La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 11
gennaio 2, 2010 Lascia un commento
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Il riferimento al bello ci è utile anche per comprendere l’univocità di genere caratterizzante il gruppo, che non era certo costituito di soli maschi per una forma di maschilismo o di misoginia – o almeno ciò non sembra emergere dai loro scritti – ma piuttosto perché essi erano accomunati da tratti fisici non proprio ripugnanti, ma sicuramente non piacevoli. A vederli nelle foto che si son divertiti a scattare durante il viaggio, emerge anche una certa sciatteria nell’abbigliamento e nelle posture, che addizionata al venir meno del cosiddetto fascino dello scrittore in un’epoca poco avvezza ai libri, ci dà la soluzione al quesito sull’assenza delle donne in questa combriccola.
E questo dev’esser stato sicuramente un altro chiaro motivo di frustrazione, che ha spinto i cinque, bombardati da una continua pioggia ormonale, a riversar la loro carica su altri obiettivi, e in particolare su quello assurdo e grottesco di rubare le parole al Presidente. Detto così, potrebbe sembrare un gioco letterario, una sorta di gara di retorica, ma dietro questo slogan un po’ naïf, questi terroristi del verbo nascondevano ben altri intenti.
Per niente sfiancati dalla prestazione bolognese, essi ripresero infatti la marcia verso nord, in direzione della capitale ambrosiana, e fu probabilmente durante quel viaggio che iniziarono a pianificare la loro strategia. Se nelle tappe precedenti il significato del loro discorrere sembrava ancora tutto compreso nell’universo letterario, durante la serata milanese sembrarono emergere degli elementi nuovi, che ci permettono di leggere in chiave ideologica anche certi passaggi dei loro scritti. Non parlo della trita propaganda di cui erano intrisi da cima a fondo i loro testi più impegnati, ma degli altri racconti e poemetti per così dire d’evasione, che nascondevano invece una critica ben più radicale al sistema in cui si andavano muovendo. V’era inoltre in quel loro modo un po’ sornione e testardo di stare sul palco nonostante tutto – i brusii, i movimenti, persino lo svuotarsi degli spazi – un irriducibile e caparbio residuo d’utopia, che si pensava ormai spazzata via grazie ai soporiferi talk show televisivi e all’informazione precotta che si vendeva un tanto al chilo.
Tutto ciò emerse chiaramente in quel di Milano, dove i nostri sembravano dei bambini in gita, e come questi non si risparmiavano in critiche da bar legate a un po’ di sano campanilismo: la prima delle quali fu di carattere meteorologico, ché chi vive a Roma s’affeziona al sole e al cielo della capitale, e per queste due qualità subisce volentieri il peso di tutte le altre angherie della città dei ministeri. Insomma, gli è che anche sotto un cielo terso, ai loro occhi in quella città sembrava comunque tutto grigio, probabilmente per via di una visione viziata da anni di dicerie, al punto che l’immaginario inabissava la realtà a portata di mano.
Ma c’è un fatto che più di altri dimostra la presenza di una trama oscura dietro l’apparente sciatteria del progetto; un particolare non da poco che emerge da una delle fotografie archiviate dal quintetto, che ritrae un abbraccio sospetto ai piedi degli scalini del Duomo. Nell’immagine si vede chiaramente lo scrittore con attitudini alla lotta salutare due dei suoi compari di viaggio, in un modo che indica in maniera lampante la ricongiunzione dopo un considerevole lasso di tempo, e che desta molti dubbi sulla veridicità degli appunti ritrovati tra le loro carte. Come se il viaggio fosse insomma stato riscritto al suo termine, per raccontarci una storia un poco diversa da quella realmente accaduta.
Già vi sento obiettare che in fondo questo è il compito dell’artista, che s’ingegna nel rimescolare un poco gl’ingredienti di un piatto che siamo abituati a trovare servito e condito, e al cui sapore ci assuefacciamo facilmente e volentieri – nel nostro paese la televisione è in fondo servita proprio a questo: a presentarci sempre il solito menù, e non è un caso che stia caparbiamente accesa mentre la famiglia si riunisce a tavola per desinare.
Il compito di un buon degustatore – che sia lettore o spettatore non importa – è però quello di saper discernere quest’ingredienti, in modo che non corra il rischio d’esser caso mai avvelenato; perciò siamo arrivati al punto di dover sporcare un poco le nostre mani, per separare il buono dal cattivo, come in ogni opera che si rispetti.
La Letteratura, il web e la compulsione a scrivere
novembre 5, 2009 di scrittoriprecari 11 commenti
LA LETTERATURA, IL WEB E LA COMPULSIONE A SCRIVERE
[Questo pezzo nasce a margine di un dibattito iniziato da un articolo di Gilda Policastro, intitolato Viaggio tra le gazzette dell’era di internet, e proseguito con le risposte di Carla Benedetti e del blog Sul Romanzo]
A che cosa somiglia di più, mi chiedo, questo schermo munito di tastiera su cui passo ormai molte ore della mia giornata: al vecchio caro foglio bianco che mi si para davanti quando clicco sull’icona di Word, o a una finestra spalancata sul mondo? A ben vedere, questo attrezzo chiamato personal computer, se non lo si mette in rete ha ben poche differenze rispetto a una normale macchina da scrivere.
Si tratta in pratica di uno strumento “privato”, “personale” per l’appunto, che improvvisamente può diventare di dominio pubblico, con tutte le complicazioni del caso.
Questo per dire che la scrittura sul web – soprattutto quando si parla di quei blog e di quei siti che si aprono ai commenti – è prima di tutto performativa, legata cioè al contesto in cui si sviluppa e ai tempi di reazione dei contendenti.
Come nota giustamente Gilda Policastro nel suo articolo, in questo senso viene meno quella “distanza critica” che caratterizza ad esempio il dialogo/confronto tra due o più riviste (che alcuni dei siti letterari più importanti in certi casi continuano a fare). Da questo punto di vista internet sembrerebbe quindi abolire quello spazio della riflessione che è di dominio della critica, sacrificandolo alla necessità di tallonare da vicino il proprio argomento, che spesso e volentieri finisce con il trasformarsi (e non sempre suo malgrado) in un grande spot promozionale a favore di questa o di quell’altra parrocchia. Eppure, se da una parte questo discorso mi sembra valere per un genere come la recensione – sempre più spesso relegata al compito di decorare l’informazione (e non vale solo per internet) – direi che la questione dei “commentari” non si può liquidare semplicemente paragonando la discussione a un’arena dove si battono i “tori della tastiera”, anche perché non mancano, come in ogni corrida che si rispetti, i toreri con il loro seguito di picadores.
Propongo allora di non prendere il toro per le corna e di considerare la questione da un altro punto di vista: forse che il problema è legato solo all’ambito dei “blog o siti letterari”?
Quella dei cosiddetti disturbatori è una categoria trasversale, che costituisce una delle componenti del web, ma che evidentemente da più fastidio quando si esibisce in certe arene anziché in altre (motivo per cui alcune di queste vengono chiuse ai commenti). Ecco perché eviterei di usare una categoria quale la Letteratura e mi concentrerei piuttosto sulle scritture, che è lo stesso motivo che mi porterebbe a sostituire l’arena con la palestra, dove la definizione di “agonismo muscolare” perderebbe un po’ di quella violenza di cui si nutre invece ogni corrida che si rispetti. Il web come palestra di scrittura, e dunque come scrittura performativa, lo trovo un buon punto di partenza per una serie di motivi: innanzitutto perché il personal trainer ha modo di disciplinare l’ambiente avendo al tempo stesso la possibilità di allenarsi (molto spesso è qualcuno che quella stessa palestra l’ha in passato frequentata come tesserato), ma senza sentirsi in diritto d’infilzare chi vuol fare di testa sua con gli attrezzi, perché è sufficiente stirarsi un muscolo per capire come regolarsi la volta seguente (leggasi autoregolamentazione). Certo, un po’ come avviene con l’insistenza nel curare il proprio corpo, anche quella della scrittura in internet sembra essere per certi aspetti una pratica compulsiva, una fissazione che si rafforza con il protrarsi dell’allenamento, e questo è il motivo per cui mi annovero tra i fautori del cosiddetto web 3.0, dove si rende auspicabile un dialogo effettivo tra la rete e il suo esterno, perché, se proprio devo dirla tutta, a me pare che la scrittura in rete sia più vicina all’oralità che alla scrittura vera e propria. Un’oralità che certamente risente di certi modelli, come quelli del talk show televisivo, dove si fa a chi urla di più, ma non sarà perché forse è la stessa critica ad alzare la voce per farsi sentire, come quando finisce puntualmente a scornarsi sulla questione dei premi letterari, tanto per fare un esempio?
Ecco che allora sembra non esserci poi tutta questa differenza fra internet e il resto, se non, giustamente, per una questione di maggior visibilità a minor costo.
Ma è tutta qui la prerogativa del web?
Il fatto è che molto spesso i blog o i siti letterari (dai più piccoli ai più grandi e importanti) sono ben poco pluralisti, poiché per pubblicare si devono avere i contatti giusti, essere un minimo conosciuti, come d’altronde è sempre accaduto per le riviste cartacee e per quanto concerne qualsiasi attività che sia gestita da una redazione (anche se, come ricorda Carla Benedetti nel suo pezzo, c’è sempre la possibilità di pubblicare una risposta ben articolata). Ora, la rivoluzione del web sembrava proprio consistere nello scavalcamento di questa sorta di barriera, in una libertà pressoché assoluta che si sta però dimostrando di difficile gestione, poiché questa voglia di letteratura (e non solo, ma atteniamoci al nostro caso) si quantifica in un’appendice di commenti come unico spazio disponibile al confronto, e dove effettivamente assistiamo troppo spesso a diatribe personali che deviano ben presto l’attenzione dall’articolo di partenza. Ché poi, a dire il vero, più che di disturbatori (che sono una minoranza) si dovrebbe parlare semmai di affezionati, di blogger (o semplici utenti) che seguono tutte le discussioni e si accalorano nel difendere quello o attaccare quell’altro, mimando quelle stesse dinamiche che si ritrovano in una riunione di condominio o in un’assemblea popolare (sì, è vero, sul web c’è il nick name dietro cui nascondersi, ma io di alcuni dei miei condomini non è che ne sappia poi molto di più). Con questo non voglio affatto mettermi a difendere chi usa lo spazio dei commenti per offendere o attaccare gratuitamente questo o quell’altra, ma solo precisare che forse certi contenuti e certi modi di veicolarli possono attrarre più facilmente di altri interventi del genere (che naturalmente ogni sito o blog ha la libertà di scegliere come meglio regolamentare).
Cominciamo allora a chiederci da dove viene tutta questa necessità di parlare di Letteratura, soprattutto in un paese dove secondo alcuni sarebbero di più gli scrittori dei lettori.
Forse che questa compulsione a scrivere potrebbe essere incanalata in esperimenti di scrittura collettiva (e già ce ne sono, cito su tutti il SIC), alla quale il web si presta per sua natura, e che magari metterebbe anche un freno alla sovrapproduzione di libri e libricini che esiste in Italia? I “tori da tastiera” potrebbero così trasformarsi nelle lepri dietro cui correr coi cani, e chissà, magari a forza di dar loro la caccia si finirebbe pure con lo stanare delle storie interessanti – ma in fondo lo diventano anche certe polemiche, arricchite da personaggi che per quanto ne so potrebbero essere del tutto inventati, e che pure finiscono con l’appassionarmi nel loro carteggio allo stesso modo di un feuilleton o di una telenovela ben articolata.
Ché poi, a pensarci bene, siamo proprio sicuri che questi siti non sentirebbero la mancanza dei tori scatenati con cui scaldare il pubblico dell’arena?
Simone Ghelli
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