Quand’è che la paglia piglia fuoco

Ròba che poi vallo a capire, facile mica, il momento — se c’è stato un istante preciso, alla fine, determinabile e inequivocabile — in cui è scoppiata la scintilla, e la paglia, insomma, ci siamo intesi.
Perché no, non può darsi, non ci arrivo a una spiegazione razionale, fàmmici riflettere, dovrei adoperarmi in una ricostruzione che si prenda la briga di escludere la follia, il clàc dell’accendino in un pomeriggio di quiete campestre, tutto nella norma, come un qualsiasi altro pomeriggio pretemporada, gli schemi difensivi sul campo d’allenamento, Manuel Preciado — uomo canuto, sapienza e baffi madidi di sudore — la spartizione delle pettorine, il sacco coi palloni nuovi, Manuel Preciado con in mano la bacchetta, come un direttore d’orchestra, i segni sull’erba, movimenti come d’oboe e di timpano: capito com’è, spiega, in intimità, che Canella e Gregory stringono, Rivera retrocede, Jorge chiude, Javier taglia, facciamo così, faremo così quando dovremo mettere il risultato in banca.
Forse lì, ecco, in quell’allegoria innecessaria, lì c’è l’origine del baluginio d’inferno ceruleo negl’occhi, senza preavviso, nemmeno una twitterata preventiva, #stoperfareunacazzata, #jmj15-m, la testa che si volta in uno scatto di falco che punta la preda, la rincorsa breve, il baricentro basso, come s’usa per tirare un calcione, un calcione alla palla, e l’allenatore colpito in pieno, in pieno sul faccione ingordìto, pasciuto, prima di Leggi il resto dell’articolo

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La gang dei fuori di testa

Più lontani si va e meno si apprende.
Più lontani si va e più ci si avvicina alla verità.
Per questo l’uomo saggio non cammina.
Eppure arriva.

Lao Tze

Per darne ne ho dati tanti, di cazzotti, dati e ricevuti, posso mica ricordarmeli tutti. Sir Alex Ferguson di me ha detto, una volta, quello potrebbe far scoppiare una rissa anche in una casa completamente vuota, figuratevi. Per dire che non mi dispiaceva, scazzottare. Non che mi rendesse un uomo migliore, più saggio, che poi è pure il mio nome, Dennis Il Saggio: lo facevo semplicemente perché ero così, pazzo se volete.

Gioco duro, sporco, rude con gli avversari, e tra di noi: delle gran sberle.

Il cazzotto di quella volta, però, quello di Vinnie, me lo sarei ricordato a lungo. Ròba da appuntarselo sul diario: quattordici maggio millenovecentottantotto, poco prima di scendere in campo, cazzotto di Vinnie: il migliore che mi abbia mai dato.

John lo chiamavamo Johnnie Preoccupazione. C’era cresciuto, in mezzo ai casini, i genitori separati e la meglio gioventù in collegio col fratellino: gl’era venuto un dente avvelenato, a Johnnie, che ti credo io lo chiamassimo Preoccupazione. Brutto, diomìo se era brutto, e sgraziato. Cintura nera di karate, per fare goal li faceva, ma ne sbagliava pure certi, diomìo: imbarazzante.

E poi: menava, in campo. Come tutti noialtri, d’altronde, ci gonfiavamo come zampogne tra di noi, gioco di mano gioco da villano, dice il proverbio, e allora sì: chiamateci villani. Anzi, chiamateci la gang dei fuori di testa: siamo il Wimbledon o no?

Johnnie, le preoccupazioni, a chi ne dava e a chi ne prometteva. Andatelo a chiedere a Gary Mabbutt: gl’ha sfasciato una tempia con una gomitata, per dire. Oppure a Grobbelaar, pure lui peperino mica da poco, quando davanti ai giudici se n’è uscito, era imputato per una brutta storia di concussione e partite vendute e scommesse, oh io c’entro nulla, sentite piuttosto Grobbelaar.

La preoccupazione più grande di Johnnie, però, era il fratellino, Justin.

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