Sradicamenti 1: Simona Dolce

Dopo aver letto i loro bei romanzi, ho deciso di porre alcune domande a quattro giovani scrittrici (Simona Dolce, Antonella Lattanzi, Serena Maffia e Rosella Postorino), accomunate sia dalla scelta di trasferirsi a Roma dal sud Italia, che dall’aver pubblicato recentemente dei romanzi che, seppur nella loro diversità stilistica e nella varietà delle tematiche affrontate, mi sono sembrati capaci di dialogare a distanza su alcune questioni importanti.

Simone Ghelli: Da un po’ di tempo si parla dei tanti italiani, soprattutto giovani appena laureati e in cerca di lavoro o di una possibilità di continuare la propria carriera universitaria, che emigrano all’estero. Voi, in un certo senso, avete invece compiuto una migrazione interna, dal sud verso la capitale. Come vivete questa doppia situazione: da una parte lo sradicamento dalla vostra realtà e dall’altra la scelta di rimanere in un paese sempre più sfilacciato, che perde ogni giorno pezzi della propria memoria?

Simona Dolce: Comincio dicendo subito che la mia non è una scelta. Se padroneggiassi un’altra lingua emigrerei e userei quella per scrivere. Ma la mia lingua è l’italiano e per me è una scelta obbligata usarla. Dico che me ne andrei e sono consapevole delle conseguenze delle mie parole. Non sarebbe una rinuncia la mia, né un atto di disprezzo. Semplicemente so, come moltissimi italiani sanno, che oggi questo paese non è capace di offrire, di accogliere, di coltivare sentimenti positivi e costruttivi, non è capace di generosità né di bellezza. Mi pare che tutto venga sporcato, infangato dall’invidia, dal menefreghismo idiota, dalla povertà morale ed economica. È un paese che ha dimenticato le migrazioni compiute dagli stessi italiani fin dagli ultimi decenni del 1800. «Quello che prima era stato giudicato e che ha perso la memoria di esserlo stato, giudicherà. Quello che è stato disprezzato e finge di averlo dimenticato, raffinerà il suo stesso disprezzare. Quello che ieri è stato umiliato, umilierà oggi con più rancore». Uso le parole di Saramago perché mi sembra che questa guerra interna sia già cominciata, fra nord e sud, fra poveri e poverissimi. Il disprezzo, il rancore, l’umiliazione non sono mai indirizzati verso i fautori dello status quo ma sempre verso chi arraffa una briciola in più degli altri. I singoli gesti di solidarietà, o di quella che un tempo si sarebbe detta semplicemente umanità, sono sempre possibili e continuano ad avvenire ma è il contesto a essere irrimediabilmente cambiato, e bisogna ammettere che il contesto è tutto quando si parla di una nazione intera. Si può ancora credere che il singolo, nel faccia a faccia con l’altro, agisca secondo criteri “umani”, dunque il bene come il male sono ammessi come sfumature dell’animo umano perché sono complementari, inscindibili. Ma da un punto di vista più generale, un gruppo di persone, i lavoratori precari o i pensionati per esempio, riunite secondo categorie sociali, non sono più capaci di compiere alcun atto umano. Non esiste alcuna lucidità, alcuna lungimiranza, c’è solo assuefazione, incuria, menefreghismo, strafottenza e volgarità. Tutto questo porta al suicidio, ovviamente non del singolo, ma di un paese intero. Il suicido di generazioni e l’assassinio delle future. In questo quadro non posso che condividere chi ha la possibilità e il coraggio di andarsene, perché possiede il desiderio di scegliere. Qui la scelta non c’è. Le opinioni divergenti non vengono censurate, non nel senso classico del termine almeno, ma non trovano spazi di espressione nei canali ufficiali, che, purtroppo, sono gli unici a poter muovere i grandi numeri, le molte coscienze. La mia personale migrazione da Palermo a Roma è frutto di un percorso, letterario e personale, che non ho deciso a priori, è successo. Ma nel mio caso ritengo che lo spostamento sia naturale, persino convenzionale. Voglio scrivere e sebbene possa farlo ovunque è anche vero che ho bisogno di conoscere, di confrontarmi, di cambiare la visuale attraverso cui guardo il mondo, arricchirla. Non mi sento sradicata rispetto alla mia realtà. Roma, per quando diversa e immensamente più ricca di stimoli rispetto a Palermo, è pur sempre una città italiana che soffre le carenze e le brutture di tutte le grandi città. In questo mi pare di essere sempre a casa: lo schifo non conosce confini regionali.

S.G.: In che modo la scrittura rappresenta per voi un modo di riappropriarvi di quella memoria che rischiavate di lasciarvi alle spalle durante il viaggio? Ve lo chiedo perché mi sembra che questo aspetto emerga, secondo tonalità e modalità diverse, nei vostri ultimi romanzi.

S.D.: Raccontare è anche ricordare, riscoprire. Recuperare particelle di memoria e scriverle è compiere un atto di generosità verso il lettore e anche di grande egoismo. Quando scrivo non ho la pretesa, che poi sarebbe fallimentare in partenza, di recuperare la memoria di un paese intero o di un’intera comunità. Recupero solo me stessa. In questo processo naturalmente intervengono molti fattori. Come l’attaccamento alle radici di cui parli tu, il tentativo di restare legati al proprio passato, anche in modo ostinato e ottuso qualche volta. Ma non credo che si tratti, almeno non è così per me, della memoria di fatti storici, piuttosto è la memoria di me stessa. Scavare dentro l’umanità, per il solo piacere di farlo, senza mete prestabilite, messaggi da comunicare, tesi da verificare. La mia umanità, come persona storica calata in questo tempo, riguarderà poi anche l’umanità di qualcun altro, certo, ma l’appagamento sta nel percorso compiuto. Non amo la retorica del passato, dei tempi andati, del “come eravamo”, anche perché sono troppo giovane per saperlo, gran parte delle cose che so sono di seconda o terza mano. Mi interessa ricercare dentro i meandri dell’animo e scoprire che io stessa sono capace di nefandezze, di violenza, di invidia, come anche di amore, di empatia, di comprensione.

S.G.: La memoria è anche la propria lingua, quella che ci si va costruendo. Avete mai pensato di correre il rischio di perdere la vostra lingua durante il processo che vi ha portato non tanto alla scrittura, quanto alla pubblicazione di un libro (mi riferisco da una parte al dialetto, di cui rimangono tracce nei vostri libri, e dall’altra del rapporto che s’instaura tra chi scrive e chi compie l’editing del libro)?

S.D.: L’editing sul mio libro è stato molto leggero, non ha rivoluzionato nulla né della lingua né della struttura. E credo che un editore non sceglierebbe mai di fare un libro con l’intenzione di snaturarne la lingua, piuttosto sceglierebbe di non farlo affatto. Ovviamente se si tratta di un libro con una lingua personale, originale, se parliamo invece della lingua media, quella televisiva, allora il discorso cambia. E sul mio libro, come sul mio lavoro più in generale, non mi sono mai posta il problema di questo rischio. Il prossimo romanzo avrà una lingua ricca, spero molteplice, quella che alcuni con le etichette adesive sempre pronte in tasca marchierebbero come complessa. L’obiettivo sarà trovare un editore affine al mio progetto, convinto del libro. Se così non avverrà pazienza, e non dico questo per un atteggiamento snob nei confronti della macchina editoriale ma nel tentativo di salvaguardare me stessa, la mia scrittura e la mia libertà. Credo che sia importante guardare le cose con distacco e tenersi la bellezza della scrittura, il piacere o il dolore che ne viene, a prescindere dal resto. Perché il rischio maggiore della situazione economica e culturale che viviamo in Italia è l’autocensura. Non che vi sia un potere che dall’alto impone stili, strutture, argomenti, tendenze narrative, ma piuttosto una forma di inibizione individuale del tutto naturale, fra l’altro. Se vedo i libri in classifica o le pile in libreria penso automaticamente, in modo istintivo, ovvio, che per essere lì bisogna scrivere in un certo modo, di certe cose, con un tale tono. È un meccanismo perverso ma del tutto naturale come dicevo. L’aspirazione che muove questo meccanismo ovviamente non è entrare in classifica ma qualcosa di più profondo, se vogliamo un’aspirazione più legittima, cioè di accedere alla possibilità – la sola possibilità – di essere letti da molte persone. Quando questo non accade è necessario esaminare i difetti del proprio lavoro ma anche il meccanismo che regola il sistema. Nella domanda si diceva la lingua… ecco, credo che non esista pericolo peggiore di questo per la lingua di uno scrittore. L’impoverimento non viene quasi mai dal rapporto con l’altro, con un editor o con un editore, ma dalla logica spesso dittatoriale del mercato. Mi sembra che l’unico antidoto a questo siano le buone letture, forse anche quelle meno buone se si è capaci di cogliere almeno un discrimine fra la letterarietà e la narrativa tout court.

Per quanto riguarda la mia lingua. A casa mia nessuno parla il dialetto. Non ho mai davvero sentito il dialetto come lingua che mi appartiene perché non ho mai posseduto una visione del mondo raccontata secondo quel codice. Ma ci sono le letture appunto, e molte parole di dialetto mi arrivano dagli autori che ho scoperto negli anni. È un processo di acquisizioni e cancellazioni. Non vedo la lingua come un patrimonio immutabile, tale dalla nascita e così per sempre.

S.G.: Un altro punto in comune tra i vostri libri mi sembra il tentativo di rendere un’immagine non stereotipata di quest’Italia sempre più ostaggio della televisione. Durante la sua permanenza all’Isola dei Famosi Aldo Busi, tra le varie cose, dichiarò che in questo paese «non c’è più racconto». Pensate che la letteratura possa ancora costituire un’alternativa a questa deriva?

S.D.: Sì, penso che la letteratura sia fra le alternative possibili a questa deriva. Però penso anche che, affinché l’alternativa sia reale, condivisa potenzialmente da tutti, e attuabile, ci sia bisogno di molto più che dieci ottimi libri distribuiti gratuitamente nelle scuole.

È verissimo che non c’è più racconto. C’è solo l’enunciazione dei fatti. Ma d’altra parte dire «non c’è più racconto» significa solo enunciare il problema, nient’altro. E questo atteggiamento è poi molto italiano. Come dicevo la sostanziale strafottenza rispetto alle cose che accadono e che ci coinvolgono, l’indifferenza, l’apatia.

Inoltre, il contesto. Affrontare certi argomenti in televisione non si limita ad essere un gesto inefficace ma diventa persino deleterio. Parlare di letteratura in televisione, come di politica, come di libertà d’espressione significa porre tutto sullo stesso piano. Equiparare per importanza, profondità e pervasività molti argomenti che andrebbero collocati in sedi appropriate per essere davvero discussi e sviscerati. O le veline o gli scrittori. O la pubblicità di automobili o la critica al consumismo scriteriato. E infatti quando questi argomenti vengono trattati, seppur con le migliori intenzioni, diventano costume, quasi mai arrivano a un livello di comprensione profonda del problema.

Si diceva la letteratura. Certo che costituisce un’alternativa ma questo resta vero solo a livello ideale. Calata nella realtà quotidiana la letteratura non riveste alcun ruolo autorevole. Né all’interno delle istituzioni né fuori. Ed è ovvio che sia così perché quello che passa è l’idea che la patente di scrittore sia consegnata a tutti e che i libri siano intrattenimento, e in quanto tale vengono dopo altre forme di intrattenimento ben più allettanti e attraenti. La divisione dicotomica di tutto, bianco/nero, divertente/noioso, leggero/impegnato, va a scapito dei libri belli, cioè quelli che annientano la dicotomia becera e danno spazio alle sfumature, alle possibili diversità.

 

Simona Dolce ha esordito col romanzo “Madonne nere” (Nutrimenti, 2008), una scandalosa e scellerata storia familiare narrata con una lingua molto personale, che è un impasto di più voci recitate come in un’antica preghiera.

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Madonne nere

Madonne nere (Nutrimenti, 2008)

di Simona Dolce

I libri si possono scrivere in tanti modi diversi, le storie possono durare poche pagine o una montagna di carta, ma il peso della scrittura non si conta in numeri. Il peso della scrittura, per quanto mi riguarda, è la forma che essa prende.

Il breve romanzo d’esordio di Simona Dolce  ha proprio questo di caratteristico: che la forma è il suo contenuto, ma non perché essa sia puro abbellimento o dimostrazione di tecnica fine a se stessa; al contrario, la forma è il suo peso specifico proprio perché questa storia non poteva essere raccontata altrimenti. Ed è così che funziona, è così che si attacca addosso, per via di un ritmo salmodico, ripetitivo e ossessivo, che entra nelle orecchie del lettore: a tratti, e più esplicitamente nell’ultima parte del romanzo, la scrittura di Simona Dolce prende la cadenza di una vera e propria litania, di una preghiera personale che la giovane Marina rivolge a se stessa per sfuggire al circolo vizioso che sembra averla catturata per sempre.

La storia scellerata e scandalosa di Rinulla, prigioniera delle brame paterne e dell’odio materno, sembra infatti destinata a ripetersi nella vita della figlia Marina, nata da un matrimonio di comodo, eppure miracolosamente generata da un amplesso impossibile. Quello che si configura come il naturale perpetrarsi di un destino già scritto – il ripetersi di una vita oggetto di scherno e di violenza fisica – verrà invece smentito da una scelta inaspettata della giovane protagonista, che sorprende il lettore, e con esso, si direbbe, anche se stessa.

Ma il ritmo impresso dallo stile non è l’unica peculiarità della scrittura di Simona Dolce, che ha l’invidiabile capacità di saper mescolare i punti di vista, al punto da comporre una visione che ha dell’allucinatorio, composta com’è dall’intrecciarsi delle diverse voci dei protagonisti, che si sovrappongono in un flusso continuo declinato alla seconda persona singolare. L’autrice si rivolge cioè ai propri personaggi dando loro del tu – anche se la sua posizione sembra essere più vicina a quella di Marina –, indicandoli, e attribuendo loro il giudizio degli altri, un giudizio allo stesso tempo umano e divino che sembra destinato a marchiare per sempre questa inusuale famiglia.

Quella di Madonne nere è insomma una lingua che è impasto di più voci, di più pensieri – il non detto protetto dalla nostra ipocrisia cattolica e benpensante – recitati come in una preghiera (e allora non sarà un caso che l’illuminazione, anche se non divina, si produca in una chiesa), come un rosario dal quale sgranare una frase alla volta, frasi che si distinguono per variazioni minime eppure essenziali.

Una lingua, quella di Simona Dolce, che non lascia certo indifferenti.

Una voce che, c’è da sperarlo, continuerà a chiedere ascolto.

Simone Ghelli

* Madonne nere di Simona Dolce sarà presentato questa sera, sabato 13 marzo, alle ore 19.00, all’interno della manifestazione “Femminile/Plurale”, presso Alphaville Cineclub, via del Pigneto 283 (Roma)

Digressione libera su felicità e altre specie

Digressione libera su felicità e altre specie *

Ti offrirei da bere e otterrei dieci minuti del tuo tempo, poi l’intera serata, magari anche la notte; mi permetteresti di vestire i panni di un gentleman d’altri tempi, cultura di sinistra e abiti globalizzati, tanto quanto i tuoi così originali, frivoli e fuori dagli schemi e che però ti rendono molto simile ai manichini del centro commerciale. Dovrei dirti che odio i centri commerciali per lo spreco, l’ansia all’acquisto e la febbrile, isterica, angoscia di riempimento interiore fra carte di credito e rate da pagare e invece odio i centri commerciali per i manichini senza testa che ci somigliano un po’ tutti tranne che per il colore della pelle che è sempre troppo chiara o troppo scura, l’innaturale imitazione plastica di un incarnato senza nei e smagliature, e ci illudiamo che quei vestiti vestirebbero meglio noi, con le nostre forme da riempire, da coprire piuttosto, e le nostre facce tutte diverse. E invece vestono l’ansia di somigliarci tutti anche se viviamo fingendo d’essere tutti diversi. E tu mi daresti dieci minuti del tuo tempo, e io potrei fingere di possedere abbastanza denaro per offrirti da bere, abbastanza cultura per parlare di supermercati e centri commerciali, esproprio proletario no perché nessuno più ne parla nei bar e nemmeno negli scantinati e nei salotti che restano muti davanti alla televisione; e tu mi concederesti il tuo tempo in cambio di un bicchiere sapendo bene che non ti venderesti mai e poi mai per un bicchiere, dichiarando la responsabilità delle donne nel nostro sistema sociale mentre io ti pago da bere. Sorseggio e parlo, e bevo il secondo mentre ascolti con quegli occhi che sembrano l’unica cosa che ti appartenga davvero sotto strati culturali di ombretti iridescenti, che celano occhiaie e regalano qualche mese in meno, ma stai tranquilla io non ti dirò niente del genere perché tu scapperesti e non voglio che scappi, perché a nessuno piace sapere più di quanto non voglia, ci bastiamo noi con le nostre pseudo-coscienze neolitiche e analfabete e le nostre orecchie sorde alle critiche. Meglio credere di esistere ancora sotto lo spessore del trucco e le etichette che coprono la tua essenza perché tu possa proporti a me e agli altri uomini come un oggetto luminoso in una vetrina, aspettandoti però che io ascolti i tuoi turbamenti interiori e le convinzioni sul matrimonio sugli uomini e sui figli, ma non te lo dirò perché mi daresti del maschilista e niente è più lontano da me del maschilismo, se lo fossi dovrei sentirmi superiore e invece non lo sono, no non mi sento affatto superiore, il mio livello è così basso che non posso nemmeno essere realista perché dovrei costringermi alla consapevolezza di molte cose ed è così difficile essere consapevoli, sono un meschino e un bugiardo, come te anche io credo di esistere ancora, nonostante non lavori da mesi perché hanno dilapidato le loro promesse, o le hanno dimenticate, nessun rinnovo di contratto e tanti saluti. Senza lavoro non esisto, non esisto senza soldi, senza auto, non esisto senza un ruolo sociale riconosciuto e retribuito. Eppure io esisto ancora nella mia essenza, questo lo credo, mi costringo a crederlo senza pensarci tanto su, e non voglio soffermarmi a pensarlo perché equivarrebbe e non crederlo più, di fatto, e la fattualità delle cose mi renderebbe realista ma sono troppo meschino e bugiardo per spingermi a essere realista, di fatto non ammetto che sono un uomo di trentacinque anni senza lavoro e senza una moglie da odiare e senza figli da controllare come appendici o protesi della mia esistenza e senza potermi dannare per la scelta di un matrimonio sbagliato, cosa che mi occuperebbe la mente almeno per quattro ore al giorno, un uomo solo e abbastanza infelice senza nessuno da incolpare per la mia infelicità, ma questo non te lo dico perché potrebbe turbarti, voi donne siete sensibili a questo genere di cose, cambierebbe la tua espressione e per un momento il tuo coinvolgimento empatico forse ti avvicinerebbe a me in modo autentico, ma poi potresti sentirti in dovere d’essere tu a offrirmi da bere, d’essere tu a consolarmi e cambierebbe tutto, cambierebbe il gioco delle parti fra di noi che equivale a dire che cambierebbe tutto; solo dopo io potrò essere il peggio di me stesso, fra qualche anno mi parlerai del colore delle piastrelle della cucina e saremo felici di tacere sulle nostre aspirazioni, che non abbiamo mai avuto davvero; perché vedi, io credo che ogni cosa sia frutto di questo meccanismo che ci costringe a vestirci come qualcun altro, a pensare come qualcun altro anche se poi forse è proprio vero che siamo tutti uguali e i tuoi stupidi incubi sono tali e quali ai miei, non c’è rivelazione che tenga, non c’è genio che riesca a estinguere questa uguaglianza fascista, ma fascista è una parola che appartiene al passato, oggi è meglio dire cosmopolita, universale, sì meglio mantenersi nel campo vago delle linee imprecise e senza giudizio alcuno, perché il mondo è in continua evoluzione ed è un momento storico pieno di slanci e cambiamenti e mille possibilità e mezzi e strumenti nuovi, e tutto è ma tutto può cambiare, eppure non cambia nulla. Ecco siamo agli interessi, libri film sport. Ci ingozziamo di informazioni superficiali sulle nostre vite sviando la questione del desiderio. Cosa desideri davvero? Io non credo di saperlo ma stando così, senza nulla da fare tutto il giorno finisce che me lo chiedo di continuo e smetto solo se incollo le pupille a una televendita di coltelli gioielli quadri e tappeti e finisce che poi desidero quelli e la cosa si risolve. E però si risolve per poco. La questione desiderio e la questione frustrazione, vuoto mancanza o come la si chiami, è sempre quella. Se avessi un lavoro non starei tanto tempo a chiedermi i sinonimi delle parole per renderle meno dolorose. Mi dico che se avessi un lavoro mi sbatterei per mantenerlo, rendersi indispensabili, che è impossibile, mi sbatterei come con il vecchio lavoro, tutto sorrisi e puntualità, pratiche compilate, timbri, tutto ordinato, io al mio posto, sorrisi e cordialità, serietà e puntualità, senza avidità mai, sempre con rispetto e buon senso, ah umiltà sì, soprattutto umiltà, ed ero piaciuto tanto, dico davvero, mi avrebbero confermato di sicuro perché compilavo timbravo sorridevo e sorridevo meglio di chiunque altro, proprio bravo, molto bravo mi dicevano. Poi mi hanno scaricato, le scuse banali, umilianti per quant’erano banali, balbettano ancora nelle orecchie tipo il rumore dei bicchieri e voci e musica che fanno da sottofondo alla nostra conversazione che procede rallentata dai nostri filtri, dalle finzioni che esigiamo di mantenere. Potremmo cambiare però, potrei dirti che tutti i libri che ho letto e la laurea in economia e i viaggi non mi sono serviti a niente, che ho accumulato esperienze su esperienze perché ti fanno credere che serviranno, titoli su titoli di nessun valore utili solo ad allontanare il momento in cui scoprirai che non servi proprio a nessuno; la frustrazione aumenta a dismisura e cresce, cresce senza che io mi muova di un millimetro, lì, stabile, inchiodato alla linea di confine tra i perdenti e i vincenti con il mio curriculum di sei pagine in cui scrivo anche di un vago interesse per gli scacchi maturato all’età di sette anni. Ma non ti dirò tutto questo perché adesso è prematuro e quando potrò dirtelo, quando i nostri ruoli lo permetteranno, una relazione seria tra noi, una relazione in serie, dopo questi dieci minuti, dopo la notte passata insieme a scambiarci sudori e promesse, a usare frasi fatte come questa fatta e strafatta scambiarci sudori e promesse, piuttosto che dire leccare il tuo corpo fino a consumarlo, strafatta anche questa, dopo che avrò esaurito le espressioni rancide di un melenso repertorio condiviso e sarò costretto a trovarne altre, una relazione stabile e seria, che si prometta duratura per esempio, non potrò dirti più nulla, non potrò dirti la mia incapacità e la mia inadeguatezza, non potrò dirti che la corsa verso un posto di lavoro per me non è mai partita, il mio vizio di retorica, che non ci sono segnalazioni per me, né incarichi prestigiosi, vittimismo, che la mia responsabilità nella faccenda è enorme, che non mi voglio piegare al sistema, eppure lo desidero così tanto far parte di questo sistema, essere in gara, sorridere e stringere mani come loro che lo fanno, e forse lo fai anche tu che adesso mi racconti dei tuoi successi che durano un giorno e mai una vita, perché non sai che vengono cancellati, che verrai cancellata perché ancora ti illudi che sarà così e che resterai e che sei indispensabile con le tue capacità e qualità per loro, e io non potrò dirtelo perché sarai dentro il loro sistema anche tu e mi accuseresti d’invidia, non te lo dirò quello che penso neanche fra dieci anni quando avrò prosciugato il romanticismo utilitarista ed esaurito i complimenti di rito perché fra dieci anni io e tu saremo fermi alla balbuzie, non al silenzio dignitosissimo ma alla balbuzie, fingendo che ancora abbiamo qualche cosa da dirci, un universo di condivisioni, un’altra sciocchezza del sistema, e che non ci diremo nulla solo per imbarazzo, perché non troviamo le parole, fermi alla balbuzie perché sarebbe troppo difficile, distruttivo, ci annienterebbe, ammettere che davvero non abbiamo nulla da dirci, e da dire. Adesso ti accompagno all’uscita e pago il conto che non potrei permettermi mentre tu abbassi lo sguardo e ti sistemi i capelli. Entreremo a casa mia, consumeremo un rapporto mediocre senza specchi a ostacolare la finzione dei corpi in penombra, fra qualche mese ti confesserò il mio amore e tu farai lo stesso con me, vivremo insieme, compreremo mobili da riempire le dieci stanze che non abbiamo e che però tu desideri così tanto, ci saluteremo con un bacio o due prima di andare a lavoro, ciascuno il suo posto nel mondo, insieme come coppia nel mondo e il regalo della tua presenza sarà quello di educarmi a una frustrazione nostalgica di qualcosa che non avrò la forza di nominare.

Simona Dolce

* Racconto pubblicato nel 2009 sul trimestrale Rassegna sindacale