai chiaro, a cui non potevano certo aspirare i cinque bruti di cui stiamo qua trattando.

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 9

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Si narra che i cinque giunsero a Bologna con largo anticipo, e che per tutto il tempo d’avanzo continuarono a criticare la città emiliana, rea di aver perso quell’aura che la caratterizzava durante gli anni ottanta e novanta. L’arrivo non fu d’altronde dei più accoglienti, visto che trovarono strisce blu a pagamento ovunque, financo fuori delle mura, e furono costretti a dilapidare diversi euro per il parcheggio (di quelli che tenevano in un barattolo di vetro per conserve, detto anche fondo cassa comune).

Sotto i portici, poi, la desolazione era così tanta che si sentivano risuonare soltanto i loro passi claudicanti, strascicati per via dell’acido lattico che bucava i muscoli delle loro gambe di scrittori, abituate più che altro a star sedute – con l’eccezione di quelle appartenenti all’imbianchino scribacchino, che in quanto a movimento non era messo poi così meglio degli altri.

Inoltre, da ferventi credenti quali erano, essi mandarono non poche bestemmie durante l’estenuante ricerca di un punto wireless da cui postare alcune notizie sul loro blog.

Gli è che le cinque menti bacate non ci riuscivano affatto a staccarsi dall’infernale aggeggio virtuale, tanto che, nonostante tutti i proclami per la folle impresa podistica, si erano prefissati anche lo scopo di tenere un diario di bordo – si vede che si sentivano capitani coraggiosi e navigati – dove documentare il viaggio con alcune simpatiche impressioni – ché oltre la simpatia non riuscivano proprio ad arrivarci, almeno non con la penna.

Insomma, finirono col bruciarsi le due ore pomeridiane in eccesso a scorrazzare per la città col portatile in mano a mo’ d’antenna, finché non raggiunsero Piazza Maggiore, dove s’iscrissero presso l’apposita postazione telematica per usufruire della connessione. Tutto questo per offrire quelle quattro righe a pochi sfigati lettori – quanti mai ne potevano avere infatti questi ribelli novellatori, già consapevoli di non poter ambire ad antologia alcuna, se non grazie a un’azione extraletteraria? – anziché riposarsi il tempo necessario a non far sembrare il loro reading una lettura dei salmi in notturna.

Oltretutto, il locale adibito alla performance era sprovvisto di microfoni, e con annessa sala di avventori ben poco interessati alla letteratura, e in particolare a quella dei cinque intossicati – dei famosi miasmi di cui all’inizio – e infervorati parolieri.

Nonostante tutte le complicazioni, pare che al momento giusto furon ripescate le forze residue per tenere il palcoscenico – in realtà un piano rialzato con divano – e che addirittura vi fu chi suonò in sottofondo per accompagnar quei versi – uno che a dire il vero, a giudicar dal cognome, sembrerebbe personaggio inventato di sana pianta; ma, come si dice, a volte la realtà supera la fantasia.

La serata scivolò insomma via liscia, bagnata dal solito vinello, perché i cinque trucidi non andavano affatto per il sottile in certi ambiti, e toscano o emiliano che fosse, l’importante era il non abbandonar la tinta rossa.

E dunque, a forza di girarci intorno, è giunta l’ora di prendere la palla al balzo – o sarebbe forse meglio dire il bicchiere – per parlare delle strane idee politiche che i nostri s’eran messi in testa. D’altronde il nostro Presidente, e in testa al corteo un suo Ministro che altrimenti non si sarebbe potuto vedere, l’avevano detto di stare attenti a certi artisti profittatori del bene comune, avvezzi a sputare nel piatto in cui mangiano, che nella fattispecie era quello del sistema Italia. Un sistema inespugnabile, verrebbe da dire col senno di poi…

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 8

[Puntate precedenti]

Da qui in avanti le notizie si fanno più precise, per via di annotazioni prese dagli stessi protagonisti – anche se questi non hanno poi riconosciuto la paternità della totalità degli appunti – nonché grazie ad accurate testimonianze, che si fanno particolarmente interessanti considerando il fatto che il Presidente si sia salvato proprio grazie all’arte di qualche crumiro, alle cui attenzioni avranno senz’altro ceduto gli egotici scrittori, che in quanto a penne pare non avessero niente da invidiare a quelle colorate con cui i pavoni amano farcire la ruota.

Del viaggio nella città di Dante – che fu anche di molti altri, come appresero i nostri passeggiando trionfalmente davanti agli Uffizi – se ne parla soprattutto in termini podistici, tanto che le scritture convergono sul tema comune del mal di gambe, che prese un po’ tutti durante il quarto e ultimo viaggio, nonché umido e notturno, da La Cité all’auto e ritorno. I cinque erano stremati, ma felici di aver fatto convergere tante persone in Borgo San Frediano, nonostante il concertone in piazza della Signoria, che quando lo seppero, lì davanti alla libreria, prese a tutti un bel colpo! Per lo spavento, a quello di loro che aveva origini etrusche e toscane, tornò su pel gargarozzo l’intera fettina panata che s’era mangiato in ricordo di quand’era piccolo. Di lì a poco avrebbe infatti letto il racconto sul suo nonno, che dopo i mercati lo portava in trattoria, mentre il freddo imperversava in Val di Cecina, e gli era sembrato un bel modo di rendere omaggio alla sua infanzia il concedersi una fetta di quegli antichi sapori, che aveva accompagnato con una porzione di patatine fritte e innaffiato di vino rosso della casa – identificandosi subito come scrittore piuttosto prevedibile, aggiungo io.

Insomma, nonostante la concorrenza, gli è che il luogo si riempì all’inverosimile, tanto che ai fiorentini gli luccicaron gli occhi per l’orgoglio. La città toscana rispose alla grande alla chiamata alle armi dell’esercito dei letterati dell’ultim’ora, che incuriosivano più per la follia della loro impresa che per la verità delle loro parole – su cui si sospendeva volentieri il giudizio per colpa dell’ammirazione delle gesta. Inutile quindi aggiungere che di libri i nostri cinque non ne vendettero manco uno, a esclusione di quelli stampati in ciclostile, del costo di un euro, che andavano via più per lo sfizio d’averci questo cimelio in mano che non per la qualità dei contenuti, che però contribuirono all’abbeveraggio necessario all’utilitaria.

Alla fine della baraonda, che vide impegnati nel tour de force verbale anche tre noti scrittori del Valdarno, il gruppone si sminuzzò in una sparuta compagine che finì col consumare un ultimo bicchierino in una piazzetta là dietro, dove saliva tutta l’umidità del fiume, che per fortuna non portò seco le tanto vituperate zanzare, che pare amino moltiplicarsi soprattutto tra i vicoli pisani.

Giunte che furon le due di notte, i cinque scalatori della metrica si concessero un’ultima scarpinata per posare le scatole ancor ricolme di carta e poggiare i loro corpi in un giaciglio amico; ché fu in un loft del più famoso tra gli ospiti della serata letteraria, che dovette anche sorbirsi puzze e fetenze varie di lorsignori, come prodotto di un’intera giornata passata in balia delle intemperie. Costui dimostrò prova d’inenarrabile coraggio nell’affrontar la marmaglia, anche se si levò alto il grido nella notte, per interrompere il sinfonico russare di almeno tre delle cinque vie respiratorie.

Insomma, se la rivoluzione non aveva a russare, qua c’era di che lavorarci parecchio…

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 6

[Leggi qui le precedenti puntate]

Tutto ebbe a cominciare a Roma, come già si è accennato, ma l’inizio non fu affatto col botto. I soci fondatori, presenti al primo alcolico incontro, furon soltanto due, che poi sarebbero diventati (guardate voi come s’ingegna a volte il caso) il più giovane e il più vecchio dell’allegra compagine. Erano entrambi reduci da altri esperimenti maturati in rete, ma ormai vogliosi di sperimentare per strada il virtuale, che altrimenti sembrava loro di scrivere un po’ col fumo negli occhi. Questo almeno è quanto riportato da chi ancora li frequentava in tempi non sospetti, da coloro che negl’interrogatori parlano di altissimi ideali recitati a gran voce e di discorsi sui massimi sistemi che facevan perder di vista il dettaglio e confondevano le acque – questa a dire il vero è una massima che prendo a prestito da un semiologo toscano di chiara fama internazionale, nonché mio maestro, che mi ha sempre consigliato di procedere una pagina alla volta anziché spiccare il volo verso l’iperuranio*, laddove poi non ti segue più nessuno.

Questi due, poi, avevano stili completamente diversi, tanto da non capire cosa li accomunasse, se non la venerazione per Bacco, dio del vino, della vendemmia e dei vizi. Di questa passione ne scrivevano un po’ in tutte le salse, come di ogni romantico che si rispetti, che ha il culto dell’artista maledetto, detentore di ogni più sacrilega verità. La loro naturale inclinazione all’autodistruzione stride però non poco col compito che s’eran prefissati, e ancor più col primo fallimentare tentativo, che li vide comparire dinanzi a un pubblico inesistente o quasi; ma non per questo desistettero dal proceder oltre. Anzi, a onor del vero se ne aggiunse subito un altro alla triste accoppiata, che divenne così un terzetto armato anche di versi; sì, perché quest’ultimo era poeta e anche imbianchino, fautore d’una teoria che accomuna il metro alla pennellata, che va in un sol senso affinché non sgoccioli vernice su cui aver poi da ridire a servizio concluso. In tre c’era ancor meno da capire, ché era evidente il guazzabuglio in cui s’eran gettati, così come alle ortiche ebbero a buttare qualsiasi residua speranza di partorire un seppur confuso manifesto d’intenti.

Ecco dunque spiegato il trucco, ché in mancanza d’idee originali essi misero l’accento sull’impegno civile, questo astruso concetto che continua a infettare qualsivoglia intellettuale con un’idea del mondo diversa da quella comune. È questo un paradosso non da poco per chi si batta, almeno sulla carta, per la condivisione di qualsivoglia valore; quando invece il vero intento è di convincere gli altri della bontà dei propri principi, che si spaccian per migliori quanto più non attecchiscono nella maggioranza delle menti (e giù a dire che se non succede è colpa di questo e di quest’altro, e in principio soprattutto della televisione e di chi la detiene, come se ci fosse qualcuno a tenerci il dito pigiato sui tasti del telecomando). Insomma, gli è che l’idea di cambiare il mondo per mezzo della letteratura è roba già defunta e sepolta dalla polvere dei secoli, ma questi tre non se n’ebbero a dar pace, e a forza d’insistere ne assoldarono altri due con questi strani grilli a passeggio sulla testa.

Uno, anch’egli avvezzo al verso, si fece avanti col bagaglio dell’esperienza on the road (ennesimo luogo comune che incontreremo lungo la strada di questi apostoli del verbo), ché da anni girava l’Italia per gareggiare nei tornei di poesia, guadagnandosi la fama di eterno secondo (del primo non dirò, per non apparir fazioso). L’altro arrivò assai dopo, ed era anch’esso esperto in tornei, ma di quelli da vincersi con le mani (e non le dita, si noti bene), e di cui ho già parlato più sopra.

Quale sia il motivo per cui il numero di cinque sembrò loro sufficiente resta uno dei misteri di questa vicenda, ma, per quanto possa contare, il mio parere è che nell’utilitaria a gpl non ci fosse posto per niun’altro, e questo per adesso ci basti, a testimonianza del fatto che in certi ambienti si debba far di necessità virtù.

Simone Ghelli

*È questo il nome che dà Platone a quella zona al di là del cielo in cui risiederebbero le idee immutabili e perfette.