«È troppo abituato ai suoi cerottini digitali»

[Estratto dal romanzo inedito Nella vasca dei terribili piranha]

 

Adesso siamo nella semifinale: è il turno dei Gemelli, già abbastanza fasciati, ma vittoriosi senza ombra di dubbio, invocati da un giapponese che ha una serpentesca vena violacea che dal collo giallognolo zampilla quasi sulle labbra. Si alza composto rizzando la carta, aspettando che l’occhio della luce lo inquadri, così come le telecamere, che proiettano velocemente la sua vena sugli schermi laterali, intervallandola con il promo dei Gemelli già mostrato in precedenza.

«Gibbs, guardi che carino. Come annunciato in precedenza. Quel giapponese ha investito metà dei suoi soldi, per tutta la vita, per comprarsi giocatori talentuosi per la sua squadra di calcio. Non ne ha ricavato un solo campione. E ora ci riprova! A questo serve il Telemaco: a mitigare certe delusioni passate, certi gingilli falliti, a correggere certi piaceri. Non si sente veramente potente con le sue carte in mano e i suoi ragazzini qui sotto che si battono per un solo gesto della sua mano?»

«Ancora non mi convince fino in fondo: qui si passa dal segaiolo al sadico.»

«È troppo abituato ai suoi cerottini digitali».

I gemelli, con lo stomaco in gola, si rilassano appressandosi ad un angolo dell’arena, massaggiando coi piedi la palla che solleva zufoli di polvere. Alzano la carta dalla platea, i cui protagonisti si sono fatti sempre più radi, per le sconfitte, per il disgusto e per il rancore, anche se quelli rimasti paiono aver assorbito la speranza di portarsi a casa la vittoria e biascicano come drogati commenti fra di sé.

Il piccolo ragazzo dal taglio barbaro e l’espressione inerte conosciuto come la Luminaria Polacca, con la sua faccia sbiancata e la candela al naso che lambisce di frequente con la lingua, si fa avanti, portando con sé gli sghignazzi del pubblico dimezzato. Da quando l’hanno pescato dai bassifondi, a vendere lucette ai turisti e a difendersi dai ladri, dai violentatori e dai ratti con i suoi prodotti luminosi dementi nascosti per tutto il corpo, è sempre stato sbeffeggiato, ma a tratti anche temuto. Ne ha accecati parecchi, di intrepidi.

«I gemelli lo triturano. I gemelli lo polverizzano. Ma dove l’hanno raccattato?» commenta Gibbs, incalzando d’euforia improvvisa.

E l’handicap invocato è il buio assoluto. Associato al buio, un buio violaceo per l’arena e un buio grigiastro per la platea, handicap non intenzionale è il rovescio della pioggia che è iniziata, prima lentamente, tamburellando sul tendone verso l’inizio dei quarti di finale, poi come lanciata a secchiate da forze innaturali, schiaffeggiando la plastica e scuotendola come il ventre in corsa di un animale selvaggio. In quel grembo, la palla dei gemelli che rotola nel buio a tentoni, che poi si imbizzarrisce in rapide sferzate che fischiano nelle orecchie elefantine del polacco, il quale indossa i suoi occhiali scuri, sommando oscurità a oscurità, e aziona il suo meccanismo di luci a cascata, che si attiva a raggiera dal corpo, come il cuore di un punchingball. Di riflesso, i due gemelli che espandono le loro ombre disseminandole assieme alla lunga ombra della palla, tranquilla nel suo roteare. Il polacco fa uno strano rumore circense, da clown impazzito e scimmiesco che fa piangere i bambini, e lancia la sua prima scarica, che abbaglia la vista del pubblico, rifrangendosi sul ventre del tendone sbattuto dalla tormenta.

Per un attimo, i gemelli, intontiti e accasciati con gli occhi in mano, perdono il controllo della palla, questa si inoltra nel buio come un innocente impaurito e disorientato che si guarda alle spalle, ma è troppo tardi. Poi si hanno altri urletti del polacco e la sua spietata Luminaria che apre il ventaglio bianco sterminante, ancora.

«Seguimi,» fa il grande gemello a quello mingherlino.

«Ti seguo,» risponde con il braccio sugli occhi, ancora accasciato. «Ma dove ti seguo? Non voglio finire perennemente imbambolato come quello dell’infermeria, con le stelline negli occhi».

«Chiudi gli occhi e monta su,» lo sprona il fratello.

Il gemello più agile e leggero, con una capriola, è sulle spalle dell’altro. Avanzano incomprensibilmente pencolanti verso il polacco, che lancia scariche con intensità sempre maggiore.

«Cerca di vederci qualcosa, io agguanto per poco».

Il gemello sulle spalle oscilla sopra il fratello già coinvolto ad occhi chiusi in un flusso intermittente di scariche della Luminaria, impregnato di sudore nei vestiti scuri che indossa, da spazzacamino di una volta, per il calore della sua luce chiara, che è il risultato dell’azione congiunta di lucette rosse, portachiavi laser, cuoricini pullulanti e accendini con immagini di lolite a cosce aperte.

«Riesci a vedere qualcosa?»

«Che cosa dovrei vedere?» fa quello sopra le spalle, dondolando pericolosamente avanti e indietro sopra la Luminaria, che scarica automaticamente tutta la sua energia sul gemello più grande, che si copre la faccia con il gomito. Sulla sua pancia olivastra, tirata su la maglietta blu, si proietta per un attimo un seno di donna gigante proiettato, come una buccia chiara di mela.

«Cerca la palla. Quando lui abbaglia, puoi vedere dove è».

Il gemello ritto per aria scruta sopra i bagliori, riacquistando un po’ di vista e abituandosi al buio di intervallo alle sciabolate di luce.

«L’ho vista,» fa a quello sotto.

«Vai, che io non ce la faccio più,» gli fa il fratello ansimando.

«Eccomi».

Il gemello che regge fa da catapulta allo slancio di quello che adesso, con una capriola in aria, ritrova la palla appena in tempo per non perderla di nuovo. La palla è ferma. Oltre alla palla c’è nell’oblio di quella arena una scarpa tutta fangosa e slabbrata che la trattiene, come ad aspettare di fare il proprio dovere.

«Sbrigati!» gli fa il gemello adesso solo davanti alla luce lancinante.

Il gemello smilzo nel buio ha il tempo di riconoscere quel respiro a tamburo. La pelle olivastra, le occhiaie adesso più profonde del solito, gli stessi denti spezzati che si sono aperti nella carovana di Madrid e il tremolio della sua pancia. Un lampo gli rivela la faccia abbassata e ansimante di Juan, del Mutino, del Verdolino, con quella scarpa zuppa che trattiene la palla a stento. Il gemello pensa in un lampo però al fratello e, aiutato dallo stesso bagliore del piccolo polacco che continua a insidiare al centro dell’arena, può intravedere i contorni del corpo di quello e scaricargli sulla schiena, trovandosi alle sue spalle, un colpo di palla preciso che per un attimo sembra far cortocircuitare tutti i meccanismi luminosi del polacco e scoperchiare qualche filo elettrico.

«Questo te lo dedico, matto di un verdolino,» bisbiglia a Juan fino a che il cuoio non tocca la struttura del polacco in un rumore sordo.

«Che cazzo ci fai qui?» aggiunge.

La Luminaria intanto si apre come un boccio impazzito alla primavera, direzionando verso l’alto la sua potenza per il disequilibrio, e questa è l’occasione non persa dal più grande dei gemelli per restituire il favore al fratello, e puntare dritto al meccanismo di irrigazione in alto, e azionare la pioggia fittizia che si somma al dimenarsi della tempesta là fuori. Il corpo della Luminaria frigge sotto la pioggia fine. Juan indietreggia assieme al gemello a lui vicino. Il pubblico sugli spalti si porta le mani alla bocca.

Alessandro Raveggi

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I proci

Telemaco comandògli recarla, e Ulisse l’ebbe.
Ei, prese in man l’arco famoso, il tese
Così e il tirò, che ambo le corna estreme
Si vennero ad unir: poi la saetta
Per fra tutti gli anei sospinse a volo.
Ciò fatto, stette in su la soglia, e i ratti
Strali versossi ai piedi, orrendamente
Guardando intorno. Antìnoo colse il primo,
E dopo lui, sempre di contra or l’uno
Tolto e or l’altro di mira, i sospirosi
Dardi scoccava, e cadea l’un su l’altro.
Certo un nume l’aitava. I suoi compagni,
Seguendo qua e là l’impeto suo,
A gara trucidavanci: lugùbri
Sorgean lamenti, rimbombar s’udìa
Delle teste percosse ogni parete;
E correa sangue il pavimento tutto.

La porta cigola. Continuamente. Una leggera corrente d’aria la sposta, in modo impercettibile, provocando un lento, disturbante, stridio.

Il tremore delle mani non si attenua. Cerco qualcosa, nell’infisso rotto della finestra.

Attorno sacchetti di plastica: pieni, rotti, vuoti, appesi.

Vestiti sporchi, puliti, da stirare, da stendere. Scarpe.

Mi alzo dalla sedia.

Guardo allo specchio le iridi arrossate, per il poco tempo passato a dormire. 30 cc di Delorazepam, insieme al caffè provano a migliorare lo stato.

Ho una casa, un lavoro sicuro e sono sano. Ho anche un figlio. Posseggo ciò che la maggior parte delle persone desiderano. Ho amato e sono stato ricambiato.

In effetti non vi è nulla di sbagliato. La desolazione, la solitudine, la depressione e perfino la disperazione non hanno nulla a che vedere con lo stato sociale di un qualunque borghese.

Ho fatto delle scelte, o almeno, mi è sembrato di farle. Alcune facili, altre dolorose.

Oggi ho finito le scelte.

Lo specchio mi restituisce un volto, come se dicesse: affari tuoi, non voglio saperne nulla.

Non vi è nulla di leggero: nulla che lasci vie di scampo.

Una doccia e mi preparo. Mi vesto: prima l’intimo, una camicia, pantaloni, ma leggeri, che fa caldo. Scarpe comode.

Dopo pochi minuti di guida entro in ufficio, dove non mi aspetta nulla da fare, se non una lunga giornata da far trascorrere. Non penso, non leggo il giornale, non telefono a nessuno: sono gesti che non compio più da tempo.

Il mio superiore ritmicamente mi consegna dei fogli, lavoro totalmente inutile, ma necessario all’andamento del regime.

Poi il momento del caffè. Non vorrei prenderlo: ma è un motivo per uscire.

Ancora il nulla fino alla pausa del pranzo: dove il nulla si trasferisce davanti a un qualsiasi piatto, che rimane quasi sempre pieno.

Il pomeriggio è breve, e già all’ora del tramonto sono di nuovo davanti all’infisso rotto.

Ho spostato alcuni sacchetti di plastica: certi vestiti dovevano essere lavati, e certi altri stirati.

Ho messo nell’immondizia un vecchio paio di scarpe rotte.

Da tempo non mi chiedo nulla.

Da tempo non cerco di cambiare nulla.

Non c’è nulla da cambiare.

Ho ciò che tutti cercano: la certezza del ritorno, la garanzia di uno stipendio.

È proprio per questo che oggi, prima di uscire dall’ufficio, mentre i miei colleghi concludevano gli straordinari quotidiani, ho aperto il mio armadio, ho cercato l’accendino che tengo sempre a disposizione, se qualche cliente vuole fumare in ufficio, anche se sarebbe proibito, e, dopo aver cosparso di benzina l’archivio delle pratiche di mutuo, ho acceso la fiamma.

Le vampe hanno avvolto in pochi minuti l’intero edificio, e probabilmente nessuno è riuscito a salvarsi. Io sono sceso dalle scale di sicurezza. Dopo aver bloccato dall’esterno l’uscita.

Ora sono intento alla raccolta differenziata.

L’ambiente è importante, e bisogna pensare al futuro.

Devo sbrigarmi, che anche qui in casa le fiamme crescono rapidamente: è tutto in parquet.

Suonano le sirene.

Luca Giudici