Ti amo ancora

Riportiamo un racconto di Pierluca D’Antuono, bassista dei Vigo, del quale speriamo sentirete ancora parlare in qualità di scrittore (noi lo sappiamo che ha un bellissimo romanzo che attende di prender forma, per adesso solo abbozzato tra pagine e pagine di appunti vergati a penna, e che deve solo trovare il tempo e la forza per scriverlo).

Per primo è toccato ad Annio, poco più di un anno fa. Lo hanno trovato ai Cerchi freddo duro e sorridente. Sembrava uno scherzo o un tragico incidente. Hanno fatto di tutto per non farci capire niente. I grandi non ci dicevano nulla, appena ci vedevano cambiavano discorso o stavano zitti. Abbiamo cercato di vederlo ma non ce l’abbiamo fatta. Lo hanno portato subito via e hanno pulito tutto. Sangue a terra non c’era, era difficile capire il posto preciso dov’era.

Tutti pensavano a un caso isolato, tranne noi. Era troppo strano ma noi capivamo. Qualcuno a Castel Sinone stava ammazzando i nostri amici. E io e Nina abbiamo cominciato a cercare.

A Castel Sinone siamo milleeduecento. Siamo quasi tutti parenti. Sono tutti vecchi tranne quelli della mia scuola. Non ci sono edicole e i nostri genitori non ci fanno più vedere la televisione, da quando l’anno scorso è capitato il famoso caso di Alfredino il bambino che è caduto nel pozzo. E ora è anche peggio con quello che sta succedendo.

Anche io e Nina siamo parenti, le nostre mamme sono sorelle. Ma è solo un anno che stiamo sempre insieme. Prima io stavo con mio fratello Benito e i suoi amici grandi. Hanno tutti 18 anni e non vanno a scuola. All’inizio stavo bene mamma mi faceva uscire a tutte le ore con loro e usavamo la macchina di Gabriele. Era bello nei campi e in campagna e qualche volta mi hanno fatto pure guidare. Poi è successo che hanno cominciato a chiedermi dei giochi che non mi piacevano e non capivo perché dovevamo fare. La lotta è uno di quelli.

Dopo Annio c’è stato Michele. Un giorno comincia a non venire più a scuola ma nessuno dice niente. Io e Nina andiamo a casa sua era tutta chiusa e spenta. Vicino alla porta sentivamo la mamma che piangeva. Il padre si è accorto di noi e ci ha tirato una pietra. Le maestre hanno detto che Michele era andato a stare dai nonni in città, e per ora non tornava o forse non tornava proprio. Noi non ci crediamo e per sapere andiamo ai Cerchi, ma pure questa volta non c’è niente da vedere.

La lotta è diventato uno di quelli che tutti mi toccavano e stringevano e poi alla fine mi chiedevano di togliermi le mutande. Le toglievano anche loro e dovevamo toccarci. Poi hanno cominciato a dire che con le mani non era più divertente. Proviamo con la lingua hanno detto a mio fratello.

Nina ha capito subito che succedeva qualcosa perché ora i Cerchi sono sempre puliti. Prima neanche potevamo entrare. Dico perché a terra era tutto pieno di vetri bottiglie siringhe e immondizie. Questo è il posto più nascosto del paese e qua ci vengono a stare tutti. Doveva essere lo stadio del nuoto ma dopo che c’è stato il famoso terremoto non lo hanno più finito. Poi è successo che hanno arrestato tutti i politici del paese per i soldi che sono spariti e ora nessuno può decidere se finirlo o toglierlo proprio.

Io con la lingua proprio non volevo ma loro hanno insistito e hanno detto che almeno una volta dovevamo provare, una volta soltanto. Io ho chiesto almeno non tutti e loro hanno scelto mio fratello hanno detto che era meglio ma mentre lo facevo non mi piaceva per niente e gli ho dato un morso. Lui ha urlato poi si è girato per un po’ è stato di spalle e faceva strani versi. Quella è stata l’ultima volta che stavo con loro.

Vado via piangendo ma senza farlo vedere sennò ricominciano.

Nina è più grande di me di un anno, ha 12 anni. A lei soltanto ho raccontato questo perché una volta mi ha detto che anche a lei è successo quando era piccola che suo padre la sera la mamma la metteva a letto e poi lui andava a salutarla e l’accarezzava toccava baciava leccava stringeva tappava il naso e la bocca le tirava i capelli e le mordeva la schiena. Lei faceva finta di dormire perché pensava che lui la smetteva. Una volta è rimasta cogli occhi aperti ma suo padre le ha detto chiudi gli occhi Nina è più bello se dormi.

Anche Nina è stata fortunata come me perché suo padre poi ha smesso. È stato quando è nata la sorellina Adelina tre anni fa. Il padre è impazzito per lei e ora a Nina non la guarda nemmeno. All’inizio era un po’ triste ma poi ha pensato che era meglio così.

Anch’io ho una sorella più piccola e un altro fratello oltre a Benito. Ora è tanto che è andato via di casa, è stato circa cinque anni fa, nel 1977. Io non ho capito bene ma mia cugina Cesira a scuola mi ha detto che suo padre dice sempre che mio fratello è un terrorista ed è andato a Roma per uccidere i politici e fare come la Russia. A casa non possiamo parlare di Adolfo. Una volta al mese arriva una telefonata che sta zitto e non dice niente ma mia madre piange e capisce che è lui. Mio padre invece non è così che la vede a lui non gli piace e basta. Dice sempre meglio morto che rosso. Lui preferisce i fascisti. In casa abbiamo il busto di Mussolini e mio padre ha fatto la guerra infatti era paracadutista. Lui vuole che pure a noi ci piaciono i fascisti. Voleva convincere pure Adolfo, in quanto Benito non capiva perché è un po’ scemo e comunque diceva che già lo era. Ma Adolfo era contrario. Con alcuni suoi amici di Selce faceva delle riunioni e faceva le scritte rosse sui muri del paese. Una sera dopo una di queste riunioni mio padre con i suoi amici è andato a prenderlo e lo ha portato ai Cerchi. Lo hanno picchiato tutti insieme per fargli capire. Mio padre diceva lascia stà i comunisti a casa mia non esiste. A un certo punto zio Michele lo ha fermato perché Adolfo non si muoveva più. Lo hanno lasciato davanti all’ospedale di Selce. Da quella volta Adolfo non è più tornato a casa. Una settimana dopo mio padre ha trovato davanti alla porta una busta con sei proiettili e un po’ si è spaventato. Da allora non si sono più parlati. Ora mio padre quando parla con qualcuno dice che ha tre figli, Adolfo non lo conta più. A me mi dispiace perché Adolfo era bravo non come Benito e neanche come mio padre.

In estate sembrava che non moriva più nessuno ma poi è stato il turno di nostra cugina Maria. Quella volta io e Nina eravamo ai Cerchi. Stavamo giocando e poi Nina ha visto mio fratello Benito che si muoveva vicino ai tronchi morti. Guardava per terra e ha raccolto qualcosa poi è andato via senza vederci. Abbiamo aspettato che si allontanava e poi Nina è corsa solo per guardare e ha urlato. Maria era immobile schiumava dalla bocca ed era bianca sacrificio come non immaginavamo si poteva. Non sapevamo che fare è stato come vegliare una domenica mattina in chiesa ma per una cosa più vicina e seria. Un’ora dopo Nina si è alzata la luna incendiava già il cielo che stava per crollare da un momento all’altro esplodeva abbiamo corso la distanza che ci separava dalla prima casa di grandi e mezz’ora dopo hanno tolto Maria. Io pensavo che erano tutti contenti con noi che avevamo fatto una scoperta buona da adulti e invece ci hanno castigato sgridato e pure picchiato che infatti per i segni non potevamo neanche andare a scuola.

È da allora che io e Nina stiamo sempre insieme.

La prima volta con Nina non l’ho mai dimenticata. Eravamo a casa sua. Al piano di sotto c’era solo il padre con Adelina. Dalla finestra stavamo spiando nostra zia Adriana che stava a letto con uno che era uguale a Don Alfio ma era senza tonaca. Per me non era lui ma Nina era sicura perché ha detto che non era la prima volta che li vedeva. Lui aveva i vestiti mentre lei era nuda ma a un certo punto si è messa una busta di plastica in testa e ha cominciato a fare la pipì per terra. Nina rideva io guardavo più lei che loro perché avevo come una paura a vederli un peso sul petto che mi faceva respirare male. Nina si è accorta che la guardavo e si è avvicinata continuando a fissare zia Adriana. Più era vicina più quel peso che sentivo diventava forte ma era anche bello era come un dolore che non faceva tanto male. A un certo punto si è girata verso di me deve essere stato un attimo fortissimo che dura all’infinito e allora mi ha preso la mano. Io l’ho lasciata fare poi mi ha cominciato ad abbracciare. Nina era davvero bella e mentre lo pensavo mi ha passato le mani su tutta la schiena e allora quel peso che avevo si è come sciolto in un bruciore sotto la pancia nello stomaco che si muoveva sopra e sotto dentro e sotto si muoveva bene. Nina mi accarezzava i seni e mi dava dei baci sul collo poi mi ha detto che ero bella e che le piacevo un sacco e a quel punto ci siamo baciate sulla bocca muovendo forte la testa e ci toccavamo dappertutto e ci stringevamo molto. Nina mi accarezzava la testa e poi mi ha tirato i capelli e mi ha morso un labbro mi ha fatto male e mi sono arrabbiata ma lei ha detto che era solo per provare che forse era più bello. A un certo punto abbiamo sentito la mamma di Nina che entrava in casa e dopo un po’ ha cominciato a gridare ce l’aveva col padre gridava fortissimo e gli tirava tutto litigavano di brutto ma il padre non diceva niente. Nina ha detto che era strano che non parlava e allora voleva andare a vedere. Siamo scese ma ci siamo nascoste in un ripostiglio sulle scale. La mamma piangeva faceva davvero casino aveva in braccio Adelina e l’accarezzava dietro. Lui provava ad avvicinarsi e allora la mamma impazziva, tirava qualsiasi cosa trovava, mancava solo la bambina. Quando ha tirato un posacenere pesantissimo che è andato contro la tv e ha spaccato tutto, Adelina ha cominciato a urlare e noi ci siamo spaventate. Allora ho preso Nina per mano e ci siamo abbracciate e baciate e le mi ha detto ti amo ancora più di prima e abbiamo ricominciato come in camera mentre la zia ha cacciato di casa lo zio e pure dalla finestra gli tirava le cose.

La sera della finale dei mondiali tutto il paese era ai Cerchi. I genitori hanno organizzato come una grande festa con le salsicce e la brace e tante cose da bere. C’erano tutti i nostri amici e le nostre amiche. Era da un po’ che non capitava più niente e infatti ora qualche grande era più tranquillo perché pensava che tutto era passato come se non era mai successo niente. Quella sera c’erano anche Benito e i suoi amici che ogni volta che vedevano me e Nina facevano un risucchio con la bocca tipo un bacio strozzato per prenderci in giro e per tutto il tempo sono stati vicini a noi bambini che eravamo in disparte perché la partita non ci piaceva. Benito stava sempre insieme a Orlando, il fratello di Nina, erano i capi del loro gruppo, i più forti e rispettati. Quella sera i Cerchi erano silenziosissimi, si sentivano solo le radioline e le urla dei tifosi, erano tutti attentissimi ma a un certo momento abbiamo visto Orlando e Benito che se ne andavano correndo, inseguivano Graziella ma nessuno ci ha fatto caso. Nina si è alzata per seguirli, io non avevo voglia ma siamo andate lo stesso. Orlando e Benito correvano troppo per noi e infatti li abbiamo persi e siamo tornate indietro. La partita era finita ma i grandi erano preoccupati perché non trovavano Graziella. Ci siamo messi a cercarla finché qualche genitore ha detto che noi piccoli dovevamo tornare a casa. Graziella non l’hanno mai trovata e la mamma è impazzita.

Noi pensiamo che Orlando e Benito sanno cosa sta succedendo ai nostri amici, ma per ora non possiamo parlare ai nostri genitori perché tanto danno la colpa a noi e ci picchiano. L’idea di quello che faremo è venuta a me, ho convinto Nina. Ieri abbiamo chiesto a Orlando e Benito se possiamo andare con loro ai Cerchi. Facciamo che vado prima io e dico che lei non c’è, poi quando loro cominciano esce Nina. Per questo abbiamo rubato a casa un coltellino svizzero e una chiave inglese di mio padre. Quando siamo sicuri di quello che sanno o quello che fanno li uccidiamo poi scappiamo e scriviamo una lettera anonima a tutti i grandi del paese. A quel punto però non possiamo più tornare. Nina vorrebbe rimanere nascosta tutto il tempo. Ma io ho pensato che sarebbe bello andare a Roma da mio fratello Adolfo. Mi piace l’idea di andare da lui che se vuole possiamo aiutarlo a fare come la Russia la rivoluzione in cambio di niente.

In cambio di un posto dove io e Nina possiamo stare insieme per sempre.

Qui non vogliamo più restare.

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Clandestina

Quella che segue è l’introduzione a “Clandestina” (Effequ, 2010), un’antologia curata da Federico Di Vita ed Enrico Piscitelli, che raccoglie «uno spaccato della produzione letteraria proposta dai migliori blog collettivi e riviste on-line del nostro Paese».

 

Un giorno al Giglio ho conosciuto un vecchio che al Porto non c’è andato mai. Vive in cima al Castello e per andare al mare è sceso sempre dalla parte di Campese. E non c’è andato neppure troppe volte al mare, per uno che ha spaccato pietre tutte isolane. Il vecchio non si è allontanato mai dal Giglio. Al Castello c’è una comunità che gioca a mattonella, prepara il panficato e ha nomi senesi: Aldi, Pini e Landini. Sono i figli di quelli che hanno piantato a vigna le greppe dopo la razzia del ’500, che le aveva lasciate abbandonate. Contadini, figli di contadini. Alla fine del ’700 altri pirati attraccavano a Campese, risalivano la collina pronti a mettere a ferro e a fuoco un’altra volta l’isola (non che nel frattempo non si fossero più visti), ma la nuova aggressione fu respinta, e i corsari decimati non tornarono più. Da quel giorno al Porto nacque una comunità, pescatori che seguivano le rotte del pesce azzurro, da nord o da sud, genovesi e campani. Parlavano dialetti diversi, avevano altre abitudini. Vivono lì da due secoli. Il vecchio, che avrà più di cento anni e che non è uscito mai dall’isola, ha fatto il possibile per non incontrarli mai.

Una volta a Londra c’era un’importante partita di pallone. Era un quarto di finale di Coppa dei Campioni e l’allenatore della squadra di casa era squalificato. I giocatori del Chelsea Football Club una partita così non l’avevano giocata mai, e l’allenatore, che era Mourinho, per non lasciarli soli, invece di starsene in tribuna si infilò nel cesto dei panni sporchi nello spogliatoio. Ci rimase tutta la partita e i giocatori lo trovarono lì nell’intervallo. Durante l’incontro comunicò con la panchina via sms e per spiegare le tattiche fece arrivare ai giocatori dei pizzini. Il Chelsea vinse 4-2.

Un’altro giorno ancora un ragazzo scappava scavando a bracciate le acque del Tigri. Si chiamava Abd-ar-Rahman e non era un giovane come gli altri, era un principe. Le frecce avvelenate fischiavano senza centrarlo, scappava da Damasco. La sua stirpe veniva sterminata. E mentre si apprestava alla sua vita da fuggiasco ancora non poteva immaginare che dopo aver corso come un keniota lungo tutto il Maghreb sarebbe giunto in Spagna, in Andalusia, e lì, da esiliato e migrante sarebbe tornato principe, e avrebbe fatto di Cordoba la capitale del regno più splendente al mondo.

Un’altra storia l’ho letta in un libro. Ad Hanoi c’è la statua di un soldato in ginocchio, “con le mani alzate e gli occhi impauriti”. Il pirata dell’aria era sui cieli del Vietnam quando il suo aereo veniva colpito e lui dovette premere il tasto di espulsione. L’esplosione che lo catapultò in aria – è una piccola carica di dinamite a farti saltare fuori da un caccia in picchiata – gli ruppe tutte e due le gambe e un braccio. Dopo di che fu catturato dai nemici, da quelli che lui considerava nemici, insomma dagli altri. Per la precisione cadde in un laghetto nel centro di Hanoi, dove “i piloti di cacciabombardieri erano particolarmente odiati, per ovvie ragioni”. I vietnamiti, i civili, nuotavano nel lago per andarlo a massacrare. Un soldato nemico lo trafisse all’inguine con una baionetta. Un altro gli spaccò una spalla. Poi fu tenuto in cella per alcune settimane, dopo le quali un medico gli ricompose un paio di fratture senza nessuna anestesia. Non tutte, un paio. Il soldato, che ormai è un vecchio, ancora oggi non riesce ad alzare le braccia sopra la testa. Il suo peso scese a 45 chili, gli altri prigionieri erano certi che sarebbe morto. Delirava, per il dolore. Un giorno, mesi dopo, quando il prigioniero riusciva appena a stare in piedi, venne portato nell’ufficio del comandante nemico. Quello gli disse che era libero, poteva andarsene. Saltò fuori che suo padre – il padre del soldato – era diventato il capo delle forze navali americane, e l’idea dei vietnamiti era liberare il figlio, in quello che potremmo definire uno slancio di Realpolitik. Il soldato rifiutò. “A quanto pare il Codice di condotta per i prigionieri di guerra diceva che i prigionieri andavano liberati nell’ordine in cui erano stati catturati”. Il nostro uomo rifiuta di violare il codice. Il comandante non gradisce e gli fa rompere lì, nel suo ufficio, le costole, e gli fa ingoiare i denti. Quindi ripete il suo invito. Il soldato rifiuta ancora, o con gli altri o niente. L’uomo, che rimase altri quattro anni in una stanza grande come il vano di un camino, è l’ex candidato alla Casa Bianca John McCain.

Altre storie finiscono in relitti di gommoni in fondo all’Adriatico o nei centri di espulsione di Lampedusa o di Ponte Galeria. Alcune galleggiano negli sguardi concentrici di una pittrice in manicomio, o in quelli di terroristi, che non sanno ciò che fanno; o di migranti, che non hanno scelta. Di queste storie comincia a essere fatto ciò che resta di questo Paese, le cui risorse e le cui pulsioni migliori cominciano a essere relegate allo stato di clandestinità. La speranza è che trovino spazio. La differenza, tra le quattro raccontate qui sopra e quelle che cominceranno una volta girata la pagina, è che le storie che state per cominciare sono più vive, più belle.

Federico Di Vita

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 23

[Segue da qui]

Per quanto gli animali si dannassero nel rifornire con celerità i loro compagni, fu chiaro fin dall’inizio che quel diversivo avrebbe avuto vita breve. Le forze dell’ordine esibirono in fatti il loro corredo di scudi in plexiglas, col quale ripararono anche i politici e i giornalisti, che da dietro quel bel paravento tuonarono altre minacce condite con frasi di convenienza.

In un momento di pausa – ché d’altronde gli artisti, tra alcool e fumo, di fiato ne tenevano ben poco – dallo schieramento uscirono un paio di ardimentosi volontari, imbottiti di tutto punto e muniti di tenaglie, con le quali si apprestarono a rompere i catenacci che tenevano chiuso il colorato cancello della Repubblica indipendente.

Il nemico avanzava, spronato anche dalle parole del Presidente, che dal megafono lanciava la promessa di detassare gli straordinari per incentivare l’iniziativa dei suoi soldati. Più l’azione si faceva serrata e più le sparate aumentavano di calibro: si parlò di abbattere l’ici sulle seconde case di tutti i familiari di primo e secondo grado appartenenti all’arma, mentre ai giornalisti, per tenerseli buoni, venne fatta solenne promessa di ristabilire la libertà d’informazione. Addirittura, pare venne persino ventilata l’ipotesi di sconfiggere alcune tra le più gravi malattie che da decenni flagellano il corpo umano.

Insomma, tutti, dagli operai agl’imprenditori, si strinsero intorno al proprio governo nella caccia agli spietati parolieri, che non possedevano la necessaria e cieca fede per risollevare le sorti del mondo. Grazie alla magia del montaggio e all’arte dell’inquadratura, le televisioni seppero poi fare il resto: quella trasmessa in diretta sembrò ai più una vera e propria azione di guerra, necessaria per sventare la minaccia di una nuova terribile banda di terroristi.

Messi alle strette, con tutto il popolo contro, gli scrittori si decisero a usare quella che da sempre è la loro arma migliore, l’unica che avrebbe potuto ancora salvarli: la parola.

A tal proposito, il vegliardo intellettuale teneva in serbo un’arma segreta, di cui nessuno, neanche la fidata compagna, era a conoscenza. Egli raccontò ai suoi compagni che nascondeva in una stanza un grosso baule, dove erano stipate centinaia di copie di libri insulsi, ch’egli andava sequestrando in giro. In pratica, l’uomo aveva passato diversi anni a convincere le persone che uscivano dalle librerie con in mano un’opera, a suo dire indegna, ad accettare il cambio che proponeva loro: un altro libro, la cui lettura avrebbe cambiato per sempre la loro vita, purché avessero acconsentito a consegnargli la porcheria che avevano appena acquistato, attratti più dalla pubblicità che dal vero contenuto dell’opera.

“Finalmente”, esordì l’artefice della Repubblica indipendente, “è giunta l’ora di dare un senso a tutta questa robaccia!”.

Insomma, il piccolo battaglione si sbizzarrì non poco nel rendere utili quei libri. Di alcuni strapparono le pagine, intrise di pessimo romanticismo e retorica da quattro soldi, per farne delle grosse palle di carta a cui dar fuoco. Di altri usarono invece i dorsi, che con i loro spigoli erano armi contundenti alquanto dolorose.

Mentre si provvedeva al lancio di palle infuocate e di copertine rigide, il canuto autore di satira si lasciò andare a teneri ricordi: “Non avete idea, voi altri, di quanti Bianciardi, Gadda e Landolfi sia riuscito a far leggere con questa semplice tecnica pedagogica…”.

Simone Ghelli

Come avrete intuito, questa storia non finisce qua, ma l’autore si riserva d’infliggervi quella giusta punizione chiamata attesa, che renderà ancora più gradita la lettura quando i pezzi della vicenda saranno stati rimontati a dovere, come si conviene a ogni finzione che si rispetti. Nel frattempo, tutto questo potrebbe essere accaduto davvero…

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 11

[Continua da qui]

Il riferimento al bello ci è utile anche per comprendere l’univocità di genere caratterizzante il gruppo, che non era certo costituito di soli maschi per una forma di maschilismo o di misoginia – o almeno ciò non sembra emergere dai loro scritti – ma piuttosto perché essi erano accomunati da tratti fisici non proprio ripugnanti, ma sicuramente non piacevoli. A vederli nelle foto che si son divertiti a scattare durante il viaggio, emerge anche una certa sciatteria nell’abbigliamento e nelle posture, che addizionata al venir meno del cosiddetto fascino dello scrittore in un’epoca poco avvezza ai libri, ci dà la soluzione al quesito sull’assenza delle donne in questa combriccola.

E questo dev’esser stato sicuramente un altro chiaro motivo di frustrazione, che ha spinto i cinque, bombardati da una continua pioggia ormonale, a riversar la loro carica su altri obiettivi, e in particolare su quello assurdo e grottesco di rubare le parole al Presidente. Detto così, potrebbe sembrare un gioco letterario, una sorta di gara di retorica, ma dietro questo slogan un po’ naïf, questi terroristi del verbo nascondevano ben altri intenti.

Per niente sfiancati dalla prestazione bolognese, essi ripresero infatti la marcia verso nord, in direzione della capitale ambrosiana, e fu probabilmente durante quel viaggio che iniziarono a pianificare la loro strategia. Se nelle tappe precedenti il significato del loro discorrere sembrava ancora tutto compreso nell’universo letterario, durante la serata milanese sembrarono emergere degli elementi nuovi, che ci permettono di leggere in chiave ideologica anche certi passaggi dei loro scritti. Non parlo della trita propaganda di cui erano intrisi da cima a fondo i loro testi più impegnati, ma degli altri racconti e poemetti per così dire d’evasione, che nascondevano invece una critica ben più radicale al sistema in cui si andavano muovendo. V’era inoltre in quel loro modo un po’ sornione e testardo di stare sul palco nonostante tutto – i brusii, i movimenti, persino lo svuotarsi degli spazi – un irriducibile e caparbio residuo d’utopia, che si pensava ormai spazzata via grazie ai soporiferi talk show televisivi e all’informazione precotta che si vendeva un tanto al chilo.

Tutto ciò emerse chiaramente in quel di Milano, dove i nostri sembravano dei bambini in gita, e come questi non si risparmiavano in critiche da bar legate a un po’ di sano campanilismo: la prima delle quali fu di carattere meteorologico, ché chi vive a Roma s’affeziona al sole e al cielo della capitale, e per queste due qualità subisce volentieri il peso di tutte le altre angherie della città dei ministeri. Insomma, gli è che anche sotto un cielo terso, ai loro occhi in quella città sembrava comunque tutto grigio, probabilmente per via di una visione viziata da anni di dicerie, al punto che l’immaginario inabissava la realtà a portata di mano.

Ma c’è un fatto che più di altri dimostra la presenza di una trama oscura dietro l’apparente sciatteria del progetto; un particolare non da poco che emerge da una delle fotografie archiviate dal quintetto, che ritrae un abbraccio sospetto ai piedi degli scalini del Duomo. Nell’immagine si vede chiaramente lo scrittore con attitudini alla lotta salutare due dei suoi compari di viaggio, in un modo che indica in maniera lampante la ricongiunzione dopo un considerevole lasso di tempo, e che desta molti dubbi sulla veridicità degli appunti ritrovati tra le loro carte. Come se il viaggio fosse insomma stato riscritto al suo termine, per raccontarci una storia un poco diversa da quella realmente accaduta.

Già vi sento obiettare che in fondo questo è il compito dell’artista, che s’ingegna nel rimescolare un poco gl’ingredienti di un piatto che siamo abituati a trovare servito e condito, e al cui sapore ci assuefacciamo facilmente e volentieri – nel nostro paese la televisione è in fondo servita proprio a questo: a presentarci sempre il solito menù, e non è un caso che stia caparbiamente accesa mentre la famiglia si riunisce a tavola per desinare.

Il compito di un buon degustatore – che sia lettore o spettatore non importa – è però quello di saper discernere quest’ingredienti, in modo che non corra il rischio d’esser caso mai avvelenato; perciò siamo arrivati al punto di dover sporcare un poco le nostre mani, per separare il buono dal cattivo, come in ogni opera che si rispetti.

Simone Ghelli