R-estate con noi – II parte

Ok ok, ho mentito, avevo scritto “continua tra qualche giorno” e poi invece ho staccato internet e chi si è visto si è visto. Ogni tanto bisogna disintossicarsi dal web, spegnere computer, cellulari, tutto. Tanto poi si torna sempre qui. E sta per iniziare una nuova stagione. Leggi il resto dell’articolo

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I commensali di Orion

Comprai un ragno dalla bambola. Posai le mie monete tra le sue dita di plastica. Mi guardò sbattendo le lunghissime ciglia: «Siete invitato alla cena di Orion?» mi chiese.

«Come fate a saperlo?» dissi.

«Avete appena comprato un ragno, non è così?» sorrise.

«Certo. È quello che ho appena fatto».

Capii e andai via. Con il mio ragno chiuso dentro una scatola. Al passaggio di uno stormo di uccelli neri nuvole verdi si illuminarono nel cielo. Con una mano mi strofinai il petto. Avevo freddo. Un bambino avanzava verso di me, aiutandosi con un lungo bastone di legno. Camminava con fatica, curvo sulla schiena.

«Vado bene per Gravel?» mi chiese la sua voce di vecchio.

«Oh no,» dissi io,« dovete tornare indietro. Vado anch’io a Gravel. Seguitemi»

«È alla cena di Orion che andate?» mi chiese il vecchio bambino.

«Voi come fate a…»

Il vecchio bambino sollevò la scatola che portava in mano e indicò col piccolo mento la mia. Una fila di scarafaggi color oro ci attraversò la strada.

«È tardi,» disse il vecchio bambino.

Il cielo si tinse di nero.

«Tutti i corvi del mondo si sono appesi al cielo,» disse il vecchio bambino.

Una donna dai capelli lunghi fino ai piedi nudi ci apparve da dietro un albero. Qualcuno, forse lei stessa, aveva con grande sapienza tessuto i suoi capelli neri. L’intreccio dei suoi lunghi capelli setati vestiva il suo corpo nudo.

«È bella?» mi chiese il vecchio bambino.

«Non lo vedete da voi?» protestai.

«Non so mai cosa è bello. Proprio mai. È bella?»

«Sì, lo è. È molto bella».

La donna ci ascoltò senza sorridere e ci seguì.

«Dove…» feci per chiederle, ma lei, col dito sulla bocca, mi invitò al silenzio. Un grande ciliegio si staccò dal ciglio del sentiero e lentamente si levò in cielo fino a perdersi nell’oscurità. Quando tutti abbassammo gli occhi cominciarono a piovere ciliegie. Ci riparammo la testa con le mani e cercammo un rifugio. La pioggia di ciliegie era una pioggia insidiosa. Il vecchio bambino raccolse delle ciliegie da terra e ne mangiò. Ci rifugiammo sotto un castagno. La donna silenziosa raccolse una ciliegia tra i suoi capelli e l’accostò al suo orecchio. Stette in ascolto lungamente, sotto i nostri sguardi indagatori, infine sorrise.

«È un bel sorriso?» mi chiese il vecchio bambino.

«È un bellissimo sorriso,» dissi io, «bello e dolce».

La pioggia di ciliegie non cessava, così decidemmo di rimetterci comunque in cammino. Non volevamo tardare. Io e il vecchio bambino ci riparammo la testa con le scatole dei ragni. Sulla donna silenziosa, che stringeva una ciliegia tra le dita, non pioveva più. Nell’andare nella notte di pioggia mangiai delle ciliegie rosse.

«Una vecchia megera,» disse a un tratto il vecchio bambino, «ha rivelato ad Orion di essere una farfalla».

«Cosa significa ciò che avete detto? Che una vecchia megera è una farfalla o che è Orion ad esserlo? Ciò che voi dite ha due esistenze».

«È bello?» chiese il vecchio bambino.

«È pericoloso,» dissi io.

«Orion era una farfalla,» disse il vecchio bambino, «e la megera era una strega».

Piovevano ciliegie. Senza tregua. Ciliegie rosse nella notte nera. Rosse come il cappello di un uomo che vedemmo di spalle camminare davanti a noi. Aveva in mano una gabbia fatta con dei rami. Conteneva un grosso ragno.

«Lo sto portando da Orion,» disse il ragno ridendo.

L’uomo taceva. Era scheletrico e pensieroso. Il suo cappello rosso a larghe falde lo riparava dalle ciliegie.

La donna silenziosa era stanca. Si appoggiava spesso a degli alberi e sospirava.

«Potete montarmi sul dorso,» le dissi passandomi una mano sul pelo.

«Siete un centauro gentile,» disse il vecchio bambino.

La donna silenziosa, aiutata dall’uomo dal cappello rosso, cavalcò il mio dorso. Mi cinse il petto con le sue mani ed io fui percorso da un brivido sconosciuto.

«State bene?» le chiesi.

Fece cenno di sì, senza sorridere.

«Quanto manca per Gravel?» chiese il vecchio bambino.

«Ci siamo quasi,» disse il ragno dalla sua gabbia.

«Sapete anche quando cesserà di piovere?» chiesi, sebbene su di me non cadessero più ciliegie per via della donna silenziosa. Le ciliegie si scagliavano sui miei compagni di viaggio con forza. Vedemmo in lontananza una carovana in marcia alla volta di Gravel. Si sentivano cantare canzoni. «Voi la conoscete una canzone?» chiesi alla donna silenziosa. Non rispose, ma mi sorrise.

«Ora,» disse il ragno.

La pioggia di ciliegie cessò. Il buio del cielo si dissolse e la donna silenziosa fece per scendere a terra. L’aiutai e mi sorrise nuovamente. In lontananza vedemmo la carovana che ci precedeva, ingoiata da una nube di luce d’oro.

«Gravel,» dissi.

Ci fermammo un solo istante. Dentro le scatole i nostri ragni si agitarono graffiando i cartoni. Le nostre ombre si staccarono da terra e andarono a incupire il cielo. Ci fermammo un solo istante, poi riprendemmo il cammino.

 

Davide Cortese

Dentro Marylin

Ferma l’auto. La strada prosegue con una curva larga.

Le dice di scendere. Parla molto lentamente, impastando ogni singola lettera di quella frase con la saliva. Sa che quando lei avrà messo i piedi oltre il bordo metallico dell’auto e il suo corpo sarà definitivamente fuori dall’abitacolo, lui l’avrà perduta.

L’ha già perduta, in realtà. Si sono persi.

Pensa: non mi hai mai avuto. Gli dà forza saperlo. Ma adesso vorrebbe solo gridare e chiudere gli occhi.

Gira la testa verso la pineta e resta a guardare in quella direzione. Vuole che lei capisca che è lì che le sta indicando. Che non l’ha portata qui, come le avevo detto, per mostrarle quel posto. L’ha portata qui per allontanarla dalla sua vita. Con uno strappo. Come una pianta che venga scardinata dal terreno.

“Ci fermiamo?”

“Si.”

“Io lo so a cosa stai pensando Luca.”

“Davvero? Beh, è tutto così inutile.”

“Si. Si lo è, e non possiamo farci nulla.”

E invece è lui a scendere. Apre lo sportello, si tira fuori dall’auto appoggiando le mani al tettuccio, l’auto reagisce abbassandosi di un centimetro. Appena fuori butta le spalle all’indietro e respira.

“E’ qui che volevi portarmi Luca?”

“E’ qui.”

“Un anno di matrimonio, oggi, e…”

Lascia la frase in sospeso, rabbrividisce. Non passano auto, non ci sono suoni. Solo loro due, e lui che comincia a tremare. Ma non è il freddo. Sta pensando: se avessi più tempo. E più calma. Ma non sa come fare, non ha mai saputo darsi tregua, può solo camminare a passi lenti verso la pineta.

L’auto è rimasta aperta, riesce a distinguere la musica che diminuisce oltre le sue spalle, un vecchio pezzo degli Afterhours

Cinque pianeti, tutti nel tuo segno

Il fallimento è un grembo e io ti attendo

Entra nell’intrico di alberi e piante. Come essere inghiottiti. Sotto i piedi la terra scricchiola, ha strani suoni, sembrano rantoli o piccole urla di protesta; sente cose che si spezzano, pietre minuscole, rami secchi. E più avanza, più il sole gli sfarfalla negli occhi giocando tra i rami.

La luce è netta e glaciale.

È un trenta dicembre pulito, il vento di levante ha pulito l’aria. Nei punti in cui il sole gli cade sulla fronte è così caldo, simile ad un massaggio. Gli piace, si ferma e allarga le braccia e aspira l’odore di resina che c’è nell’aria.

Lei è qualche metro più dietro, può sentire la sua presenza.

“Che facciamo?” lui le dice

“Dimmelo tu. Tu sei voluto venire qui.”

“Se avessimo più tempo…” Prova. Poi non sa come proseguire.

“Dillo adesso, Luca. Dillo subito!”

E invece si mette a correre. All’improvviso. Abbassa le mani, ingoia dell’aria e parte. I rumori di prima accelerano nella sua testa, centinaia di sassi e di rami che vengono calpestati e spezzati, ma lui corre, non sa nemmeno dove, sta semplicemente puntando l’orizzonte dove il sole sembra più netto e gli arriva verticale in faccia.

E anche lei corre, ne sente il respiro affannato, il rumore dei suoi passi che ritrovano i frammenti di terra che lui ha già infranto.

E mentre corre pensa: è come se stessimo scopando questo bosco, siamo entrati dentro, ci muoviamo all’unisono e la terra reagisce con isteria, allarga i suoi sentieri per accoglierci e farci sprofondare ancora di più.

E alla fine della corsa, dove il sentiero all’improvviso si interrompe, un piccolo muro di tufo gli sbarra la strada. Ci arriva davanti e si ferma. Ha il respiro corto. Sbuffa aria calda dalle narici. Lei lo raggiunge.

“Dimmi perché?…” Lui le dice

“Io non lo so, non lo so perché. Rassegnati, smettiamola ti prego.”

“Ti faccio del male?”

“Ne fai a te stesso.”

“Oh non pensare. Sei cara, ma non pensare a me. Non l’hai mai fatto, non lo sai fare.”

Mette le mani nelle fessure del muro e si solleva. Vuole scavalcarlo.

“Non è così – le dice, ansimando – che dev’essere. Ci voleva del silenzio. Lo capisci? Perché mi hai portato qui?”

“Sei matto?! Tu ci hai portato qui.”

“No! No! Tu sai…non fare finte con me. Non fingere. Io non parlo di questo luogo. Io parlo del silenzio.”

“Vuoi che non parliamo?”

“Voglio che le mie parole non mi si ritorcano contro. Sempre. È come un boomerang che non so controllare.”

“Io non c’entro.”

“Tu sei il boomerang.”

Si ferma quando è in cima al muretto. Le tende la mano.

“Tu sei il boomerang Laura – ripete – è tutto per te. È sempre stato così.”

Lei sale, lo raggiunge lassù. E guardano. La pineta finisce dove ha inizio una spiaggia nera, di sabbia lavica. E il mare, sullo sfondo, è una distesa argentata.

“Tutto.” Lui ripete. Di nuovo si aggrappa alla sua lentezza. “Tutto. Sei tutto.”

Si butta. Sono nemmeno due metri. È alto. Ma lo fa. C’è molta sabbia sotto, è sicuro che l’impatto sarà indolore. Invece i piedi reagiscono con uno slancio all’interno e il dolore si irradia in ogni nervo della gamba destra.

Urla.

“Ti sei fatto male?” lei lo guarda restando in bilico sulla cima del muretto. Il sole le scende nei capelli, ma è quel colore tonico degli scogli e della sabbia a catturarla. Non può smettere di guardare.

“Dovevo dimenticarti subito.” Lui le dice. Si rotola nella sabbia. Il cappotto e i capelli si imbevono di quel nero, la polvere resta sul viso, vagamente appiccicosa, come miele.

Lei scende lentamente.

“Fallo” gli dice. “Dimenticami.”

Lui continua a rotolarsi nella sabbia.

Luigi Pingitore

L’inferno – I pendolari santi, i pedoni

GIRONE III – I pendolari santi, i pedoni

La miriade di pneumatici che percorre costantemente le strade lasciano le loro firme sull’asfalto cancellando le già quasi trasparenti strisce pedonali. Chi si trova su un lato della strada non potrà mai passare dall’altra. C’è chi ci ha provato. Ora è solamente un ornamento per i parafanghi dei veicoli che incombono da tutti i lati, tutte le traiettorie, senza destinazione.

Pellegrini senza speranza camminano costeggiando i negozi chiusi e guardano l’orizzonte ogni tre passi per cercare inutilmente una meta, o un passaggio da poter attraversare, magari un ponticello. Il marciapiede usurato si sgretola lasciando sempre meno spazio ai pedoni costretti ad una processione in fila indiana.

Dai vetri degli autobus si vedono persone che fanno cenno di non farcela più, che urlano, piangono. Corpi desiderosi di scendere e fare due passi. I pedoni vorrebbero salire sull’autobus e non scendere mai più, ma quel posto è riservato ad altra gente, non di certo a pigri e oziosi individui.

Daniele Vergni

Trauma cronico – Presentazione

Scrittori precari non si ferma e vi propone una nuova rubrica, Trauma cronico, che vi terrà compagnia ogni domenica. Non potevo esimermi dal compito, mancava un appuntamento col subcomandante Liguori e quindi eccomi rispondere presente all’appello, alla chiamata alle armi. Le nostre armi sono le parole, questo antico vizio di tanto inascoltato, oppresso, ma perennemente pronto a risorgere. Il nostro programma di rivoluzione culturale ha radici lontane, siamo rivoluzionari reazionari: la comunicazione primordiale, la parola, il racconto orale, e la comunicazione universale della rete, internet. ricomincia dal basso, dalla strada e dalla rete, dalle nostre letture. La parola è caduta. Il linguaggio è stuprato e la verità è finzione.

Cosa succede nel mondo? Ancora nefandezze. Siamo al ritorno di un’inclinazione al male che non lascia scampo. Il nostro dovere di scrittori contemporanei è ristabilire il nostro ruolo sociale, resuscitare le nostre opinioni, arrivare a tutti, ovunque, siamo stufi di questo andazzo immorale e bovino, questo indegno, indecoroso spettacolino, questa sciatta attenzione che la società di oggi ha nei confronti dei libri e della letteratura. Un popolo senza cultura è un popolo abbrutito, proprio come temo siamo diventati noi. E pensare che cambiare prospettiva è semplice. Noi abbiamo cominciato per gioco, ma poi abbiamo iniziato a crederci sul serio e siamo arrivati a fare un tour in giro per la penisola addormentata, incontrando vecchi e nuovi amici coraggiosi, gente che come noi si batte, sbattendosi, per la letteratura. Abbiamo incontrato scrittori, poeti, giornalisti, editori, attori, musicisti, anziani intellettuali e giovanissimi decisi e determinati, e soprattutto abbiamo incontrato tantissimi lettori. Abbiamo parlato con loro, ci siamo confrontati. Abbiamo preso tanti contatti in giro per portare Scrittori precari su e giù per la penisola, per raccontare le nostre storie, per ritrovare un lettore sempre più abbandonato, oggi che le piccole librerie chiudono e nei grossi megastore dei libri i titoli che vanno promossi non sono scelti certamente in base alla qualità. Sono brutti tempi, tempi precari, belli miei, ma noi siam qui che vogliamo fare la nostra parte, vogliamo giocare le nostre carte.

In questo spazio scriverò di quello che accade intorno a me, settimana per settimana segnalerò e commenterò un evento, un fatto, un qualsiasi elemento che abbia in qualche modo solleticato la mia coscienza in disuso. Abbiamo disimparato a cercare. Dobbiamo cercare quello che vogliamo cercare.

Gianluca Liguori

Coincidenze – Fotoromanzi

Un uomo dorme in auto. Non ha niente della levità macchiettistica di De Crescenzo. È piuttosto un finale di partita. Una partita giocata negli anni fin da una mancata licenza media.

Se Serena avesse avuto dei genitori più attenti alla cultura, probabilmente non sarebbe finita a fare la sartina. Ma senza licenza media si può fare poco. Insomma, l’unico rapporto che aveva col linguaggio scritto erano i fotoromanzi.

La licenza media non ti rende sterile e quindi anche se sai compitare a malapena i dialoghi dei fotoromanzi (prevedibili quanto vuoi, ma se non li leggi cosa li compri a fare?). Serena partorì a maggio una bambina che aveva gli occhi azzurri più belli che Serena avesse mai visto dalla sera in cui quel soldato americano le aveva portato via la verginità in cambio del pancione.

Gli occhi di Clara facevano parlare tutto il paese, così come la gravidanza di sua madre aveva fatto ai suoi tempi. Verso i vent’anni, Clara poteva tranquillamente essere definita “la più bella”. Non aveva rivali, non aveva rivali che non fossero i suoi modelli di vita: le attrici dei fotoromanzi. Serena le aveva inculcato il culto di quelle donne raffinate e travagliate, coi loro drammi borghesi e i loro amorazzi combattuti. Clara era il più perfetto prodotto della stampa di consumo.

Quando Gildo la vide, immancabilmente, quegli occhi azzurri spalancati sull’esistenza come quelli di un cieco spalancati in un museo lo fecero ammattire, letteralmente ammattire. Rubando nei cassetti di suo padre, riusciva a comprarle quei regalini costosi per cui lei andava pazza: sembrava non esserne mai sazia, sembrava avere una necessità strutturale metafisica di “regalini”. E così, un regalino via l’altro, piastrellarono la strada verso l’altare.

Gildo e Clara andarono a vivere in un bell’appartamento. Con due cameriere e il maggiordomo.

La domanda che dovremmo porci ora è: cosa fa una donna che pensa per fotoromanzi se non ha nulla da fare tutto il giorno in un appartamento mentre il marito è alla fabbrichetta a lavorare? Suppongo sia evidente. Si trastulla col garzone del lattaio.

Ebbene: la piccola virtù di Clara, che evidentemente si portava nel sangue quella vocazione scandalistica che già aveva sperimentato sua madre, fu messa in piazza da alcune lettere anonime dirette al marito. Quest’ultimo non esitò un istante: si appostò sotto casa e scoprì la tresca. Idee balzane iniziarono a fioccargli in mente, ma visto che non era un patito dei triboli e delle macchinazioni, provò a parlare con sua moglie. Ella giurò e spergiurò che era l’ultima volta, ma i fatti a seguire la smentirono. Era troppa in lei la tentazione all’inedito, al sotterfugio amoroso, all’appuntamento dato in posti insoliti per sfuggire a inesistenti inseguitori, alla mimetizzazione per farla in barba a fantomatiche spie al soldo di Gildo. Insomma, i tradimenti che seguirono furono tali e tanti che il pover’uomo puntò sulla vendetta legalizzata: divorzio.

Un uomo che lavora giorno e notte può essere logorato profondamente dalla battaglia legale che un divorzio porta seco. Può iniziare ad avere, per esempio, qualche allucinazione, che a sua volta può consolidarsi in una visione. E se poi, magari, tanto per dimenticare il proprio fallimento matrimoniale, inizia anche a giocare pesantemente a carte e ad andare con puttanazze, è inevitabile che sotto di sé si spalanchi un’orbita di dita nel culo.

Gildo si ridusse a dormire in macchina dopo appena cinque anni. Sua moglie era ancora abbastanza bella da zoccoleggiare in giro a volontà; lui, invece, ormai incanutito e appanzato, non poté far altro che vendere la fabbrichetta per far fronte ai debiti dopo aver già dilapidato i propri risparmi. Gli era rimasta solo la macchina, per dormirci.

Penso che non stupirà nessuno che Gildo, quella notte, mentre dormiva in auto, svegliato dal rumore di ladri che gli rubavano le ruote, sia uscito di senno e li abbia uccisi. I poliziotti trovarono i corpi smembrati e le teste inchiodate ai muri della strada. Inutile dire che fu un caso inspiegabile. Anche perché Gildo nessuno sa dove si trovi, ora.

Antonio Romano

Nomadismo

Lo scenario non è di certo il massimo.

Carta. Ovunque. Neve di cellulosa che tace.

In mezzo a queste scogliere di Dover, nella memoria si agitano piedi che raccolgono l’inchiostro abbandonato. Si agitano in danze fatte di inseguimenti.

Nessuno pensa a come sta bevendo quell’inchiostro, a come sia un albero letterario nel suo calpestare. Caratteri che si mescolano ad eritrociti facendo accorrere basiti leucociti incapaci di procedere, nella perenne domanda “Amico o nemico?”.


Lo scenario non è di certo il massimo.

Strade. Raccolte in grovigli di grigio e bianco sono la crocchia urbana delle teste di cui siamo neuroni inferociti. Agitati da scosse elettriche di dubbia natura post-industriale ci lasciamo percorrere come da una corrente che di pulito ha solo il nomen.

Con tanti sbocchi non sentiamo di avere vie di fuga.


Lo scenario non di certo il massimo.

L’umidità la mattina penetra la pelle scura che a stento la sopporta, soprattutto quando il freddo l’accompagna nelle sue carezze.

Gli angeli dei vicoli sanno ancora dell’ubriacatura e del piscio, delle brave nottate cittadine, anche il piscio può essere disperazione. In alto le case che si vorrebbero abitare sono costruite da mani che un tempo accarezzavano la sabbia nomade.


E arriva presto la fatica della sera quando la sigaretta viene aspirata con riconoscenza dalle labbra ancora sporche di calce. Con la voluttà di chi è in pace con il proprio dovere. Con la voluttà che sparisce ad ogni boccata perché si fa largo il dubbio che forse domani non ci sarà nemmeno quell’unica sigaretta, quell’unico merito di certezza.

No. Lo scenario non è certo il massimo.

Alex Pietrogiacomi

Precari all’erta! – Un dito di rosso

Visto che oggi è ferragosto ed è il compleanno di mio nonno Mariano, mi concedo una tregua dai miei soliti interventi e vi posto questo racconto a lui dedicato, che nel 2007 è arrivato finalista al Premio Letterario Castelfiorentino.  Magari potrà distrarvi per alcuni minuti da questa calura estiva, visto che si parla di paesaggi invernali e di vino rosso…

Un dito di rosso.

Mio nonno ne beve un dito ancora dopo il caffè, di rosso, come i suoi pensieri, pensieri ostinati di una vita, masticati con il pane, intinti con dita non tremanti, ma mica come l’ostia, che si scioglie in bocca senza sapore, no… un retrogusto amaro risale, di fumo incallito e di bestemmie davanti al televisore.

Capita che il vino prenda d’acido se la bottiglia sta troppo tempo aperta.

E così mio nonno ne mesce un bicchiere dopo l’altro, su e giù con il gomito proprio come quando correva con il camion per i colli, tra i tornanti, a caricare e scaricare frutta e verdura per un banco ai mercati, d’inverno con il ghiaccio che cedeva sotto i battistrada, d’estate con il volante che arroventava la pelle. E lo faceva praticamente con una gamba sola, perché l’altra se l’era mangiata l’alta tensione sopra un traliccio, e la ditta per cui lavorava gli passava una pensione che a fatica gli bastava per garze e pomate. Una faticaccia il rituale serale della fasciatura riscaldata al caminetto, pelle viva che non si cicatrizzava e piangeva pus!

Forse mio nonno è da quel momento lì che ha iniziato a bere vino del contadino, di quello che ti allega la bocca e sembra non voler scendere giù, proprio come la lingua che il suo compagno di lavoro gli srotolò fuori per non farlo strozzare. Un pezzo di legno lo ha tenuto in vita, ma non di pregiato aduso per botti, bensì un volgare stecco di ciliegio dal retrogusto fruttato. Ma per bere ogni giorno un litro di quello si deve aver visto la morte in faccia per davvero, e ci vuole coraggio a scriverne, poiché nell’ebbrezza poi la parola ci sfugge, si contorce, rigira nel palato e va a scavare le gengive tra i denti prima di rantolare fuori piena di stenti. E a ragione s’infuria con la medicina che vorrebbe togliergli anche quest’ultimo privilegio! S’inaridiscano pure i reni, gonfi lo stomaco e scoppi la vescica… avanti prego, adesso chi c’è?… e il fegato, eh?! Come la va con il fegato? Quello si rigenera, si rigenera sempre, e mio nonno ne è testimone coerente! Il segreto sta nell’aglio crudo strusciato sul pane con un filo d’olio e un po’ di sale, che anche quei vampiri dei fascisti c’ha scacciato così, che quelli il rosso rubino che mio nonno tiene nelle vene mica lo digerivano così bene! Tira tira, che a lui gli si tirano al massimo i tendini del collo per il nervoso, magro come un manico di scopa, ma di saggina però, che si flette e si flette e non si spezza mai! Col vino in corpo c’ha poi alzato per una vita quintali e quintali di pomodori, maturi all’arrivo sul bancone e sfatti al ritorno da servì in tavola alla famiglia come contorno, e melanzane e peperoni e zucchine, e le mele di tutti i tipi, e mai una volta che gli ha annebbiato la vista, neanche sul ghiaccio a Castelnuovo Val di Cecina, che me lo ricordo che c’ero anch’io, piccino piccino pigiato fra lui e mi ma’, che anche s’ero tutto assonnato il culo mi si stringeva per la paura! Con me non si casca di sotto, scemo!, mi diceva, e poi vedrai che quando s’è finito si va a mangià la braciolina impanata su in trattoria… hai capito? Col nonno di sotto non si casca mai…

Ma fermiamoci un attimo, proprio qua sul ciglio, a pensare in silenzio. Godiamoci questo paesaggio brullo di vigne e d’olivi che ti accompagnan fino a Volterra, sotto al carcere coi matti, che chissà là quanti ce n’hanno chiusi con troppi grilli in testa per poi farli inacidire e cantà come cicale.

Lasciamolo adagiato al buio, se è la che vuole stare, come il vino da invecchiare. Non ha bisogno di altra luce, il chicco ormai è maturo. Passo io, signor fattore, a controllare. Come? Lei dice troppi anni, che il rosso ormai è svanito? Glielo spieghi lei, signor fattore, che adesso va di moda il bianco, da servirsi fresco nel calice lungo e stretto. Io per me, mi piace ascoltarlo questo raglio d’asino che stringe il morso, che abbassa gli occhi sul lumino della cicca e par che guardi lontano, dove non si sa, perché due briciole sul tavolo son tutto quel che c’ha. Cadute dalla bocca, le lascia lì a danzare nel cielo acquoso degli occhi, e chissà a che pensa?, forse che se c’avesse vent’anni gliela farebbe lui la festa a quei pidocchi!, ché invece gli tocca di sentirli biascicare in sottofondo… bla, bla, il televisore… ma vedrai che tornano, e se tornano, non li vedi?, son già qua pronti in doppio petto!… e bla, bla, i parenti… tutti contro a sfotterlo, a non salare il sugo perché così lui dica che è sciapo, che insomma non sa di niente, e a ritornar su quel solito discorso… troppe sigarette, noi ti si diceva! A che ti giovò il non sentir più sapori? A che pro prendersela tanto per un’idea talmente antica che ormai ha preso di tappo? E giù altre risate, neanche fosse un bambino…

Io, le poche volte che ci sono giuro che ci divento matto! Allora gli calo un altro goccio e me ne verso anch’io, così si butta giù il boccone in due, una corsa pazza fino al caffè… e dice a tutti che meno male che gli è rimasto almeno un nipote che tiene le sue stesse idee, che gli sta appresso col rosso insomma, anche se alle ultime due dita poi non c’arriva e lo lascia da solo proprio sul più bello, là come un pivello sulla linea del traguardo…

Simone Ghelli