Diario di bordo – k.Lit, festival dei blog letterari
luglio 11, 2012 1 commento
Saranno anche precari, ma di certo non sono scrittori (Libero, 1/9/09)
marzo 13, 2011 22 commenti
Ieri mattina, girovagando su piazza facebook, trovo segnalato da un contatto comune questo post sul blog di Carlotta Borasio, ufficio stampa e curatrice di una collana per giovani adulti presso Las Vegas edizioni. Vado a leggere. Sarà che non era una proprio buona giornata per alcune vicende di cui non mi prendo la briga di parlare qui, ma m’incazzo. Cioè, non esageriamo, non è che m’incazzo, ma piuttosto penso che sia poco etico e poco professionale, per un addetto ai lavori, uscire pubblicamente con riflessioni tanto vaghe. O meglio: dire, ma non dire. Dire senza dire. Ma entriamo nello specifico. In pratica qualcuno ha consigliato un libro di racconti a Carlotta un libro di un autore molto conosciuto pubblicato da una grossa casa editrice. La prima reazione di Carlotta è positiva: vuoi vedere che tornano alla ribalta i racconti? Allora Carlotta, curiosa, ne vuole sapere di più e, nonostante l’autore in questione (che evita di nominare, come vedremo in seguito per non attaccare gente che ha già un nome per guadagnare qualche visita, altrimenti le darebbero della paracula) non le piaccia (perché lo trova prolisso, barboso e poco originale), gli vuole dare fiducia e digita di google (Ah, zio google!). Trova uno dei racconti e comincia a leggere. Dopo le prime quattro righe, ha subito capito tutto: “ma che è sta menata?”.
La curiosa Carlotta, drogata di libri, sa bene che da sole quattro righe dell’incipit di un racconto si capisce subito se l’intero libro sia buono o una cacata, se sia degno di essere letto o pubblicato (anche se specifica che non è compito suo in casa editrice valutare i manoscritti altrimenti ne casserebbe alcuni dopo la quarta riga). Ma questa amara considerazione le fa sorgere una domanda spontanea: possibile che ci sono autori che qualsiasi cagata scrivano va bene per la pubblicazione? Inoltre, a ragione, aggiunge che costa 20 euro (ma questo, ovviamente, è un capitolo a parte, ed è un capitolo dolentissimo). E niente, tutto qui, a parte che ‘sta gente (che poi chi sarà, ‘sta gente?) dovrebbe prendere lezioni.
Da lettore sono indignato, e mi sento pure un tantino preso per il culo. E visto che non era proprio una buona giornata, vado a punzecchiare dicendo in un commento che sarebbe interessante sapere l’autore e la casa editrice in questione. Ma intanto, dicevo, ero sempre su piazza facebook, e chiacchieravo pure con Zabaglio sulla possibilità di portare Trauma cronico a Bologna, quando tornando sul blog di Carlotta mi rendo conto che il commento è in moderazione. Dico ad Angelo: leggi il mio commento? No, risponde, intanto scrive un commento che pure a lui va in moderazione. Ora è chiaro che se scrivo per la prima volta un commento su un blog, quello mi mette il commento in approvazione, pure qui su Scrittori precari è così, e un paio di volte è capitato pure qualche piccolo malinteso. Ma sapete com’è, di questi tempi, ci si allarma subito e si grida presto a censura. E invece, probabilmente, era solo che Carlotta non era a computer. Infatti dopo un po’ i commenti vengono pubblicati. E nei commenti, la curiosa Carlotta, tira fuori il meglio di sé. E un po’ me le fa girare.
Ora, devo essere onesto, mi dispiace pure, Carlotta l’ho conosciuta e la incontro alle fiere del libro quando vado a pascolare, stanno sempre nello stand coi tipi di Intermezzi, e devo dire che lei mi sta pure simpatica, lei e tutti i tipi di Las Vegas (di cui ho avuto il piacere di leggere – e apprezzare – un solo libro, La minima importanza del Piscitelli, che vi consiglio, resterete soddisfatti ma in caso contrario non aspettatevi rimborsi che da queste parti siamo poveri, poveri ma belli, come il film, rubando la battuta a Zabaglio), ma non posso star zitto (se no perché scrivi o vivi?, diceva, anche se a proposito dell’interno delle cosce di Mardou, Leo Percepied).
È il web, bellezza! Non sono io che non perdono, è il web che non perdona. Ma andiamo con ordine. Quello che mi ha infastidito, della replica di Carlotta, è stata la posizione paracula di dire che non è politica del suo blog fare pubblicità a coloro che non ritiene meritevoli di attenzione positiva, chiedendo perdono per la vaghezza (poi aggiunge che la casa editrice è Einaudi, ma prima non l’aveva scritto). Ora, dico io, su Einaudi si può contestare il fatto che i libri costino tantissimo e che alla fine dei conti (e al netto delle intenzioni), chi guadagna di più è sempre un’azienda del monarca, il monarca proprietario del gruppo Mondadori, che ha la storia che ha (in proposito vi segnalo questo post di Morgan Palmas sul blog Sul Romanzo); ma il catalogo, cazzo, no! Il catalogo Einaudi, purtroppo o per fortuna, è un patrimonio dell’umanità. Certo c’è qualche scelta che comincia ad essere poco condivisibile (vedere Mario Balotelli vicino ai mostri sacri della Letteratura mondiale, sinceramente, è un po’ inquietante) ma il catalogo Einaudi, vi voglio bene, non scherziamo. È una questione di qualità, direbbe il fu Giovanni Lindo Mattia Pascal Ferretti.
Certo le aberrazioni del mercato editoriale sono sotto gli occhi di tutti, ma proprio per questo è importante fare nomi e cognomi (e motivare sempre), proprio per districarsi meglio in questo labirinto mortale dell’editoria nostrana. Già la gente in Italia non legge, se poi un non-lettore (o un lettore magari non proprio sgamato) si trova tra le mani spazzatura, abbiamo perso. Tutti.
Per questo credo che sia dovere di (tutti) coloro che amano, lavorano e vivono per i libri, rispettare la responsabilità che il compito che si sono assunti richiede. C’è un popolo intero di lettori da coltivare, se non da far nascere, mentre mi sembra che si resti sempre più imprigionati in una piccola nicchia di eletti. Mentre dimentichiamo enormi fette di maggioranza, sempre più rincitrullite dalla cultura del vuoto e dell’intrattenimento, con le parole svuotate di significato e un analfabetismo dilagante. Non so se anche voi, come me, avete notato la dilagante diffusione del verbo “cosare”. Se non stiamo attenti, tra un po’ finiamo a parlare coi versi, ma non versi poetici, versi bestiali. Ma forse, come insegna il bunga-bunga, lo facciamo già.
Fatta l’Italia, restano da fare gli italiani, dicevano. Curioso no? Oggi cosa sono gli italiani nell’anno di questo pomposo anniversario di una disfatta e fasulla unità? Ovvio che un popolo di lettori è un popolo consapevole. E un popolo consapevole avrebbe saputo meglio difendersi da un monarca squallido, un essere stupido, cattivo e dannoso per gli altri. Non a caso, contro il manganello (e contro il potere), ci si difende con il book block (a riguardo segnalo due articoli su Giap e Carmilla).
Pensiamoci: è già tardi. Non troppo, ma già.
Allora il vecchio si appoggiò sulla poltrona. Mi guardò con gli occhiali più lucidi. Cominciò a farmi i complimenti. Disse che gente come noi ce ne voleva. Che ce n’era ancor poca. Ch’eravamo dei santi. Ma la nostra magagna era stare nascosti. Perché non unire le nostre forze con quelle degli altri italiani? Che cos’è che volevano gli altri italiani? Farla finita coi violenti, coi cafoni, coi ladri, ritornare al rispetto di sé e alla legge, restaurare l’Italia e le sue libertà.
– Rovesciare il fascismo senza far altri danni, interruppe Carletto. [Cesare Pavese, Il compagno]
La Letteratura, il web e la compulsione a scrivere
novembre 5, 2009 di scrittoriprecari 11 commenti
LA LETTERATURA, IL WEB E LA COMPULSIONE A SCRIVERE
[Questo pezzo nasce a margine di un dibattito iniziato da un articolo di Gilda Policastro, intitolato Viaggio tra le gazzette dell’era di internet, e proseguito con le risposte di Carla Benedetti e del blog Sul Romanzo]
A che cosa somiglia di più, mi chiedo, questo schermo munito di tastiera su cui passo ormai molte ore della mia giornata: al vecchio caro foglio bianco che mi si para davanti quando clicco sull’icona di Word, o a una finestra spalancata sul mondo? A ben vedere, questo attrezzo chiamato personal computer, se non lo si mette in rete ha ben poche differenze rispetto a una normale macchina da scrivere.
Si tratta in pratica di uno strumento “privato”, “personale” per l’appunto, che improvvisamente può diventare di dominio pubblico, con tutte le complicazioni del caso.
Questo per dire che la scrittura sul web – soprattutto quando si parla di quei blog e di quei siti che si aprono ai commenti – è prima di tutto performativa, legata cioè al contesto in cui si sviluppa e ai tempi di reazione dei contendenti.
Come nota giustamente Gilda Policastro nel suo articolo, in questo senso viene meno quella “distanza critica” che caratterizza ad esempio il dialogo/confronto tra due o più riviste (che alcuni dei siti letterari più importanti in certi casi continuano a fare). Da questo punto di vista internet sembrerebbe quindi abolire quello spazio della riflessione che è di dominio della critica, sacrificandolo alla necessità di tallonare da vicino il proprio argomento, che spesso e volentieri finisce con il trasformarsi (e non sempre suo malgrado) in un grande spot promozionale a favore di questa o di quell’altra parrocchia. Eppure, se da una parte questo discorso mi sembra valere per un genere come la recensione – sempre più spesso relegata al compito di decorare l’informazione (e non vale solo per internet) – direi che la questione dei “commentari” non si può liquidare semplicemente paragonando la discussione a un’arena dove si battono i “tori della tastiera”, anche perché non mancano, come in ogni corrida che si rispetti, i toreri con il loro seguito di picadores.
Propongo allora di non prendere il toro per le corna e di considerare la questione da un altro punto di vista: forse che il problema è legato solo all’ambito dei “blog o siti letterari”?
Quella dei cosiddetti disturbatori è una categoria trasversale, che costituisce una delle componenti del web, ma che evidentemente da più fastidio quando si esibisce in certe arene anziché in altre (motivo per cui alcune di queste vengono chiuse ai commenti). Ecco perché eviterei di usare una categoria quale la Letteratura e mi concentrerei piuttosto sulle scritture, che è lo stesso motivo che mi porterebbe a sostituire l’arena con la palestra, dove la definizione di “agonismo muscolare” perderebbe un po’ di quella violenza di cui si nutre invece ogni corrida che si rispetti. Il web come palestra di scrittura, e dunque come scrittura performativa, lo trovo un buon punto di partenza per una serie di motivi: innanzitutto perché il personal trainer ha modo di disciplinare l’ambiente avendo al tempo stesso la possibilità di allenarsi (molto spesso è qualcuno che quella stessa palestra l’ha in passato frequentata come tesserato), ma senza sentirsi in diritto d’infilzare chi vuol fare di testa sua con gli attrezzi, perché è sufficiente stirarsi un muscolo per capire come regolarsi la volta seguente (leggasi autoregolamentazione). Certo, un po’ come avviene con l’insistenza nel curare il proprio corpo, anche quella della scrittura in internet sembra essere per certi aspetti una pratica compulsiva, una fissazione che si rafforza con il protrarsi dell’allenamento, e questo è il motivo per cui mi annovero tra i fautori del cosiddetto web 3.0, dove si rende auspicabile un dialogo effettivo tra la rete e il suo esterno, perché, se proprio devo dirla tutta, a me pare che la scrittura in rete sia più vicina all’oralità che alla scrittura vera e propria. Un’oralità che certamente risente di certi modelli, come quelli del talk show televisivo, dove si fa a chi urla di più, ma non sarà perché forse è la stessa critica ad alzare la voce per farsi sentire, come quando finisce puntualmente a scornarsi sulla questione dei premi letterari, tanto per fare un esempio?
Ecco che allora sembra non esserci poi tutta questa differenza fra internet e il resto, se non, giustamente, per una questione di maggior visibilità a minor costo.
Ma è tutta qui la prerogativa del web?
Il fatto è che molto spesso i blog o i siti letterari (dai più piccoli ai più grandi e importanti) sono ben poco pluralisti, poiché per pubblicare si devono avere i contatti giusti, essere un minimo conosciuti, come d’altronde è sempre accaduto per le riviste cartacee e per quanto concerne qualsiasi attività che sia gestita da una redazione (anche se, come ricorda Carla Benedetti nel suo pezzo, c’è sempre la possibilità di pubblicare una risposta ben articolata). Ora, la rivoluzione del web sembrava proprio consistere nello scavalcamento di questa sorta di barriera, in una libertà pressoché assoluta che si sta però dimostrando di difficile gestione, poiché questa voglia di letteratura (e non solo, ma atteniamoci al nostro caso) si quantifica in un’appendice di commenti come unico spazio disponibile al confronto, e dove effettivamente assistiamo troppo spesso a diatribe personali che deviano ben presto l’attenzione dall’articolo di partenza. Ché poi, a dire il vero, più che di disturbatori (che sono una minoranza) si dovrebbe parlare semmai di affezionati, di blogger (o semplici utenti) che seguono tutte le discussioni e si accalorano nel difendere quello o attaccare quell’altro, mimando quelle stesse dinamiche che si ritrovano in una riunione di condominio o in un’assemblea popolare (sì, è vero, sul web c’è il nick name dietro cui nascondersi, ma io di alcuni dei miei condomini non è che ne sappia poi molto di più). Con questo non voglio affatto mettermi a difendere chi usa lo spazio dei commenti per offendere o attaccare gratuitamente questo o quell’altra, ma solo precisare che forse certi contenuti e certi modi di veicolarli possono attrarre più facilmente di altri interventi del genere (che naturalmente ogni sito o blog ha la libertà di scegliere come meglio regolamentare).
Cominciamo allora a chiederci da dove viene tutta questa necessità di parlare di Letteratura, soprattutto in un paese dove secondo alcuni sarebbero di più gli scrittori dei lettori.
Forse che questa compulsione a scrivere potrebbe essere incanalata in esperimenti di scrittura collettiva (e già ce ne sono, cito su tutti il SIC), alla quale il web si presta per sua natura, e che magari metterebbe anche un freno alla sovrapproduzione di libri e libricini che esiste in Italia? I “tori da tastiera” potrebbero così trasformarsi nelle lepri dietro cui correr coi cani, e chissà, magari a forza di dar loro la caccia si finirebbe pure con lo stanare delle storie interessanti – ma in fondo lo diventano anche certe polemiche, arricchite da personaggi che per quanto ne so potrebbero essere del tutto inventati, e che pure finiscono con l’appassionarmi nel loro carteggio allo stesso modo di un feuilleton o di una telenovela ben articolata.
Ché poi, a pensarci bene, siamo proprio sicuri che questi siti non sentirebbero la mancanza dei tori scatenati con cui scaldare il pubblico dell’arena?
Simone Ghelli
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