Ultima spiaggia

a L.C.

Dalla strada statale alla spiaggia quarantadue passi di funerale. Tre bambini tengono sollevato un vecchio lenzuolo su cui è steso un gatto arancione e morto. Nelle ore precedenti, i tre hanno scavato una buca nella sabbia e adesso, in silenzio, vi adagiano dentro il gattaccio con il suo sudario a fiori rossi su sfondo blu. Poi, in piedi sul bordo della buca, i bambini guardano dentro: il gatto ha i visceri di fuori e un occhio in meno. Perché seppellirlo qui, chiede il più piccolo. Scemosei te lo abbiamo già detto cento volte, dice il più grande dopo aver sbuffato. Perché il mare pulisce tutto, risponde il mezzano che è anche il fratello del mocciosetto. Perché il mare pulisce tutto, chiede il piccolo. Gli altri due neanche rispondono. Per scavare la buca hanno usato delle vecchie palette di plastica – le stesse adoperate per trasferire l’animale dall’asfalto rovente al lenzuolo – e adesso, per ricoprirla, usano le mani. Vedendo il gatto scomparire a poco a poco, ricoperto dalla sabbia scura, il bambino più piccolo scoppia a piangere. Scemosei, dice il grande. Scemosei, ripete il mezzano. Il piccolo riesce a trattenere le lacrime, ma non i singhiozzi che gli scuotono il corpo. Dal chiosco delle bibite e dei gelati proviene una canzone di Vasco Rossi che piace a tutti e tre. Il sole non si decide a tramontare. Leggi il resto dell’articolo

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Appunti per un futuro letterario all’insegna dell’inconsistenza – parte seconda

[Leggi la prima parte]

1) Sostenere che non esistono i generi letterari: uno scrittore è uno scrittore e basta.

2) Progettare la stesura di un thriller psicologico.

3) Di un romanzo noioso, dire che è un magistrale esempio di sobrietà.

4) Pronunciare in maniera personalizzata i nomi di autori russi e francesi.

5) Spedire a molti editori, insieme al proprio manoscritto, una lettera di presentazione in cui si sottolinei il fatto che la propria opera è stata giudicata con estremo favore da ben quattro persone, tra parenti e amici, tutte laureate (non è necessario specificare in cosa). Leggi il resto dell’articolo

La società dello spettacaaargh! – 11

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9 – 10]

Caro Matteo,

ho ragionato un po’ sulla tua analogia tra piani meta- e geometrie di Escher: non era proprio così che me l’immaginavo, e questo mi ha portato ad analizzare meglio il concetto, che avevo delineato in modo approssimativo e frettoloso.
Con “inerpicarsi di piani meta-” intendevo ciò che scopriamo in quelle discussioni che finiscono quasi subito per vertere su cosa si è detto, sul perché lo si è detto, sul fatto che lo si è detto (talvolta addirittura qui, si finisce) etcetera; meta-discussioni, insomma, spesso snervanti, che sono favorite dall’epidemica comunicazione in forma di trolling (e in generale da quel fenomeno della comunicazione nel quale Mario Perniola ravvisa il discorso psicotico): il discorso del troll è talmente disgregato – spesso inconsapevolmente – e superficiale – nel senso proprio che pare un’increspatura della superficie – che la prima cosa che ti viene da fare è chiedere conto dei presupposti, tentando di mostrare al tuo interlocutore quanta complessità e quanto pervertimento dei significati si celino in quelle che lui pretende essere verità lapalissiane. La cosa interessante è che ai suoi occhi è il tuo meta-discorso che inerpica piani meta- e si allontana dal reale, mentre per te il tuo meta-discorso non fa che scoprire, a ritroso, in direzione del reale, la somma di piani occultati sui quali il discorso del tuo interlocutore si muove: l’impressione prodotta nel tuo interlocutore dal tuo meta-discorso, di un ulteriore allontanamento dal reale, è causata dal fatto che stai spostando l’attenzione dalla realtà dell’originario oggetto del dibattere alla realtà dell’esistenza del piano meta-, che però, per chi vi si muove sopra, è occultato, quindi il tuo meta-discorso scade, agli occhi dell’interlocutore, a pippa. Leggi il resto dell’articolo

S’ha da capità capita, capito capità?

Alessandro, diciamocelo, è un macello: sarà per via dell’età.

Condivide su facebook le migliori frasi di Renato Zero e Vasco Rossi. Mi va a citare mica Vila-Matas o Cortàzar: El Kun Aguero. Al massimo Sdengo Zeman.

Fa un po’ di confusione su quando e come usare la mutina in concomitanza con la a, si vende di trafugo le magliettine d’allenamento della sua squadra del cuore e usa manco come io uso mica. Vale a dire: sempre.

Alessandro Florenzi, forse il nome non vi dice nulla, ma googlizzatelo e lo vedrete ritratto con la sua casacca gialloerossa, è il capitano della squadra Primavera della Roma.

Nel favoloso giuoco del calcio, ma è una mia opinione ed io si sa son fatto tutto storto, esistono due tipi di capitano.

C’è il lider màximo, alla Maradona, per intenderci. Il fuoriclasse. Quello che la squadra gioca tutta per lui.

E poi c’è il capitano trascinatore, il mastino, alla De Rossi, per dire: alla Alessandro Florenzi. Uno che è lui, a giocare per tutta la squadra.

Alessandro, all’età sua, mica lo so quanto riuscirà ad avanzare nel calcio dei palleggi per i promo di Sky.

Qualche presenza con la prima squadra l’ha pure fatta, sai che emozione passare la sfera al Capitano quello vero, vè Alessà?, ma ecco, quest’estate s’è parlato di lui più che altro per via d’un trasferimento alla Cavese sfumato all’ultimo, alla Cavese, ch’è la squadra di Cava de’ Tirreni.

Insomma, non è che la strada per la Champions League sia mai passata per Cava de’ Tirreni.

Alla fine poi niente, se n’è rimasto a Roma, ad indossare (e trafugare, e rivendere a venti euri) la maglia della sua squadra preferita, che io poi non lo so come si fa a non avere come squadra preferita l’aesseroma.

Le Primavera son quelle squadre che annoverano tra le loro fila teenager con prospettive di carriera interessanti. Sei un Primavera se hai tra i quindici ed i venti anni: oltre sei un fuori quota, ed allora per te comincia l’estate, mica è più primavera. E se sei sbocciato come i peschi a marzo va a finire che a luglio ci si mette sotto i denti frutti succosi.

Ha tutt’un senso di sbocciare, la parola Primavera.

In Ispagna la Primavera si chiama Cantera, che poi non significa null’altro che cava, come quella de’ Tirreni. Così come il minatore estrae dalla cava la pietra da lavorare e tornire per utilizzarla poi in costruzioni solide o decori ridondanti, alla stessa maniera i tecnici della cantera pigliano giovanotti volenterosi plasmandoli fedeli all’imperativo michelangiolesco che non c’è giocatore che un marmo solo in sé non circumscriva.

Se poi ha i piedi di granito, oh, quella è un’altra storia.

Alessandro Florenzi, stasera, che per me che scrivo è stasera ma che voi che leggete dovreste intendere lunedì scorso, la sera dell’ultima sforbiciata prima di questa che state leggendo, quella sugl’atleti di Cristo, io l’ho visto piangere, cristo.

C’è un torneo che si chiama Tirreno e Sport e, per non farla troppo lunga, finisce che la finale di questo torneo debbano giocarsela Roma e Lazio, che dopotutto è sempre un bello spettacolo, un derby, anche se stiamo parlando di squadre Primavera, compagini che annoverano tra le loro fila mica calciatori che inviano fiori sotto la gigantografia di Sakineh in Campidoglio attirando l’odio dell’iraniano Infra, ma ragazzetti semplici, sbarbi felici di condividere su facebook l’ultimo commovente aforisma di Lionel Messi.

Io ci sono andato a vedermelo, questo derby. E mi sono discretamente divertito. Una partita accesa, la Lazio che passa in vantaggio per un rigore forse un tantino generoso, dietro di me teorie secondo le quali Maroni, contestato dai tifosi, sarebbe il presidente della Lazio.

Le chiacchiere che ascolti allo stadio, dopotutto, sono il termometro d’una nazione, l’ho sempre detto.

Perdere un derby non piace neppure a me quando giuoco a calciobalilla al chioschetto giù in spiaggia, figuriamoci ad Alessandro Florenzi.

La lotta si fa maschia, i cori cominciano a somigliare a quelli della curva sud e ad un tratto, come il pathos epico richiede, a due minuti dalla fine l’arbitro cosa non ti va a fischiare? Un calcio di rigore per la Roma.

Sul dischetto, anche se poi non è da quei piccoli particolare che si giudica un giocatore, ché un giocatore lo vedi dall’altruismo, dalla fantasia, dal coraggio, con la maglia numero quattordici sulle spalle ci va proprio Alessandro. Il Capitano.

Florenzi, quel rigore, l’ha sbagliato.

Ed io non lo so che groppo in gola m’è venuto, quando poi la partita è finita ed i ragazzetti con le maglie celesti saltellavano sorridenti, a vedere Alessandro coprirsi il volto con la maglia. Piangere. Come fosse un ragazzino. (Il fatto è che Alessandro è un ragazzino).

Lo chiamano sotto la curva, lui prima si sottrae mortificato, poi si gira verso i tifosi e fa un gesto inusitato, di questi tempi. Si assume le sue responsabilità e chiede scusa: congiunge le mani e chiede scusa.

C’è un video, su youtube, se siete di quelli sentimentaloni di sicuro l’avrete visto, che si chiama Ecco dove può arrivare l’amore di un padre per il proprio figlio.

Alessandro, che è un macello, ce lo siamo già detti, e che passa su facebook svariato tempo a lincare le scorribande di De Ceglie o l’amoroso cantare di Gigetto D’Agostino, l’ha condiviso il ventisette luglio ch’era di pomeriggio, quel video.

Sono in grado di fare tutte le cose, se c’è lui, diceva. Il padre.

Io, stasera, Alessandro l’ho visto correre verso il centro della tribuna, con gli occhi lucidi cercava qualcuno, non lo trovava, muoveva la testa furiosamente, non si dava pace.

Mi unisco alla sua spasmodica ricerca, finché non vedo un signore appesantito scavalcare sgraziatamente i gradoni dello stadio, correre verso la recinzione, incrociare lo sguardo con quello dell’Alessandro che porta il suo stesso cognome.

Chiede ancora scusa, il Capitano, con le mani giunte e piangendo, come a dire scusa papà, scusa davvero, sono il capitano ed ho calciato il rigore e l’ho sbagliato ed abbiamo perso la finale, il derby, non alzeremo la coppa, mentre quello dalla tribuna gli tirava solo dei gran baci, aiutandosi con le mani, con gli occhi, con l’anima.

Ed i tifosi chiedevano la maglia, la fascia del Capitano, e cantavano uno di noi, Florenzi uno di noi, mentre lui piangeva, e niente aveva più importanza, nemmeno lo striscione contro la tessera del tifoso, nemmeno i cori contro Maroni, ma tu guarda, il presidente della Lazio.

Fabrizio Gabrielli

LA FICTION LETTERARIA

Leggo la rivista SATISFICTION sempre con interesse finché un bel giorno (tipo il 15 febbraio) apro la pagina del loro sito e vedo che Vasco Rossi ha pubblicato una poesia “civile” (Auauhauahuauauha! Oddio nun jela fo’ a continuare oddio vengo meno Auauhauahuahauuauhauahuahauuauaauauha!) dicevo… apro la pagina del loro sito e vedo che Vasco Rossi ha pubblicato una poesiauauhauahau hauuauauaauauhauauhauauaaahuahuahauhauuauauaauauhavabene vabene ora mi calmo… insomma comunicati su comunicati per avvisare il mondo della cultura che Satisfiction ha l’esclusiva di una poesia “civile” di Vasco Rossi (cioè: poesie civili erano quelle di Pasolini per intenderci). Incuriosito da tale evento, che paragonerei straordinario almeno quanto la morte di Tremonti, vado sul loro sito e leggo il poema del nostro Vascolone Nazionale. Ma che è? A mio avviso è una cosa di una retorica e di uno squallore che chiamarla poesia Montale uscirebbe dalla tomba e prenderebbe a cocci di vetro in testa chi gestisce la rivista. Un concentrato di retorica, banalità, qualunquismo di pseudo-sinistra che nemmeno nelle pagine di diario di un liceo scientifico di Latina! Allora bel bello lascio un commento all’articolo esprimendo tutto il mio schifo per tale poema. Il commento era un po’ lunghetto, ironico, acido e forse cinico. Ora non lo ricordo esattamente perché lo scrissi di getto e direttamente nello spazio apposito del sito da compilare. Fatto è che dopo meno di un minuto il commento sparisce. Forse Mozilla fa le bizze, forze Opera non connette, forse ci hanno staccato la Telecom, forse questo forse quello, insomma mi viene detto dal gestore del sito che il mio commento/monologo era “offensivo” e potevo passar guai perché offendevo il Vasco Rossi inteso come uomo (e che lo dovevo intendere come cavallo?).

“Il VOSTRO COMMENTO E’ STATO TOLTO perchè non è una vostra opinione su ciò che è stata pubblicato: non sui contenuti sulla “poesia” o non poesia di VASCO ROSSI (ognuno ha le proprie opinioni) ma CON I SOLITI LUOGHI COMUNI e I SOLITI PREGIUDIZI avete scritto una frase sull’uomo Vasco Rossi che non solo non siete in grado di comprovare ma che va OLTRE LA DIFFAMAZIONE. Abbiamo quindi cancellato perchè non solo lesiva, soprattutto per Voi, ma perchè è la solita logica, questa sì fascista, di attaccare gli uomini e non le loro opere”

Avevo immaginato nella mia testolina il Vasco intento a concepire tale opera, immerso nelle carte della sua scrivania, mentre sorseggiava una birra e tirava di coca in cerca di ispirazione, e che poi, preso dallo stimolo e dall’estro, si fosse recato in bagno con carta e penna per creare tale “emozionante opera”. Ed è offensivo? Ma lui è una rock star, cazzo! Se non lo fa lui chi deve farlo? Antonella Clerici prima di andare all’Ariston? Ma pare che scrivendo questo io poi vada a finir male, che Vasco ci rimane male e mi manda gli avvocati a casa. A me? Che arrivo a malapena a pagare l’affitto della stanza?

Beh certo le regole del sito sono chiare e scritte nero su bianco qui:  al punto 3. Poi mi sorge il dubbio e leggo i commenti degli altri utenti al servizio: plausi a Vasco e al suo testo, per fortuna qualche accenno di dissenso c’è ma poca roba, come se si avesse paura di dire che il testo è una cagata assoluta. Sono libere opinioni o sbaglio? Io credo che scrivere semplicemente “Non mi piace, puzza di demagogia” serva a ben poco, o almeno a me non soddisfa come commento, non mi svuota da quel che penso, perché qui non si tratta di commentare la poesia di uno sconosciuto come potrei essere io, qui si tratta di scrivere e dire quel che si pensa di un “simbolo” (Vasco Rossi). Qui si commenta la “cultura ufficiale”, quella che ci facciamo iniettare ogni giorno (e badate, non dico “che ci iniettano” perchè sinceramente se stiamo nella merda è perché ci piace tanto sguazzarci dentro). E allora penso che magari ce ne sono stati commenti negativi pesanti (è inevitabile) ma chissà che fine hanno fatto. La discussione continua su facebook dove il titolare del blog mi scrive: “…è come se tu scrivessi una poesia su un sito e io intervenissi sottolineando che il tuo scritto fa schifo perchè tua madre è una “xxxx”. Non ci rimarresti male? Io sì. Non esistono le rockstar, esistono gli uomini…”

Anche questo non è calzante, mica ho detto qualcosa di male alla madre di Vascolone? E poi le rockstar esistono eccome! Le creano gli uomini che vogliono fare le rockstar! E poi perché? Se io scrivo qualcosa che ti fa schifo, tu sei liberissimo di dire che mia madre è una “xxxx” (Pera? Cana? Tana? Boh!) poi saranno problemi tuoi che dovrai vedertela con mia madre ed il suo amante palestrato.

Il fatto è che secondo me ai tipi di Satisfiction ha dato fastidio che io abbia criticato in maniera surreale e cinica quell’articolo che tanto era stato spinto in rete tramite comunicati. Che poi non è che avevo scritto solo quello, ma loro sono stati gentili ed hanno cancellato il commento perchè sennò finiva che Vasco Rossi mi denunciava per diffamazione. Auhauahuahuahuah! Ma sai che je frega a lui? Ma io mi domando e dico: Tu, caro Satisfiction, mentre leggevi quella boiata di testo (che per me è una boiata) ti sei reso conto che era una cagata, vero? Perché se ritieni che è un testo denso e pregno di poesia allora io non ci ho capito un cazzo di letteratura e della vita in generale.

Ma del resto viviamo in un paese dove la cara e buona Fernanda Pivano (considerata madrina e portavoce della verità assoluta riguardo poesia, letteratura e fattanza) prima di tirare le cuoia affermò che Vasco Rossi e Ligabue erano gli ultimi poeti italiani rimasti (o una cosa del genere, se non disse testuali parole poco ci mancava). La Pivano-beat insomma mise quasi al pari la vecchia generazione di veri scrittori con i mercenari della pseudo-musica pubblicizzata dal Mollicone al Tg1 (Mollica è quel critico di “Do Re Ciak Gulp” dove tutto quello che promuove è bellissimo, emozionantissimo, stupendissimo e vale la penissima di comprarissimo). Cioè, se la Fernanda fosse vissuta altri cinque o sei anni e si fosse continuata a fare di roba buona magari rivalutava pure Nek, Ramazzotti e Piero Pelù ed oggi stormi di intellettuali avrebbero studiato, analizzato e discusso i testi di “Laura non c’è, è andata via, Laura non è più cosa mia”, magari evidenziando analogie con la metrica martelliana o la profonda angoscia esistenziale dell’amore perduto al pari di Prévert.

In finale (e concludo il pistolotto): Vasco Reds può scrivere quel cacchio che vuole (non sono di certo io a dovergli dire qualcosa e non è certo questo lo scopo ultimo del mio post) ma quello che più mi dispiace è che chi promuova la cultura in Italia diffonda, elogi e fomenti un livello “artistico” a mio avviso di bassissimo spessore, dal quale traspare il reazionario e non la stimolazione, dove la rivolta si finge moderazione, dove si macina il trito ed il ritrito e non di certo un “nuovo” che porterebbe alla crescita intellettuale del fruitore, il tutto in un contesto artistico/culturale dove la sperimentazione è schiacciata volutamente e fatica ad emergere, in quanto lo sviluppo di pensiero critico di un individuo può risultare pericoloso ai fini commerciali. Ben venga la commercializzazione delle opere, ma che almeno siano di qualità. Questo è ciò che penso. La messa è finita, andate in pace e soprattutto andate a fare l’amore con il sapone. Ora scusate ma vado a finirmi di vedere “Saw V” che devo capire chi è l’assassino.

Andrea Coffami