I commensali di Orion

Comprai un ragno dalla bambola. Posai le mie monete tra le sue dita di plastica. Mi guardò sbattendo le lunghissime ciglia: «Siete invitato alla cena di Orion?» mi chiese.

«Come fate a saperlo?» dissi.

«Avete appena comprato un ragno, non è così?» sorrise.

«Certo. È quello che ho appena fatto».

Capii e andai via. Con il mio ragno chiuso dentro una scatola. Al passaggio di uno stormo di uccelli neri nuvole verdi si illuminarono nel cielo. Con una mano mi strofinai il petto. Avevo freddo. Un bambino avanzava verso di me, aiutandosi con un lungo bastone di legno. Camminava con fatica, curvo sulla schiena.

«Vado bene per Gravel?» mi chiese la sua voce di vecchio.

«Oh no,» dissi io,« dovete tornare indietro. Vado anch’io a Gravel. Seguitemi»

«È alla cena di Orion che andate?» mi chiese il vecchio bambino.

«Voi come fate a…»

Il vecchio bambino sollevò la scatola che portava in mano e indicò col piccolo mento la mia. Una fila di scarafaggi color oro ci attraversò la strada.

«È tardi,» disse il vecchio bambino.

Il cielo si tinse di nero.

«Tutti i corvi del mondo si sono appesi al cielo,» disse il vecchio bambino.

Una donna dai capelli lunghi fino ai piedi nudi ci apparve da dietro un albero. Qualcuno, forse lei stessa, aveva con grande sapienza tessuto i suoi capelli neri. L’intreccio dei suoi lunghi capelli setati vestiva il suo corpo nudo.

«È bella?» mi chiese il vecchio bambino.

«Non lo vedete da voi?» protestai.

«Non so mai cosa è bello. Proprio mai. È bella?»

«Sì, lo è. È molto bella».

La donna ci ascoltò senza sorridere e ci seguì.

«Dove…» feci per chiederle, ma lei, col dito sulla bocca, mi invitò al silenzio. Un grande ciliegio si staccò dal ciglio del sentiero e lentamente si levò in cielo fino a perdersi nell’oscurità. Quando tutti abbassammo gli occhi cominciarono a piovere ciliegie. Ci riparammo la testa con le mani e cercammo un rifugio. La pioggia di ciliegie era una pioggia insidiosa. Il vecchio bambino raccolse delle ciliegie da terra e ne mangiò. Ci rifugiammo sotto un castagno. La donna silenziosa raccolse una ciliegia tra i suoi capelli e l’accostò al suo orecchio. Stette in ascolto lungamente, sotto i nostri sguardi indagatori, infine sorrise.

«È un bel sorriso?» mi chiese il vecchio bambino.

«È un bellissimo sorriso,» dissi io, «bello e dolce».

La pioggia di ciliegie non cessava, così decidemmo di rimetterci comunque in cammino. Non volevamo tardare. Io e il vecchio bambino ci riparammo la testa con le scatole dei ragni. Sulla donna silenziosa, che stringeva una ciliegia tra le dita, non pioveva più. Nell’andare nella notte di pioggia mangiai delle ciliegie rosse.

«Una vecchia megera,» disse a un tratto il vecchio bambino, «ha rivelato ad Orion di essere una farfalla».

«Cosa significa ciò che avete detto? Che una vecchia megera è una farfalla o che è Orion ad esserlo? Ciò che voi dite ha due esistenze».

«È bello?» chiese il vecchio bambino.

«È pericoloso,» dissi io.

«Orion era una farfalla,» disse il vecchio bambino, «e la megera era una strega».

Piovevano ciliegie. Senza tregua. Ciliegie rosse nella notte nera. Rosse come il cappello di un uomo che vedemmo di spalle camminare davanti a noi. Aveva in mano una gabbia fatta con dei rami. Conteneva un grosso ragno.

«Lo sto portando da Orion,» disse il ragno ridendo.

L’uomo taceva. Era scheletrico e pensieroso. Il suo cappello rosso a larghe falde lo riparava dalle ciliegie.

La donna silenziosa era stanca. Si appoggiava spesso a degli alberi e sospirava.

«Potete montarmi sul dorso,» le dissi passandomi una mano sul pelo.

«Siete un centauro gentile,» disse il vecchio bambino.

La donna silenziosa, aiutata dall’uomo dal cappello rosso, cavalcò il mio dorso. Mi cinse il petto con le sue mani ed io fui percorso da un brivido sconosciuto.

«State bene?» le chiesi.

Fece cenno di sì, senza sorridere.

«Quanto manca per Gravel?» chiese il vecchio bambino.

«Ci siamo quasi,» disse il ragno dalla sua gabbia.

«Sapete anche quando cesserà di piovere?» chiesi, sebbene su di me non cadessero più ciliegie per via della donna silenziosa. Le ciliegie si scagliavano sui miei compagni di viaggio con forza. Vedemmo in lontananza una carovana in marcia alla volta di Gravel. Si sentivano cantare canzoni. «Voi la conoscete una canzone?» chiesi alla donna silenziosa. Non rispose, ma mi sorrise.

«Ora,» disse il ragno.

La pioggia di ciliegie cessò. Il buio del cielo si dissolse e la donna silenziosa fece per scendere a terra. L’aiutai e mi sorrise nuovamente. In lontananza vedemmo la carovana che ci precedeva, ingoiata da una nube di luce d’oro.

«Gravel,» dissi.

Ci fermammo un solo istante. Dentro le scatole i nostri ragni si agitarono graffiando i cartoni. Le nostre ombre si staccarono da terra e andarono a incupire il cielo. Ci fermammo un solo istante, poi riprendemmo il cammino.

 

Davide Cortese

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Il cielo dei se

IL CIELO DEI SE *

Era così profondo che a guardarlo dall’alto quasi avevo le vertigini. Il canyon che mi ritrovavo sotto il collo, là dove normalmente sorgono floride colline, mi lasciava in uno stato di arida desolazione ogni volta che mi esaminavo allo specchio. Profilo destro. Profilo sinistro. Frontale. Osservavo attentamente qualsiasi impercettibile rigonfiamento che potesse farmi sperare in un embrione di femminilità. Ma niente. Lo specchio, facendomi rassegnate spallucce, mi rifilava sempre lo stesso verdetto: anche questa estate niente tette. Mi rivolsi allora all’unico santo a cui potevo votarmi: mia nonna Alberta, intenta in quel momento a fare la sfoglia. Diceva rosari per ogni gattino smarrito, ogni gamba fratturata, ogni colpo di tosse del paese: non vedevo proprio perché non potesse occuparsi del problema del mio seno, che all’epoca mi sembrava poter competere con la guerra e la fame nel mondo per aggiudicarsi il titolo di più grave catastrofe dell’umanità. E così le commissionai due rosari, uno per seno, e che ci si mettesse d’impegno, la rimbrottai direzionandole lo sguardo a quei tristi bottoni di tettucole che avevo al posto del decolleté.

Il punto è che io volevo diventare bella e grande per lui, Bici Rossa, il mio amore sedicenne, un affascinante moretto che passava le vacanze nel mio paese. L’estate per me cominciava quando riuscivo a vedere (dopo settimane intere di indecenti appostamenti in cima alla collina) la macchina dei suoi genitori parcheggiata davanti alla sua villa e finiva quando lui se ne andava con le prime folate settembrine. Trascorrevo l’intero inverno a immaginare il momento in cui ci saremmo rivisti: lui scendeva dalla macchina dei suoi, mi scorgeva (nel frattempo ero diventata una strappona bionda, alta un metro e ottanta, con la quarta di reggiseno e avevo anche ottenuto magicamente un paio di occhi verdi) mi diceva “sei proprio tu? Sei diventata meravigliosa!”, s’innamorava all’istante, ci baciavamo e vivevamo felici e contenti, come in tutte le fiabe che si rispettino. Proprio quel giorno, finalmente, l’estate era arrivata in macchina con Bici Rossa e me ne stavo irrequieta al fiume con i miei amici, sapendo che poteva comparire da un momento all’altro.

Era così profondo il fiume che ogni volta che mi tuffavo per andare a toccare il fondo non riuscivo a riemergere per vari secondi. Quando sbucai dall’acqua gelida e me lo ritrovai davanti, lì in acqua accanto a me, lo accolsi con la mia muta bocca spalancata: è qui che il mio film cominciava. Ma io non ero una strappona bionda bensì un’aspra dodicenne e neanche quell’anno, chiaramente, il film cominciò. Bici Rossa mi salutò con il suo sorriso pieno di sole e malizia, mi fece una carezza sulla testa di quelle che si fanno ai bambini e si occupò presto di altro, anzi di altre. Loro sì che erano appetibili: avevano addirittura tredici anni, venivano dalla “città” e non gli mancavano di certo delle arroganti, altezzose mammelle. Bici Rossa e gli altri ragazzini cominciarono per scherzo a slacciare a tutte il bikini. A tutte tranne che a me, perché era inutile. Un pochino mi rodeva.

La sera, come ogni sera, raggiunsi gli altri nel piazzale. Anche se eravamo piccoli nel paese non si celavano pericoli e i nostri genitori ci facevano restare fuori fino a tardi, le undici. Io avevo sempre i capelli ancora un po’ bagnati e un inebriante odore di balsamo addosso: era quello il profumo dell’estate per me, l’odore di una promessa mai completamente mantenuta.

Giocavamo sempre a un nascondino evoluto, che aveva come confini i dintorni del paese. Anche quella sera Daniele cominciò a contare Uno, due, tre…novantanove, cento! e noi ci spargemmo dietro ai porticati, giù per i borghi, sotto il Ponte medioevale, su a perdifiato per le colline. Io “casualmente” mi nascosi nel prato in cima alla collina con Bici Rossa. Mentre eravamo stretti stretti dietro a un dosso, il silenzio della notte si addensò attorno a noi e lui mi disse “quando sarai più grande ripasserò”. E allora cominciai subito ad aspettare di diventare grande, e a contare Uno, due, tre…novantanove, cento… Gli sorrisi per quella spremuta di potenzialità che mi stava offrendo, felice in fondo di non essere ancora. Ci sdraiammo sul prato senza fare più nulla se non contemplare le stelle che pattinavano veloci sul cielo nero.

Era così profondo il cielo e così pieno: pieno di tutto quello che mi sarebbe accaduto, di tutto quello che mi sarebbe potuto accadere e anche di tutto quello che non mi sarebbe accaduto mai. Mentre sentivo di lontano gli echi degli scalpiccii di qualcuno, dei “Tana per me!” e mia mamma che mi reclamava dalla finestra – No, mamma, fammi giocare ancora un po’– io mi scioglievo tra le trame oscure del cielo, da cui mi sgocciolavano addosso dei seducenti

SE      SE      SE…

Sofia Assirelli

* racconto pubblicato sul Corriere di Bologna

Condizioni d’uso – Suan

ARTISTA: Suan

TITOLO ALBUM: Emotronic Is The Reason

ANNO: 2009

CONTATTI: www.myspace.com/suan1

FREE DOWNLOAD: www.xynthetic.com/xsn025.php

CANZONE MIGLIORE: Elefanti Rosa

Una favola: questa è la musica di Suan.

Come ritrovarsi bambini, tremendamente spensierati, a correre in un immenso prato pieno di simpatici elefanti rosa perennemente in festa.

La cura dei suoni, le ritmiche incalzanti e gli straordinari interventi chitarristici rapiscono, squarciano lo spazio, fermano il tempo, osannano il fascino delle imperfezioni e calpestano la freddezza della tanta musica elettronica “plastificosa” che c’è in giro attualmente.

La vera fortuna è vedere questo ragazzo suonare dal vivo, chitarra a tracolla e sguardo fisso su un pc che sembra animarsi e prendere la forma di una donna colpita ed affondata dalla sensualità e dalla profondità delle note fanciullesche di questo straordinario musicista.

Ci sono attimi nella vita che tutti noi dovremmo avere il diritto di vivere e che nessuno dovrebbe poter mai scordare, come il sorriso di una mamma quando si torna da scuola, o i racconti di un nonno che si aggrappa ancora ai ricordi di un’infanzia sofferta ma dolcemente ingenua: mettete su questo disco, scaricabile gratuitamente qui e vi sembrerà di salire su uno scivolo e sprofondare soavemente in un mondo ormai andato ma mai dimenticato.

Ilenia Volpe