L’amore nei giorni feriali

di Francesco Quaranta

Il nostro amore non esiste davvero se non nelle domeniche mattina.

Quelle tarde mattinate di domenica in cui la finestra aperta riversa oro tiepido su noi due assonnati e sciolti sul materasso, intenti ad indagarci, le lenzuola che dal letto sono state declassate a tappeti, i rumori del mondo esterno che non possono, non riescono a distogliere la nostra attenzione dal pigro tepore. Oppure quelle domeniche mattina in cui siamo animali abbracciati in un disperato letargo, nel nostro bozzolo di pile e piumini, così stretti da fondere i pensieri, non c’è bisogno di sapere se fuori piova, nevichi, tiri vento o ci sia l’apocalisse perché i vetri sbarrati sono una porta su altri mondi a noi estranei.

Il nostro amore non esiste davvero se non nelle domeniche mattina.

Gli orologi sono fermi, nessuno bada a noi e nessuno pretende il controllo su questo tempo. Possiamo far durare uno sguardo Leggi il resto dell’articolo

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Carta taglia forbice – 12

Parte prima – i paragrafi della terza persona [1 – 2 – 3 – 4 – 5]
Parte seconda – i monologhi della prima persona [6 – 7 – 8 – 9]
Parte terza – i dialoghi delle persone [10 – 11 

Epilogo

Un orologio sempre perfettamente esatto non esiste.
Il massimo della precisione ottenibile te la dà un orologio
fermo, che anche se non sai quando, è assolutamente
esatto due volte al giorno.

James G. Ballard, Cronopoli

C’è un pezzo di morte, un lezzo di carni che si asciugano per bagnarsi, una nostalgia scafata della vita, quando penso alla relazione. Due esseri umani, due bipedi fica pene, o fica fica, o pene pene, non importa, che incrociano i nasi in una camera, che è la contrazione dell’uno nell’altro. Infilarsi nel corpo alieno per sentire il proprio.
Roba già detta, pensata, letta, pronunciata, studiata, capita, maledetta.
Ma ogni volta il muscolo gonfia la curva e sceglie la posizione. Che è un’azione coatta, una rielaborazione delle pose già assunte, una riabilitazione di se stessi con il genere umano. Ogni volta è una nuova volta, in pratica.
Così erano storie di piccoli truffatori del muscolo cardiaco, storie di vendicatori di corna, di allibratori che scelgono di giocarsi il cavallo malato, queste storie piatte che non indossano maschere, perché la pochezza non la mascheri, resta attaccata come grasso o come sangue, non la togli, lei sporca tutto, non la cancelli.
Questo è il gioco che avete letto. Un corpo a corpo tra tossici dell’esistenza Leggi il resto dell’articolo

Carta taglia forbice – 5

[Continua da qui]

Una grande città dell’America del Sud

Ci sono dei momenti in cui lui e lei non sanno che farsene del tempo. Il tempo stringe. Il tempo è denaro. Tempo contato. Non ho tempo da perdere. A loro non importa, perché lui e lei passano tutto il tempo insieme. Ma poi arriva il giorno in cui una conoscenza in comune incontra lui e gli chiede di lei, e lui scoppia a piangere, e la conoscenza non sa che fare, anche perché le buste pesano, il pesce puzzava già quand’era steso sul ghiaccio del banco, e poi è ora di tornare a casa. Ma lui piange e la conoscenza non può che fingere premura, interesse.
Alla fine lui si asciuga le lacrime e torna a casa. In cucina c’è un odore insopportabile di cose lasciate andare a male, e il vecchio frigorifero è rotto, non funziona più, perciò forse Leggi il resto dell’articolo

Guerra: una raffinata forma di masochismo

Le sole persone di buon senso che incontriamo

sono quelle che condividono le nostre opinioni.

La Rochefoucauld

 

Mi riesce un po’ difficile convincermi che tutti

possano aderire al mio punto di vista, che si

trovino tutti sulla mia lunghezza d’onda, con

tanta compattezza, senza che qualcuno dissenta.

Fabrizio De André

 

Solo in due casi penso che una persona sia

cretina: quando non mi capisce o quando

mi capisce perfettamente. Io, ormai, non

cerco neanche più di capirmi.

Antonio Romano


Il concetto del doppio ha sempre affascinato l’umanità. Il doppio è la chance, l’ipotesi, l’alternativa (per Rank sei frocio, ma questo è un’altra questione): bianco o nero, alto o basso, vero o falso. Questi – che a prima vista possono sembrare degli opposti – sono dei clamorosi doppi. Il fatto che se non è bianco è nero, implica che l’oggetto in questione abbia la potenzialità intrinseca d’essere sia bianco che nero, cioè di poter modificare la propria colorazione senza cambiare la propria identità. Questa è doppiezza.

Il fatto che i miei calzini siano neri anziché bianchi non esclude che possano essere bianchi anziché neri, ma sempre calzini restano. Questa è doppiezza. Il fatto che un uomo dica una verità anziché una menzogna non esclude che possa dire una menzogna anziché una verità, ma sempre lo stesso uomo è. Questa è doppiezza. O meglio è la scelta, o la chance o l’ipotesi o l’alternativa che ci permette di mentire o di dire la verità oppure di cambiare calzini a seconda dei pantaloni.

Il concetto del doppio si è espresso per secoli anche sotto forme impensabili. Per esempio, una forma del doppio è l’antinomia. Il fatto che una frase possa contraddire se stessa è l’espressione della doppiezza del discorso. Il discorso dovrebbe servire a comunicare, ma, se finge di comunicare, la comunicazione va a farsi benedire. Se una frase si contraddice – e si dimostra non vera – diventa inutile. Una celebre antinomia della scuola megarica è la semplicissima frase: «Sto mentendo». Un attimo! Che vuol dire «Sto mentendo»? Evidentemente che sto mentendo sul mentire. Allora dico il vero? No, se ho detto che sto mentendo.

È interessante questa antinomia visto che, sotto le mentite spoglie della comunicazione, nasconde l’incomunicabilità (dovrei forse rammentare Lacan, che spiega il dramma del disavanzo fra desiderio e parola: ma non mi va di alzarmi a cercare in libreria). Questa frase non porta a termine il suo compito – la comunicazione – perché non serve a comunicare alcunché; ha lo stesso valore della domanda «Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?»: il vero significato, l’essenza e la funzione della domanda vengono annullate e vanificate in quanto la domanda si risponde da sola. È incomunicativa, inutile. E anche in questo c’è doppiezza: in una domanda che è contemporaneamente risposta.

Un’altra antinomia, stavolta dei logici medievali, è: «Socrate dice: “Platone dice sempre il falso”, Platone dice: “Socrate dice sempre il vero”. Chi mente dei due?». Anche qui c’è doppiezza, visto che sia Socrate che Platone sono contemporaneamente bugiardi e sinceri.

Un caso interessante – e forse illuminante a proposito di questa tematica – ce lo dona il popolo dei Maya. Questo popolo straordinario, su cui ancora molto deve essere scoperto e detto, riuscì a sincronizzare il calendario solare con quello lunare creando un nuovo calendario di 364 giorni (il 365° avanzante fu dedicato alla Festa del Tempo: momento in cui i Maya si divertivano sfrenatamente. Tale giorno non veniva neanche computato, come se non fosse mai esistito… tipo Una notte da leoni); questa sincronizzazione potrebbe essere facilmente interpretata come il sintomo d’un’ossessione (non per nulla i Maya sono anche chiamati “Maniaci del Tempo”) oppure, meno facilmente e più costruttivamente, come il desiderio profondo d’annientare la doppiezza; scandire il tempo secondo il sole o secondo la luna è un caso eclatante di doppiezza. I Maya avranno così voluto cancellarlo. Sempre i Maya, in questo campo, offrono un secondo spunto di riflessione. Quando si salutavano usavano una formula che recitava: «In lak’ech», io sono un altro te stesso. Questo popolo doveva aver intuito che l’umanità soffre di doppiezza nei termini di “io” e di “altri”; teoricamente si potrebbe azzardare che avessero anticipato ideologie politiche come il comunismo prevedendo un abbattimento dei ruoli psico-antropologici; sempre teoricamente si potrebbe azzardare che abbiano abbattuto i presupposti per la lotta sociale, per le faide, per la rivalità e per l’invidia (difficile pensare che per un Maya sarebbero valsi gli ultimi due gradi della gerarchia dei bisogni di Maslow): anche in questo caso sembra quasi che abbiano voluto eliminare la doppiezza della società, le differenze fra “io” e gli “altri”. Però, cosa avrebbe risposto un Maya alla domanda: «Preferisci te o me?». Probabilmente non avrebbe saputo rispondere, se è vero che “io sono un altro te stesso” (si pensi alla coincidenza nell’etimo della parola “persona”). Fortunatamente a queste antinomiche doppiezze linguistiche pose una regola (dunque un limite) Russell, stabilendo che le proposizioni non devono essere autoreferenziali. Intendiamoci: Russell non ha eliminato le doppiezze del discorso, le ha solo arginate. Le doppiezze, cioè gli opposti all’interno di uno stesso soggetto o oggetto, implicano l’armonia; gli opposti che convivono sono, a loro modo, armonici. Ma l’armonia non è sempre positiva. Armonia, che ha la stessa radice di arma, comporta appiattimenti, e tutti gli appiattimenti comportano repressione (non soluzione) delle differenze e dei problemi. L’armonia è solo il paravento dietro cui combattono gli opposti. Tale “guerra” (bisogna giustamente intendere questa parola, senza vizi d’interpretazione) per Eraclito è il fulcro stesso dell’esistenza. Dico che bisogna giustamente interpretarla perché, attraverso i millenni, certe parole hanno perso via via il loro autentico significato e si sono dovute avvalere di vari aggettivi (guerra d’offesa, guerra di difesa, guerra preventiva, guerra intelligente, guerra espansionistica, guerriglia).

Biante di Priene, uno dei Sette Savi, diceva che il più pericoloso degli animali selvatici era il tiranno e di quelli domestici l’adulatore. Hobbes, invece, disse: «Le due virtù cardinali in guerra sono la forza e la frode». Il tiranno e l’adulatore, che per Biante erano animali pericolosi, si sono trasformati nelle due virtù cardinali della guerra per Hobbes: la forza e la frode.

Hobbes, si sa, non era un campione di pacifismo (non per nulla è sua la teoria del «Homo homini lupus». L’espressione, in realtà, è da far risalire alla seconda parte – verso 495 – dell’Asinaria di Plauto, in cui è possibile leggere «lupus est homo homini». Altre possibili fonti potrebbero essere ricercate nel settimo capitolo, paragrafo primo, dell’Historia naturalis di Plinio e nel primo paragrafo della centotreesima delle Epistule di Seneca), ma questo la dice lunga su almeno un dato: la guerra è la parte sporca della nostra coscienza, quella che vuole prevalere sull’altro.

Igiene del mondo una sega! Se Marinetti avesse perso qualche arto in battaglia o fosse stato costretto in un letto per tutta la sua esistenza (o sulla sedia a rotelle come Evola) non avrebbe detto cose del genere. All’inizio uno dei Savi disse che la forza (ovviamente la forza “cattiva”, impersonata dal tiranno) e la frode (impersonata dall’adulatore) erano pericolose, in seguito l’empirista del ‘600 le fece diventare le virtù cardinali della guerra e, infine, il futurista tramutò la guerra in una cosa necessaria e giusta. Non vi pare che ci sia una logica ferrea in questa follia? In ogni caso la guerra non è giusta, a prescindere dagli aggettivi con cui la si voglia accoppiare.

La cosa più folle, però, è che non sono sempre gli opposti a fare guerra. Spesso e volentieri sono proprio gli omologhi a combattere fra loro. Francia, Germania e Inghilterra non hanno fatto altro per secoli e non perché diverse, ma perché troppo simili. Questo dovrebbe far riflettere: se attacchiamo una persona che ci somiglia troppo (almeno quanto si somigliano Francia, Germania e Inghilterra) significa che abbiamo gravissimi problemi con noi stessi.

 

Antonio Romano

FACEBOOK, UN LIBRO DI FACCE /1

Secondo Time, l’uomo dell’anno 2010 è Mark Zuckerberg, il ragazzo che ha inventato l’unica cosa che anche i tecnodiffidenti utilizzano: Facebook.

Molte persone non riescono ad avvicinarsi alla tecnologia perché ne hanno paura e ne hanno paura perché non la conoscono. Non si tratta di persone stupide o particolarmente retrograde, piuttosto di persone non compatibili col meccanismo della Rete. In effetti le proprietà di questo meccanismo sono, per alcuni aspetti, davvero singolari.

Una delle quattro proprietà principali della Rete è la memoria.

La Rete conserva memoria di tutto, non è composta di verba ma di scripta, tutto “rimane agli atti”. Il problema è che questo modo di scrivere si avvicina, per emotività e velocità, più ai verba che agli scripta e tutti sappiamo quante sciocchezze dette a voce poi, a vedersele davanti per iscritto, farebbero arrossire. Questa “ipermemoria” conserva tutto ciò che scriviamo, tutto quello che digitiamo velocemente sulla tastiera con la leggerezza tipica della chiacchiera, in sostanza tutto ciò che ci passa per la mente viene fissato da qualche parte. È come una colossale intercettazione dei nostri pensieri: stati d’animo, battute di spirito, osservazioni finiscono nero su bianco nel cyberspazio, spesso senza il loro contesto originario, e così enucleate diventano tutt’altra cosa.

Un’altra delle proprietà principali della Rete è la velocità.

Questa proprietà nasce da tre caratteristiche ben precise della Rete stessa, che sono: multimedialità, orizzontalità e immediatezza.

Se siamo sul sito dell’ANSA a leggere un articolo sul premier islandese, grazie alla multimedialità, potremmo finire sul sito della tv russa a vedere un filmato o su quello della BBC per guardare delle foto o su quello della CNN per sentire una registrazione: non c’è più un solo documento da visionare, ma una catena di documenti visionabili che si legano tra loro tramite link.

Il fatto che i documenti siano fra loro collegati e che nella Rete non ci sia una graduatoria dei siti – se non quella dettata dai motori di ricerca – ci porta direttamente alla seconda caratteristica: l’orizzontalità non è altro che la tipica assenza di gerarchia del materiale di Internet. Non ci dobbiamo arrampicare per 1500 metri su una montagna per avere una stella alpina, ma “navigare” o “surfare” in un mare in cui tutto è al livello del pelo dell’acqua pronto a essere cliccato. La Rete è un oceano dove ci sono solo isolette collegate fra loro da un numero indeterminabile di canali: spetta a me decidere dove andare, perché la Rete non m’impone una salita ai 1500, ma solo una navigazione della rotta incerta.

Ma quanto tempo si perderebbe a girare questo sterminato arcipelago? Infinito, se non fosse per l’immediatezza del meccanismo, che consente di muoversi in “tempo reale”: invio una mail in Australia e in un secondo è arrivata, cerco la biografia di un attore e in men che non si dica è davanti a me, clicco su una clip di Youtube e immediatamente inizio a guardarla. Questa navigazione fulminea, però, ha bisogno di alcune condizioni: i contenuti devono essere scaglionati in capoversi per essere più leggibili, i post reperibili attraverso i tag per risparmiarsi la lettura sommaria di tutto, le frasi senza troppe subordinate o congiuntivi per non essere troppo impegnative, i siti “accessibili” e intuitivi, i colori accattivanti e allo stesso tempo riposanti, etc. Tutto, dall’ideazione di un contenuto alla sua pubblicazione on-line, viene semplificato per essere creato e fruito più velocemente possibile: è l’unico vincolo che il meccanismo richieda. Anche per questo postare qualcosa ragionatamente diventa difficile, perché mentre navigo voglio disporre subito dei contenuti, quindi i contenuti devono essere postati altrettanto velocemente: ecco come gli scripta diventano verba e possono diventare imbarazzanti.

Queste tre caratteristiche sono tutte menzionabili come velocità: da un media all’altro velocemente, da un sito all’altro velocemente, dal mio cervello al web velocemente.

Terza principale proprietà della Rete è la virtualità.

Per virtualità bisogna intendere l’esistenza di uno spazio che in realtà non è uno spazio, ossia di un luogo che sopprime tutti i problemi collegati col mondo fisico: in Rete non esiste la distanza, la Cina o l’Ungheria sono ugualmente vicine, parlare con un pakistano è facile come parlare col mio vicino di casa, tutto è a portata di clic.

Addirittura, per chi naviga sistematicamente, la vita on-line è molto più ricca e completa di quella reale. Quest’ultima vive di routine e regole precise, quella virtuale è imprevedibile (le rotte incerte) e informale (la velocità non può perder tempo in convenevoli). La vita in Rete è vertiginosa perché attraverso il modem tutto il mondo entra in una stanza: pur essendo irreale non smette d’essere autentica, è finta ma viva. Come tutte le fantasie è impalpabile e coinvolgente.

Quarta principale proprietà della Rete è l’autonomia.

Sul concetto di autonomia, come su quello di virtualità, bisogna intendersi. Autonomia significa darsi delle proprie leggi, cioè delle proprie regole e delle proprie parole d’ordine, vivere in base a quanto diciamo noi stessi e non in base a quello che dicono gli altri. Chi è autonomo è Demiurgo di se stesso.

L’esempio più eclatante di autonomia è il nickname, un’identità creata da noi stessi. Non siamo più come gli altri ci vedono (cosa tipica della vita reale), ma siamo come vorremmo essere: il profilo – che fa capo al nick – può diventare tutto quello che vogliamo, possiamo costruirlo su quello che desidereremmo essere, diventa lo specchio deformante in cui somigliamo al nostro ideale. La menzogna è facile in Rete perché la virtualità salva dalla realtà e se si pesa cento chili, ma sul profilo si scrive sessanta, per tutto il web si peserà sessanta e nessuno potrà negarlo perché nessuno è lì a guardare.

Possiamo mentire, d’accordo, ma non dobbiamo sottovalutare la memoria del sistema: se scriviamo in un sito che la nostra taglia è 56 e il giorno dopo, su un altro sito, scriviamo che pesiamo sessanta chili il sistema non lo dimentica e ci smaschera. Il bugiardo deve avere buona memoria nella vita reale, ma in Rete deve averla ottima. Solo a questa condizione l’illusione che creiamo può reggersi.

A questo punto poniamoci di nuovo la domanda: perché alcuni non sono compatibili con queste quattro caratteristiche?

La risposta che potremmo dare è la seguente: perché ognuna di queste porta con sé un paradosso.

Sembra una cosa da niente, ma un paradosso è come il pisello sotto il materasso della principessa: pochi se ne accorgono, ma quei pochi non riescono a far finta di niente.

Il paradosso della memoria è che, anche se scriviamo come se stessimo chiacchierando per strada, tutto rimane. Non conta cosa diciamo né come lo diciamo né se vogliamo che rimanga: resta e basta. Quindi la nostra volontà di conservarlo non conta. Una memoria simile è inconcepibile per un essere umano perché sopprime completamente il concetto di tempo: ciò che è stato detto anni fa è reperibile come se fosse stato detto ieri.

Il paradosso della velocità è che ha cambiato la natura del mezzo scritto: nato per conservare un pensiero ragionato si è trasformato nell’espressione dell’emotività. Prima lo scrivere comportava una mediazione razionale, una volontà precisa, un controllo su ciò che veniva detto; ora si tratta d’un getto di pensieri quotidiani, spesso non ponderati, spesso molto emotivi. Scritto e parlato, in Rete, non si distinguono quasi più e ciò influenza anche l’uso della lingua scritta al di fuori del web. Così come non si distinguono più i luoghi, perché grazie alla velocità lo spazio non esiste più.

Il paradosso della virtualità riguarda la capacità di coinvolgimento di una cosa finta. C’è senza esserci. È come immaginare una stanza: proprio perché non esiste nella realtà, ma solo nell’immaginazione può contenere qualsiasi cosa, contiene ciò che non si può (o non si vorrebbe) contenere. Non è un caso che il web sia definito “amplificatore”: si pensi all’eco che può produrre una stanza infinita.

Il paradosso dell’autonomia, infine, riguarda due aspetti della psiche umana. Il primo è quello della creazione, perché grazie al nickname creatore e creatura coincidono; il secondo è quello del narcisismo, che viene esasperato perché, se Narciso poteva distrarsi senza che nulla cambiasse, chi mente su se stesso in Rete dev’essere costantemente concentrato per impedire che lo specchio deformante si sconti con la dura realtà e vada in pezzi uccidendo la finzione. In Rete chiunque può giocare a essere quello che vuole (si pensi a tutti quelli che, prima di fare una strage, si filmano e si mettono su Youtube), ma per continuare a esserlo deve mantenere un’attenzione quasi paranoica.

Antonio Romano

Un bacio sulla bocca

Tiro fuori dall’armadio la mia borsa nera, quella di vernice con sopra il disegno di una lucertola. È un po’ piccola, ma la riempio con tutto quello che ho sottomano. Due T-shirt, un golfino, la felpa dei Rolling Stones con la lingua di fuori, una tuta da ginnastica e le mie Nike predilette. Non contenta, ci metto pure un paio di jeans, una copia di Vanity Fair, un libro di Patrick McGrath e l’ultimo Cd dei Babyshambles. Però, manca qualcosa.

La Gazzetta di Parma è ancora sopra il letto, aperta in terza pagina dal giorno prima. E lì accanto c’è il libro che avevo comprato per te, Andrea. Il tuo regalo di compleanno.

Ieri non ho fatto in tempo a dartelo, così è meglio che ora lo porti via con me. In ogni caso, non lo avresti letto. Non ti sarebbe piaciuto. Io non so cosa ti piace, così ho scelto un libro a caso, un brutto libro, una storia da quattro soldi che parla d’amore, di destino, e di mille occasioni perdute. Eppure, per un attimo, ho creduto che parlasse anche di noi due.

Invece ho scelto male, Andrea.

Ho sbagliato, perché io non ti ho perduto.

Tu sei in tutte le mie parole, nei miei respiri, nei miei più intimi pensieri. Ma questo non lo sai.

Tu non sai nemmeno che esisto.

Non c’è mai stato niente tra noi due, solo un bacio sulla bocca dato un po’ per scherzo, un po’ per noia. Ma io non ti ho dimenticato. Sono passati quasi tre anni da quel bacio, ed io ti ricordo ancora.

Tre anni, sembra incredibile.

Come vola il tempo quando non ci si diverte. Quando ogni fibra del tuo essere, ogni minuscola particella d’energia che gravita nel tuo corpo è tesa verso un solo obiettivo, un solo amore.

L’amore che quelli come te non meritano. L’amore che capita una volta nella vita, quello che nel Trecento veniva cantato dai poeti. Ma io non sono un poeta. Sono una puttana, sono una stronza, sono tutte queste cose, ma di certo non sono un poeta. Allora mi chiedo perché è successo a me e non ad un’altra. Perché mi sono innamorata del tuo cappotto nero, e di quella sciarpa bianca che ti ostinavi a portare fino a primavera. Eppure, conciato così, ricordavi Bela Lugosi ai tempi dell’Uomo Ombra, o David Copperfield, il mago, durante un trucco di scena. E anche i tuoi occhi erano un trucco, Andrea. Sembravano così intensi, così profondi, quando invece erano vuoti. Vuoti, come vuoto è il baratro che si apre ai miei piedi, ogni volta che un amico mi fa il tuo nome, ogni volta che m’imbatto in una tua fotografia. Già, le fotografie. Quelle sono la cosa peggiore. Mi sento impazzire quando, dal fondo di un cassetto, fa capolino la tua fronte alta, o la bocca che ho baciato avidamente, la stessa bocca che poi mi ha detto parole tanto dure.

Tu hai riso del mio amore, Andrea. Ed io ho passato questi ultimi tre anni ad augurarti tutto il male possibile, a maledire ogni tuo passo, ogni tuo gesto. Perché non hai capito niente. Perché senza di te, mi era impossibile anche respirare.

Tu eri la mia aria. Eri la mia vita, il mio spazio, il mio tempo. Eri il cielo stellato che osservavo da bambina, eri il colore sulle pareti della mia casa, il profumo del pane appena fatto che mi svegliava al mattino presto.

Tu eri tutte queste cose, e non lo hai mai capito.

Hai scelto di andare per la tua strada, come oggi io vado per la mia. Tra poche ore, prenderò il treno che mi porta via da questa città, da quest’Emilia che ci ha fatto incontrare. Tornerò a casa e riabbraccerò i vecchi amici. Mi ubriacherò, mi divertirò, e dimostrerò a me stessa, una volta per tutte, che alla fine sei tu quello che ha perso.

Tu hai perso me, non il contrario. E con me, hai perso tutto il resto. Hai perso un amore che non meritavi. E hai perso anche il tuo compleanno, gli auguri, e la festa.

Finalmente, sulla Gazzetta di Parma vedo anche il tuo nome. L’inchiostro viene via e non si legge bene, ma mi pare di capire che non è stata colpa dell’alcol, quanto della roba che hai preso. È quella roba che ti ha ucciso, Andrea. È stata l’eroina, non l’intruglio che hai bevuto. C’è scritto qui, a caratteri piccolissimi. Ma in queste righe non si parla dei tuoi demoni, della tua paura di vivere. Queste righe non spiegano la tua incapacità di essere felice, ed il dolore che, invece, sei in grado di dare a chi ti ama. Sei solo un tossico da terza pagina che ha sfondato il guard rail, uno dei tanti.

La Gazzetta non dice che ieri era il tuo compleanno. Dice solo il nome del cimitero dove ti hanno sepolto. Quello è scritto in grassetto.

Cristiana Danila Formetta

Questi uomini

«Continui a toccarti l’occhio, ma ti fa ancora male?»

«Solo quando cambia il tempo. Ma devo confessarti che quello che mi brucia di più è l’orgoglio ferito.»

«Pensi sempre a lui, vero?»

«Si, sempre. Come ho fatto a credergli? Non riesco a perdonarmelo. Se ripenso alla figura che ho fatto, mi sento l’emblema della stupidità.»

«Non pensarci, capita a volte di dare fiducia a chi proprio non se lo merita.»

«E come faccio a non pensarci? La nostra storia ha fatto il giro del mondo. Tutti la conoscono e ridono della mia ingenuità.»

«Se è per questo anche la mia storia con quell’altro la conoscono tutti.»

«Si, ma tu ne esci bene.»

«Non ne ho mica la certezza assoluta, sai.»

«Meglio di me sicuramente, alla fine la tua vittoria è inequivocabile.»

«Vittoria inequivocabile dici, vorrei averne la sicurezza. Non ho avuto quella sensazione quando la nostra storia è finita. All’inizio mi sono sentita così sollevata. Quell’uomo era davvero esasperante. Ossessionato da me. Mi ha inseguito dappertutto. Le altre non le guardava proprio. Voleva solo me. Davvero, non ce la facevo più.»

«Questi uomini, questi piccoli uomini.»

«Piccoli uomini, si. Quando ti si avvicinano sembrano esseri trascurabili, senza importanza e invece riescono a condizionarti la vita. Non riesci a sottrarti loro facilmente.»

«A volte riescono anche a rovinartela la vita, come nel mio caso. Quello che ho incontrato io non dovevo proprio sottovalutarlo. Eppure mi sembrava piccolo, indifeso, alla mia mercé, così come tutti gli altri. Mi piaceva sentirlo parlare, mi piaceva sentire come si aggrappava alle parole. Ognuna che pronunciava, per lui era un attimo in più di vita che guadagnava. Lui lo sapeva e le sapeva usare. Con quelle sue belle parole mi ha raggirato. Avrei dovuto schiacciarlo subito, come ho fatto con tutti gli altri.»

«E’ vero quello che dici. All’inizio questi piccoli uomini sembrano quasi indifesi. Le prime volte, quando li vedevo avvicinarsi a me, cosi minuscoli da sembrare inermi, provavo quasi imbarazzo per loro. Poi, sentendo le prime punzecchiature, ho cominciato a rivoltarmi infastidita e li gettavo via senza badare loro più di tanto. Ma ho dovuto imparare subito a non sottovalutarli. Se li lasciavo fare mi avrebbero mangiato viva.»

«Ti confesso che ero io che li divoravo. A volte mi sembrava di essere un mostro senza cuore, ma quando ho fatto i conti con la crudeltà di quell’uomo, è stato facile rendermi conto che la mia mostruosità era controbilanciata dalla sua capacità di essere spietato e cinico. Accecarmi così, mentre dormivo, è stato oltretutto vile, un atto da vero codardo. Ma quello che più m’ha offeso è stato prendersi gioco di me, mentirmi e farmi fare una figura da imbecille anche con la mia famiglia. Quante bugie mi ha raccontato. Io pensavo di essere crudele, in realtà i miei erano giochi da bambini in confronto alle innumerevoli sofferenze che mi ha inflitto.»

«Anche io sono stata dipinta come un mostro inumano, feroce e assassino, come se fossi stata io ad andare a cercarlo. Ma tutti, proprio tutti, sanno che era lui che mi inseguiva, non mi lasciava in pace, studiava i miei percorsi per darmi la caccia. La sua fine se l’è voluta lui, l’ha desiderata, l’ha invocata. Aggrappato a me fino all’ultimo istante, se avesse potuto mi avrebbe strangolato. Sono sicuro che fosse proprio la morte che desiderava, legato a me per l’eternità a ricordarmi quanto mi aveva desiderato e quanto aveva sofferto per me.»

«E’ stata la sua pazzia, la sua ossessione a causare la sua morte. Tu non hai nessuna colpa, anzi ne esci vincente alla fine. Invece nella mia storia sono io lo sconfitto.»

«Che senso ha chi ha vinto e chi ha perso ormai, Polifemo? Tutto passa, il tempo scorre, sia per noi mostri che per loro, i piccoli uomini che hanno incrociato il loro destino con il nostro. E anche io devo confessarti che, adesso che non c’è più, a volte, quando sono immersa nelle profondità dell’oceano, sento la sua mancanza e istintivamente salgo in superficie con l’inconfessata speranza di vedere ancora una volta le vele del Pequod. Scruto l’orizzonte tutto intorno. Poi spruzzo in aria tutta la mia solitaria delusione e mi immergo di nuovo. Beviamoci su. Alla salute.»

«Alla salute, Moby.»

Pasquale Bruno Di Marco

Femmina Fumante

FEMMINA FUMANTE

C’è un proverbio delle mie parti che dice: “Le sigarette sul tavolo e le ragazze a letto non si chiedono: si prendono”. Tutte le ragazze delle mie parti conoscono questo proverbio, dice Lubitsch: mi venga un colpo se questa sera non ti facciamo bagnare il biscottino.

E’ un proverbio squallido, Lubitsch. E’ maschilista, machista, sessista, sembra la pubblicità di un deodorante spray degli anni ‘80. Ma le vostre donne non si stancano a essere trattate come sigarette?

Cugino, la femmina vuole essere corteggiata, sì, come tutte, portala fuori, paga da bere, guida la macchina. I fiori: anche no. Tenere aperta la porta della gelateria: anche sì. Però, ecco, a letto puoi fare a meno di essere gentile.

A loro piace così?

A loro piace così.

Che filosofia triviale” (cit.). Sembra quella canzone, Teorema, “prendi una donna/trattala male…”.

Non esistono leggi in amore, cugino, e io non lo so come siano le donne italiane, belle sono belle, però chissà, chissà se posso prendere una sigaretta senza chiederla, con le donne italiane.

Ci vuole confidenza, cugino. Devi solo capire se puoi permetterti certe mosse.

Confidenza, sì. Però ci vuole tempo, tempo per prendersi le misure: una, due, tre volte. Alla quarta, forseforse, puoi smettere di chiedere le sigarette.

A volte mi viene da essere maleducato subito, cugino Lubitsch. Stamattina aspettavo il treno per tornare in città, non avevo libri da leggere, nemmeno la musica, nemmeno i giornali gratis. Un quarto d’ora da aspettare così è lunghino. Allora mi giro a destra e mi innamoro, perché c’è una ragazza. E’ bella nella bocca e nel collo, ha i capelli neri e un orecchino solo, a sinistra, nella cartilagine dura. O forse ce l’ha anche dall’altra parte, che ne so: le vedo solo mezza faccia e mi basta, diobono se mi basta, e magari è la noia però m’innamoro in un quarto d’ora, magari se avessi le cuffie mi farei i fatti miei, ma le cuffie ce le ha lei, e io la guardo e distolgo lo sguardo e lei accende l’iPod e mi guarda e distoglie lo sguardo e inizia a muovere la testa, cugino, ti giuro che avevo il respiro corto, e va a finire che…

Che?

Niente: ci guardiamo a turno, e mai negli occhi. Però io inizio a ridere, anzi: a sorridere. E anche lei. Anzi, no, lei no: lei fuma ed è bella quando fuma, e io non posso farci niente se mi piacciono le fumatrici, a me che non fumo, mi piacciono, non mi dà fastidio l’odore, forse mia madre dovrebbe saperlo, è un motivo stupido per innamorarsi di una ragazza, lo so, e poi fumare in gravidanza fa male, ma se vuoi un figlio lo sai, smetti. Ricomincerai: avrai quarant’anni e un figlio adolescente, e tuo figlio ti racconterà i suoi casini molto più volentieri se potrete fumare una sigaretta insieme, in cucina, con il caffè, come nei film.

Poi è arrivato il treno.

Poi arriva il treno, sì: io scendo dal muretto liscio e mi metto la giacca e lo zaino. Lei va a buttare la sigaretta in un bidone. Io le guardo il culo. Torna, il treno ormai è fermo, i nostri occhi si incontrano per la prima volta: io faccio lo stesso sorriso che sto facendo da dieci minuti, e lei mi guarda, finalmente mi guarda, ci guardiamo: lei, dal basso in alto, iridi crepate di una che ha voglia di Pal Mall Blu alle dieci del mattino, chissà cosa racconti a tua madre in cucina, occhi verdi com’è verde la legna giovane, mannaggia a te, non potevi avere due occhi normali? Adesso mi tocca dirti qualcosa, chiederti che cosa stavi ascoltando, o forse potrei scroccarti una sigaretta, ma non fumo, e come faccio a sapere se posso fare a meno di essere gentile?

C’è un proverbio delle mie parti che dice: “Le risposte sono come il caffè: ci vuole tempo”.

Ma ci sono solo caffè e sigarette nei tuoi proverbi, Lubitsch? Ecco perché hai i denti gialli.

E insomma, alla fine, tu e la tipa del treno non vi siete detti niente?

No.

Bravo cugino: guardale e fatti venire una gran voglia e poi non prenderle mai, ci fai più bella figura.

E quando troverò l’amore, cugino Lubitsch?

E’ come il caffè, cugino: ci vuole tempo.

Simone Rossi