Trilogia sull’operaio – Caterina ovvero l’accoppiamento della lumaca
agosto 4, 2009 2 commenti
Conobbi la signora Caterina Manzone al telefono,circa sei mesi fa, in autunno.
“Buongiorno… il signor De Rossi?”
“Si, sono io. Con chi parlo?”
“Mi chiamo Caterina. Ho letto il suo annuncio nella bacheca dell’ospedale. L’ho chiamata perché ho da tinteggiare una stanza, lei è libero?”
“Domani mattina concludo un lavoro di ristrutturazione in un appartamento. Se mi da il suo indirizzo, nel pomeriggio passo da lei per farle un preventivo. Senza impegno, naturalmente!”
“Si, domani pomeriggio è perfetto! Sarebbe ottimo per me verso le sei!”
“Le sei. Ok, va benissimo!”
“Il mio indirizzo è: via Uderisi da Gubbio numero venti. Al citofono: Manzone-Ceccarini.”
“…Manzone… allora ci vediamo domani, alle sei!”
“Perfetto, grazie mille! A domani!”
Il pomeriggio del giorno seguente, mi presentai all’indirizzo che la signora, al telefono, mi aveva indicato.
Mi fu offerto un caffè annacquato che, quasi subito, si mise a pungere l’intestino.
Mi fece vedere la stanza: una camera da letto di quattro metri per tre che, dall’arredamento e dalle suppellettili, sembrava appartenere a un ragazzo poco più che adolescente.
Le riferii il costo del mio preventivo, materiali compresi.
Lei accettò di buon grado dicendomi, tra l’altro, che il prezzo le sembrava conveniente. Si soffermò su quel fatto: “Non è che mi fa pagare tanto poco perché farà un lavoro a tirar via?”
“Non si preoccupi! Faccio l’imbianchino da anni! Può stare tranquilla!”
Mi spiegò che avrebbero portato via i mobili entro due giorni, che avrei trovato, dunque, la stanza sgombra da ogni impedimento.
Avevo una strana sensazione.
In una situazione normale avrei chiesto qualcosa in più su quella stanza. Sul perché degli spostamenti. Qualcos’altro. Invece era come se non mi fossi dovuto azzardare a togliere il coperchio dalla scatola: proprio questa, la metafora che mi venne in mente per prima.
Caterina era una bellissima donna. Di quelle abbondanti nelle forme e generose nei fianchi. Per nulla grassa.
Al telefono avevo pensato che avesse una voce molto sensuale anche se le sue corde vocali avevano, nel proferire parola, uno strano modo di nascondere il vibrato gracchiare dato dallo strazio.
L’avrei richiamata io, due giorni dopo, per chiederle se era stato portato via tutto. In caso di risposta affermativa avrei dunque iniziato.
Presi le scale velocemente dopo averla salutata. Le sgradevoli vibrazioni che avevo sentito vennero sopraffatte dalla certezza dello stare lì lì per cagarsi addosso.
Dicevo di essere un imbianchino solo perché avevo imparato un poco a farlo. Non da molto. Avevo mentito alla signora. E non le avevo fatto un buon prezzo perché ero un onesto operaio: avevo un disperato bisogno di soldi.
Ormai allo stremo delle mie finanze, licenziato dall’ennesimo lavoro da scimmia, avevo stampato volantini che distribuivo in giro, nelle cassette delle lettere, oppure appesi in bacheche, in mezzo ad altri milioni di annunci: “Imbianchino esegue lavori di tinteggiatura: appartamenti, zone interne ed esterne, bagni, cucine, grate, inferriate, ringhiere, porte, persiane, ecc ecc. Materiali di prima scelta, massima convenienza, onestà e qualità. De Rossi Armando 33898765”
Ma il mondo dell’edilizia non è rose e fiori. Sono pochi i guadagni se non si hanno i giusti agganci. E non ero nemmeno bravo come dicevo in giro e scrivevo sugli annunci.
Quando richiamai Caterina, lei mi rispose come se fossi stata la prima persona a parlare dentro alla sua cornetta in quei giorni. Era tutto a posto.
Il giorno seguente caricai vernici, scala e altro in macchina per trovarmi, alle otto e mezza del mattino sotto il portone della signora Manzone.
Dopo aver rifiutato il caffè che mi aveva offerto, con la scusa di averne appena bevuto uno, cominciai di buona lena a lavorare. Era una cosa di un paio di giorni. Niente di difficile, per fortuna.
Io e la padrona di casa cominciammo a darci del tu a metà mattinata, quando mi avvertì che sarebbe andata a fare la spesa e mi disse di fare come se fossi a casa mia per l’acqua da bere o altro.
Il pennello, intriso di vernice, scivolava sul soffitto uguale ad altre mille volte con i suoi “squash” intervallati ai miei respiri, sempre più affannosi.
Tornò verso mezzogiorno: “Hai fame? Ti preparo qualcosa?”
“Grazie, ma sono abituato a lavorare filato, senza fermarmi per pranzo! In questo modo posso terminare prima la mia giornata lavorativa!”
Questa era una mezza verità.
Finire alle tre, massimo alle quattro, mi sembrava un buon modo per non passare la giornata a lavorare. Era vero anche che il languore che pian piano diveniva morso nello stomaco, mi faceva sentire meno solo. Era un masochistico rituale che perpetravo di continuo. Il dolore riusciva a distrarre i pensieri tristi e autolesionisti di quei giorni, facendomi sentire veramente di carne e viscere, umano insomma, come non ricordavo più di essere da molto tempo.
“Va bene, se proprio non ti va di pranzare, lascia che ti offra almeno un panino!”
Accettai. Nemmeno uno come me avrebbe potuto rifiutare un’offerta così ridimensionata.
Non ricordo molto di quella giornata. Questo perché ci fu un particolare che spazzò via gli altri.
Mentre, appoggiato alla scala, mangiavo il panino preparatomi dalla donna, essa mi raccontò un poco della sua vita, un paio di fatti che cominciarono a dare spiegazione alle strane impressioni dei giorni precedenti.
Suo marito l’aveva lasciata. Aveva chiesto il divorzio, ottenendolo. Caterina aveva saputo che si era messo a convivere con una ventiduenne polacca.
Una storia come tante che avevo sentito.
Lei rimase a vivere lì col figlio.
Il secondo anno dalla fuga del marito Gianluca, il figlio, si ammalò. Tumore al pancreas. Nel giro di quattro mesi andò al creatore , tenendo la mano della madre e dicendole, con un filo di voce, di non preoccuparsi, sarebbe stato bene dove stava andando. Sedici anni e mezzo, la durata della sua vita.
Caterina aveva deciso di svuotare e ridipingere la camera da letto del ragazzo morto. Per via del dolore.
Sulla via del ritorno, in macchina, entrai per qualche minuto nei panni di Caterina.
Doveva essere terribile la sua vita da quando un destino beffardo, con un paio di mosse, l’aveva messa in una situazione di scacco emotivo da cui sarebbe stato difficile uscire.
In stati depressivi come quello che stavo attraversando in quel periodo, le sensazioni colpiscono fiacche, senza forza. Tutto si appiattisce inesorabilmente e le emozioni da rare si fanno via via inesistenti, qualsiasi cosa accada.
Invece il pensiero di quella donna splendida, incatenata per sempre alle conseguenze di un dolore tanto forte da paralizzare, riusciva a farsi largo a spallate, percuotendo a calci il mio umore.
Secondo giorno.
Arrivai a buon punto già prima delle tredici. A quell’ora Caterina apparve sulla porta. Sapevo che mi avrebbe chiesto qualcosa riguardo al pranzo, magari rinnovando la proposta del panino: “Va bene che vuoi finir presto di lavorare, però stavolta conviene tu faccia un’eccezione! Sto preparando una lasagna… a volte conviene staccare un poco più tardi per godersi i piaceri della vita o no?”
Aggiunse un tono impercettibile di volgare malizia al termine di questa frase. Eccitante se in grado di carpirla.
Mezz’ora più tardi eravamo seduti uno di fronte all’altra, sul tavolo della cucina, a mangiare quella prelibatezza.
Era una cuoca pessima. Nonostante ciò mi dilungai in lunghi apprezzamenti e teorie culinarie atte a glorificare il suo lavoro.
Il suo seno straripava oltre il maglione rosso troppo scollato.
Mai avrei tentato un approccio con quella donna. La mia mente era malata già da un po’. Colpa dello stress, del progresso, del lavoro, delle opportunità. Colpa mia. Avevo pensato al suicidio già molte volte, più che altro prendendo in considerazione l’eventualità e rimandando i tentativi di volta in volta.
Depressione. Una malattia da annoverare tra le peggiori.
Figurarsi se, ridotto com’era il mio stato d’animo, avrei potuto impegnarmi a rimorchiare una donna molto più grande di me, con un fascino ineguagliabile e una situazione alle spalle capace di intimidire tutti qui problemi che mi apparivano insormontabili.
Perciò mangiavo quella pappa disgustosa, la stavo a sentire, rispettavo le buone maniere. Certo non potevo fare a meno di buttare l’occhio su quelle tette enormi e sode.
Lei se ne accorse e fece finta di niente.
Dopo mangiato finii, in breve, quel che mancava alla tinteggiatura della stanza. Accatastai tutti gli attrezzi fuori dalla porta d’ingresso. Con un paio di viaggi li avrei poi caricati in macchina.
Caterina nell’allungarmi i soldi, mi afferrò dall’avambraccio con lo scopo di portarmi a lei.
Fronte contro fronte. Pressati uno all’altra.
Mi trascinò in camera da letto.
Non opposi la minima resistenza.
Chi ha mai visto due lumache che si accoppiano saprà che esse, nell’atto, si fondono in un unico gelatinoso filamento palpitante di muco e carne biancastra. Un solo essere alieno creato dall’unione di due viscide metà.
Il nostro gorgo di sesso fu qualcosa del genere.
Afferravo perché ovunque c’era da afferrare. Caterina era intorno a me e conferiva un senso di pienezza al tutto.
Le prime gocce della mia essenza picchettarono dolorosamente l’inizio del mio orgasmo, risultato inevitabile di una interminabile percossa.
Sensazione di essere fuori luogo.
Sensazione di sporcizia e nausea.
Desiderio irrefrenabile di rivestirsi e andar via.
Caterina, con la testa appoggiata al mio petto, pian piano iniziò a sobbalzare per poi esplodere in un pianto vigoroso ancor più del suo godere.
Dalla gola, pian piano, sempre più in alto, saliva il rospo della mia angoscia che veniva alimentato di continuo da emozioni immensamente poderose.
Piangemmo insieme per un po’ e mi piacque più della violenta scopata di qualche minuto prima.
Lacrime più salate del solito, figlie di un pianto che per troppo era rimasto dimenticato in un angolo oscuro.
Fu quella la fine del mio stato di depressione e l’inizio del resto della vita.
Da quel giorno non ebbi più nessun tipo di contatto con la signora Manzone.
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