Racconti da #TUS2: collezionali tutti!

torino una segaConcludiamo oggi la pubblicazione dei testi dal reading Torino Una Sega 2. Chi è stato al Caffè Notte quella sera sa che è stato un reading molto partecipato, che ha visto nomi di rilievo del panorama letterario italiano, giovani/quasigiovani promesse e gli imprescindibili “slot superpazzo” (© Vanni Santoni). Nell’impossibilità di pubblicare tutti i testi (sono oltre un centinaio, se la memoria non ci inganna), ringraziamo tutti quelli che ci hanno inviato i propri, chi non ce li ha voluti dare e pure chi non ha risposto alle mail. Ringraziamo infine gli accademici: Raoul Bruni, che ha letto il Discorso di Firenze (1913) di Giovanni Papini, raccolto nel volume L’esperienza futurista; Effe, che ha letto La vita sessuale dei selvaggi di Bronislaw Malinowski; Francesco Ammannati, che ci ha deliziato con la lettera di Belisario Vinta, Primo segretario di Stato del Granducato, al Granduca Francesco de’ Medici.
Quello che segue è l’elenco dei testi da noi pubblicati, in ordine cronologico: Leggi il resto dell’articolo
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Broken Glass – #TUS2

scontri manifestazioneGabriele Merlini, che oggi ospitiamo, a Torino Una Sega 2 ha portato due testi: un brano da Il sangue degli Ashenden – Il condominio di Stanley Elkin, e questo Broken Glass

Cara vecchia tigre che dorme (afferrato il rimando?), permettimi di ricordarti come le cose andarono più o meno in questo modo. Poiché molto tempo è ormai trascorso e la memoria può giocare qualche scherzo. Dunque riassumiamo: si deve al tuo articolo che stamani ho avuto la sfortuna di leggere il tentativo di scrivere questa mia scimmiottando il tuo stile da pomposo bastardo. E se talvolta annusi stia superandoti in grazia e profondità beh, fammi il piacere di non polemizzare anzi spedirmi un bouquet di rose nella tana che da qualche lustro infesto in totale solitudine. Sarà gesto commovente e graditissimo. Ma veniamo al dunque.
È correlabile al ributtante trend adesso in circolazione – quello che spinge numerosi direttori di testata a infilare bei soldoni nelle tasche di sciagurati del tuo stampo – il pezzo odierno sui tuoi (i nostri) anni del liceo. Come se qualcuno potesse essere interessato ai particolari più luridi del percorso scolastico di un modesto scrittore di farse tipo te, assieme a un fallito bombarolo del mio stampo. Leggi il resto dell’articolo

L’Acheronte del nonno – #TUS2

cappelletti-in-brodo[Questa settimana l’appuntamento coi testi di Torino Una Sega 2 vede protagonista Jacopo Nacci. Jacopo ha letto un brano da Un tipo di realtà di Yu Hua, contenuto in Torture, il racconto inedito L’Acheronte del nonno, che proponiamo qui di seguito]

È il pranzo di Natale a casa dei nonni e sto pensando che, prima di riuscire a scappare per andare a imboscarmi con Jessica, trascorrerò almeno due ore con i miei e con nonna ad ascoltare i discorsi sul nonno e sul suo controverso desiderio di morire. Il nonno non partecipa al pranzo: da un anno e mezzo vive confinato nel letto della stanza in fondo al corridoio, mutilato degli arti andati in cancrena uno dopo l’altro in senso rigorosamente orario: braccio sinistro, gamba sinistra, gamba destra, braccio destro. Ora che la vecchiaia gli ha rattrappito il tronco, che sembra ormai quello di un bambino, – con il pigiamino celeste, a bozzolo, sempre più tagliato e ricucito, tanto che il taschino, che la ditta produttrice aveva progettato, secondo la norma, sulla parte sinistra del petto, si è spostato al centro – il nonno è sostanzialmente ridotto al suo testone pelato, con i suoi due ciuffi gialli dietro le orecchie.
Ammazzami, Clelia, dice il nonno ogni giorno. Leggi il resto dell’articolo

Nepente – #TUS2

nepenteIniziamo a pubblicare alcuni dei testi letti in occasione di Torino Una Sega 2. Cominciamo da Matteo Pascoletti, che a Firenze ha letto un estratto da La Peste di Camus e il seguente brano tratto dall’incipit del suo romanzo inedito Nepente.

Quando il Profeta inizia il vaticinio è davanti ai turisti seduti sui gradini della cattedrale di San Lorenzo, di fronte alla Fontana Maggiore in piazza IV Novembre.
Chiunque frequenti il centro storico di Perugia conosce l’uomo chiamato “Profeta”, dai concittadini stimato pazzo: un uomo magrissimo, il volto consumato dagli stenti, i capelli anzitempo canuti, lunghi e scarmigliati, lo sguardo coperto da ingombranti occhiali da non vedente; indossa una giacca di panno più larga di almeno due taglie, che spesso lo fa sudare come un febbricitante. Sotto la giacca indossa una maglietta bianca, sporca e consumata, e le gambe sono fasciate da jeans rattoppati alla bell’è meglio. Cammina senza esitare, a piedi nudi, mappe di carne su cui sono impresse distese di escoriazioni; è come se vedesse, eppure talvolta un passante è costretto a spostarsi per non urtarlo, compensando così la traiettoria del Profeta.
A giudicare da numero e qualità di aneddoti a riguardo, la presenza dei pazzi o presunti tali nel centro storico è un aspetto caratteristico di Perugia. Meriterebbe di essere narrata con dovizia di particolari la storia di quell’uomo che era solito percorrere le vie del centro storico a bordo di un letto a motore (sì, un letto a motore) e altre diavolerie che costruiva ispirato da chissà quale genio. In parte la città sta rimediando alle proprie lacune. All’uomo del letto a motore, per esempio, sono ora dedicati un premio per le invenzioni, un festival e un’associazione che cura il recupero di un patrimonio culturale altrimenti destinato all’oblio. Di recente una guida per turisti e studenti stranieri, diffusa nei locali del centro, ha dedicato un capitolo intero alle figure caratteristiche Leggi il resto dell’articolo

Il piccolo Michaux #3 – Editoriale

Il viaggio così come è andato veramente, almeno secondo Pier Paolo Di Mino.

Del resto non andare al Salone di Torino, con lo struscio in mezzo ai banchi, il chiacchiericcio da bar sport in salsa aulica, la festa di Minimum Fax, e tutte quelle strette di mano fra bella gente, è come non vedere il Festival di Sanremo: astrarsi dai piaceri delle vecchie casalinghe a cui non sono più rimasti nemmeno i rammarichi è un tirarsi fuori dalla mischia comunque pericoloso. E poi la bellezza non è mai gratuita, e, anzi, va estratta con fatica, magari trovandola nell’insolito. Leggi il resto dell’articolo

DEL SALONE DI TORINO, DEI CANNOLI DI CATANIA E DI ALTRE CLAMOROSITA’

Quello del duemilaotto è stato il mio primo Salone del Libro, a Torino.

Ero salito per presentare un libro, il mio primo, ho dei ricordi confusi, mi resta in testa solo una gran sete, ed il viaggio di ritorno, con la radio accesa, a gioire per il pareggio di Kharja a San Siro, c’era Inter-Siena, l’aèsseroma era ancora là a giocarsi lo scudetto e con quel pari ancora di più. Poi la settimana successiva niente, chi segue un po’ il pallone se lo ricorda di sicuro, Vucinic porta in vantaggio i giallorossi e l’Inter se ne rimane aggrappata ad uno zero a zero striminzito a Parma, passano i minuti, la Roma è campione d’Italia per un’oretta, ma ti pare che, finché Ibrahimovic decide che no, non può andare così, non mi pare per niente e infatti non si possono avverare certi sogni, quel nun succede ma si succede non ha da succedere e quindi punto e a capo.

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Strade bianche

Strade bianche (Marsilio, 2010)

di Enrico Remmert

Non leggeremo l’orologio, decideremo noi le ore, le rotaie finiranno ma noi non saliremo mai lì sopra, andremo al museo e toccheremo il sedere alle statue, cammineremo sulle palpebre del mondo, aspetteremo al crepuscolo gli uccelli che gridano sillabe, ci vestiremo come due sacerdoti insaziabilmente belli, decifreremo le cose, e se non ci piacerà ci tapperemo le orecchie con il chewing gum, vedremo Dio in tv, scriveremo poesie indelebili, ci metteremo il sale sulle ciglia per rimanere sempre marinai, saremo assetati ed esultanti, per sempre, e ogni notte – le notti avranno un cielo bianchissimo con piccoli puntini blu – prima di addormentarmi mi sussurrerai: tu sei di tutti il migliore e di tutti il peggiore.

Manu, Vittorio e Francesca: sono tre i protagonisti di questo romanzo picaresco e “on the road” di Enrico Remmert. Il loro viaggio – che è un viaggio non solo puramente fisico ma anche dell’anima – parte da Torino e termina a Bari. Sono a bordo di una Fiat Punto dai doppi comandi detta “la Baronessa” – Manu insegna presso la scuola guida di suo padre – con un violoncello, un dipinto di Keith Haring sottratto al violento partner di Manu (il dj Ivan, pronto a fare di tutto per recuperarlo) e pochissimi soldi in tasca. Vittorio torna a Bari: lo fa solo per lavoro. Ha un contratto a tempo determinato per riuscire a realizzare i suoi desideri: lavorare come violoncellista. Manu sta scappando dalla sua vita torinese. Non le importa la meta. Le importa mettere distanza tra se stessa e tutti i suoi problemi. Eppure – per quanto ci si possa mettere spazio – i problemi non l’abbandoneranno, anzi, la seguiranno durante tutto il viaggio. Francesca parte per accompagnare Vittorio. È la sua compagna. La sua intenzione è utilizzare il viaggio per interrompere la loro relazione, per comunicare a Vittorio che lei non sa più se lo ama e – anche se lo amasse – che ha una nuova relazione con Luca, il veterinario per cui lavora.

La narrazione è round robin. Come Remmert anticipa «di ogni racconto ci sono tre versioni: la tua, la mia e la verità». Ognuno ha il suo punto di vista sul mondo, sulle situazioni rocambolesche che affrontano lungo la strada. Vittorio è totalmente immerso nella sua fobia quasi ipocondriaca, Francesca continua a tormentarsi perché lo ha tradito e non sa come comunicarglielo, Manu è l’emblema stesso della vitalità: è vulcanica, impulsiva e innesca complesse reazioni a catena che si ripercuoteranno sul gruppo.

Dopo un lungo periodo di silenzio Enrico Remmert torna felicemente con un romanzo armonioso, corale, intenso, un romanzo che ci spinge al viaggio, al sogno, alla ricerca della giusta traiettoria da percorrere per vivere la nostra vita. Non è importante la meta (le mete sono mobili come l’orizzonte), è il viaggio quello che conta. Il presente è imprevedibile e ogni attimo va assaporato con cura. Il futuro è tutto completamente da inventare.

Ripensi alla notte scorsa, ma non ti ricordi quasi più nulla, pensi che tua madre ripeteva sempre che uno dei tre segreti per essere felici è avere la memoria corta, pensi che gli altri due li hai dimenticati.

Serena Adesso

In perfetto orario

In perfetto orario (Robin, 2009)

di Luca Rinarelli

Una ragazza su un treno, un uomo con una missione, entrambi stranieri in una Torino umida, notturna, scarna. Così inizia questa piccola opera di Luca Rinarelli, già autore di volumi dedicati alla fotografia ed esordiente nel noir.

Pur mantenendo alcune delle caratteristiche formali del genere, In perfetto orario si configura come un romanzo della disperazione. Non vi è un solo personaggio che animi questa storia che non sia l’immagine della miseria, vittima di catastrofi legate nei modi più svariati al tema del lavoro, dal padre che perde la figlia bambina, alla ragazza russa scivolata nell’abuso, alla giovane votata al precariato economico ed esistenziale. Tutti aspirano a una forma di redenzione, e l’omicidio sembrerebbe il mezzo per la realizzazione di un riscatto sociale, senonché l’impossibilità del riscatto lo trasforma in atto di pura rivalsa sull’umano. Per fare un noir servirebbe la suspense, qualcosa che mantenga appesi al finale. Qui si rimane invece incollati all’ambientazione e a un vuoto post-industriale, in cui il killer non corrisponde al personaggio tipico se non per alcuni tratti derivati dalla lunga e nobile tradizione del genere. In realtà, anche lui tenta il suo riscatto, come gli immigrati afflitti da una vita senza radici né appartenenza, persi nella Torino reduce da una crisi industriale senza precedenti. Immigrati che giungono da varie parti di Europa per rimanere in questo luogo inospitale attratti da null’altro se non la pura sopravvivenza. Accanto a loro, giovani italiani le cui storie si intersecano con quelle degli immigrati in rotte casuali o determinate dalla necessità. Poco differenzia la ventenne torinese che stringe una relazione con Werner dalla prostituta russa sottratta a forza dal paese natale sul Volga e trasferita in una città a lei aliena. Solitudine, disgregazione, povertà, precariato estremo costituiscono i comuni denominatori delle vite che popolano questo piccolo romanzo anticapitalista. La lingua breve ricalca le strutture metalliche della periferia industriale e le pareti spoglie delle associazioni di supporto ai senza fissa dimora, scenari del romanzo insieme a piazze notturne vuote eccetto per bar affollati, luoghi di incontri causali, in una poetica dell’anonimato in cui a stento prendono vita dialoghi scarni, al netto di qualsiasi eccedenza di umano, fra i cristi spogli che Rinarelli ritrae trafitti dalla vita. Priva di elementi consolatori, questa piccola opera è una forte denuncia di una condizione umana intollerabile, e un auspicabile fire-starter di una narrativa dell’esclusione sociale di cui da tempo si avverte la mancanza.

Il finale è accattivante, anche se la raccomandazione è di non soffermarsi unicamente sull’intreccio e lasciarsi piuttosto sprofondare nell’atmosfera malinconica e notturna, veracemente padana, di un’Italia che non lascia più spazio all’ottimismo della volontà.

 

Claudia Boscolo