Stappare un Malbec in purezza del duemilauno, Ariel riccioluto come Mafalda ma meno caustico e più recalcitrante, dale Burrito, un bicchiere dannazione, in veranda coi piedi al fresco e la cordigliera più in là degli alluci, l’Aconcagua innevato di mezzetinte grigiastre, devo raccontarti una storia, cuore aperto come la fisarmonica di Anibal Troilo da coscia grassa a coscia grassa, dì un po’: tu non lo conosci Sloterdijk, nevvè?
Roberto Luìs sa: pronunciare con discreta credibilità la frase si presenta di colore rosso rubino, riconoscere l’aroma fruttato, di frutto a bacca rossa, saggiare la morbidezza, la corposità, la persistenza del Malbec.
Ariel sa: bere. Col naso tappato e le mani callose che strangolano lo stelo del calice.
Una regola, una soltanto conta, dice Sloterdijk: esclusivamente il vincitore sarà ricordato. Non il secondo, non il terzo, argento e bronzo sono umanizzazioni riecheggianti cristiana compassione, a Roma e Atene è diverso: è consegnato a imperitura gloria chi prevale. Sugli Dei, in Grecia. Sull’Uomo, a Roma.
Se lo diceva Aniello c’era da star tranquilli, non c’era spazio per interpretazioni sibilline. Aniello spiattellava sempre le cose così com’erano, nessun doppio senso, pane al pane vino al vino: andiamo alla spiaggia e facciamoci una tedesca, dài, proponeva.
Sorrento d’estate e i campeggi e le roulottes, Wake me up before you go-go degli Wham nel juke-box in pineta, i guappi più grandi con la pelle caffè che si strusciavano alle bellezze crucche, noi imberbi col cuoio sotto braccio, ciucci coi ciucci di plastica al collo, di tutti i colori.
Farsi una tedesca era, al contempo, sogno recondito e passatempo preferito delle nostre estati: bastavano due cortecce a far da pali, la traversa così ad occhio, in porta comincio io, urlava Gaetano, per pigliarsi cinque punti in più.
La tedesca può starci che tu la conosca come Calcio Tedesco, non quello che Bizzotto ne sa più di tutti, che come pronuncia lui Borussia Moenchengladbach nessun altro.
Il calcio tedesco è quello che si gioca in strada, e che funziona così: abbiamo venticinque punti per uno, Gaetano va volontario in porta e perciò parte da trenta. Noialtri cominciamo a palleggiare, a passarci la sfera al volo, acrobazie circensi manco fossimo virtuosi del chinlone: l’obiettivo è quello di far goal prima che la palla tocchi terra. Non importa se di piede di testa o di ginocchio, in sforbiciata o di schiena, col sedere o con la spalletta: che poi li toglie tutti, i punti del portiere, il goal di spalletta. Per ogni segnatura c’è un punteggio, un punteggio che viene scalato a chi difende la porta improvvisata, l’importante è che non ci si avvicini all’area piccola e che non si tocchi mai il cuoio con le mani.
Nel punto in cui negli uffici Rai di Milano viene affrontata la questione, lui è nel bagno di un autogrill. Con tutta probabilità sta tornando nella sua Bolzano dopo una diretta di hockeyghiaccio. Un sudore freddo così non lo prendeva da anni, diciamo dalla maturità – poi risolta con la precisione e un pizzico di quell’estro limpido e quasi invisibile che tocca in sorte ai certosini. Solo che alla maturità il sudore freddo non si era trasferito allo stomaco, mutandosi da liquido a solido-gassoso come adesso.
Uscito dalla toilette con porta a soffietto, si bagna il viso e si guarda allo specchio. Si tranquillizza, è tutto in ordine, infila gli occhiali.
Giunto a casa dopo qualche ora e col cellulare ancora muto, prova a distrarsi spulciando vecchie copie della Gazzetta. Rinuncia presto. Si stende sul divano a guardare ancora un riflesso, ancora il suo, questa volta nello schermo opaco della televisione. La notizia arriva all’alba da quel collega con l’accento calabrese, dice solo: «È Civoli». Lui stringe i denti, un attimo, poi una smorfia mezzosorriso, a voce bassa: «Comunque fanculo a Cerqueti».
A quel punto torna a pensare all’hockey, ai tuffi: e un poco anche al curling.
Mi perdoneranno i seguaci della Dea Eupalla se ho deciso di occuparmi di un aspetto minore, si fa per dire, della Materia. Ma parlare di calcio è compito ingrato, peggio ancora scriverne, col rischio che si porta addosso la scrittura – rischio per la verità sempre più raro: e cioè che qualcuno possa trovar traccia del mio non voler essere epigono di Gianni Brera; e del non aver preso a pretesto il pallone per teorizzare sullo stato di salute della nostra democrazia.
Anche se, a dirla tutta, lo strano caso di Stefano Bizzotto – commentatore Rai da più di quindici anni e oggetto del mio iniziale fantasticare – potrebbe comunque dir molto di come vanno certe cose da queste parti.
Dopo la fine dell’era Bruno Pizzul (Mondiali 2002) la Nazionale italiana si è giovata di un ticket, diciamo così, quanto a commentatori: per un breve periodo Gianni Cerqueti e Stefano Bizzotto si sono alternati a far da colonna sonora agli azzurri. Una partita a testa, più o meno. Da un lato un giornalista dall’aspetto fresco, certamente di carattere e relativamente abile nel drammatizzare una telecronaca – Cerqueti; da un altro un vero cronista sportivo, nato a Bolzano e profondo conoscitore di lingua e calcio tedeschi – Bizzotto (di cui bisogna ascoltare la pronuncia del nome Bierhoff per capire).
Niente, alla fine la spunta un terzo candidato: Marco Civoli, tifoso ancora in pena in quegli anni per i disastri nerazzuri; a lui toccherà l’onore di pronunciare il celebre «Il cielo è azzurro sopra Berlino» nella vittoria finale dell’Italia ai Mondiali del 2006.
Bizzotto è uno che ama il suo lavoro, non c’è dubbio; una voce tranquilla, mai melodrammatica come si usa su Sky o Mediaset – neppure l’impressione di averci una mela in bocca come quel Gianni Bezzi della tv pubblica; esperto di tiro al volo, tiro a segno, tuffi, hockey su ghiaccio, sci, calcio (nazionali, Serie A – in special modo Udinese – ed estero), probabilmente Bizzotto adora anche il curling. Probabilmente. Ad oggi è però “solo” il commentatore della Germania: nessun rischio di figuracce quando c’è da pronunciare qualcosa tipo Schweinsteiger. Certo, potrebbe anche commentare partite dell’Arabia Saudita o dell’Honduras: è ferrato su ogni calciatore – ruolo, peso e altezza, data di nascita, numero di maglia in nazionale e nel club di provenienza; insomma, un tipo professionale, ai limiti, azzardo, della compulsività: eppure non gli è riuscita la scalata. Davanti a lui Civoli, si è detto, occhiaie da vampiro e una certa – inquietante – sintonia con Salvatore Bagni quanto a commento tecnico; ma anche lo stesso Cerqueti appare ad oggi qualche gradino più su nella classifica di gradimento dei telespettatori. Vien da pensare che sia la solita storia – chi ama e sa fare il proprio mestiere in Italia non fa molta strada. Oppure c’è dell’altro.
Nulla di apparentemente psicotico nello zelo di Bizzotto, sia chiaro. Lui stesso, quarantanove anni («ma ne dimostrava 51», citando un vecchio adagio di Via Merulana), spazzolino biondobrizzolato in testa, mascella da marine, l’idea di pulito e ordinato tra i denti, appare un uomo – prima ancora che un giornalista – normalissimo; che ai sogni preferisce il lavoro duro. C’è forse del tragico nel suo sfiorare la vetta – chi meglio di lui, del resto, avrebbe potuto urlare, in tedesco, «Il cielo è azzurro sopra Berlino»? E neppure può apparire l’oggetto dei bizzarri disegni di un dio che punisce i più meritevoli affinché possano affilare maggiormente il proprio spirito. Insomma, Stefano Bizzotto non dà l’idea del martire e neppure quella del virtuoso; sarebbe piuttosto un ottimo calciatore-operaio (Di Livio o Pessotto, per intenderci), un puntuale scrittore di gialli (facciamo legal-thriller), un candido paesaggio innevato, persino.
Ma nel bianco e nel candore si cela l’acciacco.
Nella puntualità della neve o di un ipotetico film biografico su di lui, al volto di Stefano Bizzotto potrebbe sostituirsi quello dello William H. Macy di Fargo. Con rispetto parlando, un uomo qualunque che sa fare il proprio lavoro cui però il destino, più che gli uomini, ha estorto un sogno. Il destino che si accanisce contro chi più se ne prende cura spulciando tra le biografie di vecchi calciatori tedeschi. L’approfondimento come disturbo ossessivo compulsivo. Un uomo che cammina anche in ginocchio: per seguire sport improbabili in giro per il mondo finendo per commentare solo squadre altrettanto improbabili ai Mondiali. Suggerendo formazioni ai colleghi, sollevandoli da compiti ingrati come imparare i nomi di sconosciuti difensori danesi. Aspettando infine l’ultimo bicchiere di Pizzul, assaporandone il bordo, ancora caldo di labbra; e poi…
La Repubblica, 22 agosto 2002, articolo di Marco Bracconi:
«Già, la finale mondiale. E se l’Italia ci arriva, toccherà a lui o a Cerqueti? Niente da fare, non ci casca, è troppo contento per mettere qualcosa di traverso alla felicità. “Per un fatto di anzianità dovrebbe toccare a Gianni, ma…” Ma? Stefano Bizzotto ride, poi sorride e quasi si intimidisce: “I prossimi Mondiali sono in Germania, e io so alla perfezione il tedesco…”»
Auf Wiedersehen, Doktor Bizzotto.
[sta nell’angolo; di un’osteria o di un locale che un tempo doveva esser molto frequentato, non è importante; importante è chiedersi cosa beve; bere: bevono tutti, prima o poi; cosa berrà mai lui? tocai: no, quello no, piaceva tanto a pizzul, chissà quanto ne avrà bevuto la sera in cui l’ha chiamato per avere la formazione della germania est; quanta emozione sprecata per nulla, allora, come questo sudore; dicevamo: qualcosa di fresco: mojito; ma no: sa bene che i brasiliani lo bevono durante i pasti e la cosa gli mette lo stomaco sottosopra; una birra, sì, ma come? chiara? rossa? una birra è banale; più probabile un bicchiere d’acqua, non gli passa il sudore sulla fronte, si è fermato lì, è caldo e freddo e sta solo in fronte; allora prova con una cosa che gli riesce da un po’, il locale è buio e viene meglio così: pensa a un altro abbandono, quando ne hai uno che ti blocca la digestione allora ne pensi un altro, lo immagini, lo porti lì davanti a te trascinandolo per i capelli, lo rivivi, ne hai un bisogno; e in fondo sì, è d’abbandono che si tratta, lui quella maglia l’ha sfiorata, lui e quel gianni, insieme, solo che a pensarci bene lui è mezzo crucco e dovrebbe fregarsene; ma comunque; un altro abbandono, non ha importanza che sia stato più o meno intenso, l’importante è che sia altro, lontano nel tempo, ma efficace; gli viene in mente lo specchio; lo specchio e quella ragazza, anni prima; lo specchio su cui quella ragazza gli ha lasciato un saluto, al rossetto, una nottataccia avevano passato; ma non ricorda cosa c’era, sullo specchio, tutto quel rosso; e dove – olanda? francia? bolzano? – e non ricorda cosa; e non ricorda dove; e gli gira la testa; cosa sta bevendo?]
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