L’inutilità del genio post-moderno /3

Dati i presupposti, non possiamo dimenticare l’importante affermazione che Giorgio Colli fa in La nascita della filosofia («La follia è la matrice della sapienza») e il fatto che i più straordinari documenti dell’antichità, oltre agli illusori testi filosofici (compromessi interamente con l’intangibile se non col folle) e ai reiterativi saggetti (che ruotavano sempre attorno alle stesse cose e sempre negli stessi termini), sono opere teatrali con personaggi che – per i motivi disparati – commettono quelle che oggi (come ieri, spesso) definiremmo “pazzie”: Edipo, Medea, Antigone, Elettra…

Perché il “gesto insano”, conducendo alla catarsi, è tramite per la divinità: come l’idiozia dostoevskijana, che è insania e vocazione mistica.

Tiriamo di nuovo le fila, altrimenti in questa selva di deduzioni e supposizioni potremmo sperderci, e vediamo cosa abbiamo in mano: unità spazio-temporali in dissolvenza, illusione, irrealtà, morbosità, follia, divinità.

Improvvisamente si crea un nesso, anzi, un’equazione:

letteratura : illusione = follia : divinità

ed ecco che nello sputtanatissimo legame fra letteratura e divinità si evidenzia un percorso che passa per la finzione (la nota “finzione letteraria”) e la follia (la “theia mania” platonica del Fedro). Tutti elementi abbastanza risaputi, ma raramente o mai esaminati nella loro sequenza.

Un nuovo quesito movimenta questo dipanarsi: visto che la letteratura è citazione (dovremmo dire “metafora”) della follia e perciò della divinità, data la letteratura corrente, a cosa s’è ridotta la divinità?

Ci sono dei legami nelle opere di autori lontanissimi e nelle opere – ovviamente – del medesimo autore.

E così: fra il Conte Ugolino e i due poveri amanti Paolo e Francesca c’è il legame del racconto in pianto; fra l’Ofelia di Rimbaud e la Marinella di De André c’è il fiume e l’amore di mezzo con stelle e fiordalisi di contorno; Jonson, il poeta del «Lascia un bacio dentro la coppa e io non ti chiederò vino», s’assomiglia nei modi e in alcuni tratti biografici al Catullo di «Odi et amo»; Zorba e l’Inglese di Kazantzakis altri non sono se non il Dionisio e l’Apollo di Nietzsche.

Lo strutturalismo, se vuol fissare delle Gestalt che si meritino questo nome, deve fare a meno di limiti e compartimenti stagni: la struttura del materiale culturale con cui opera dev’essere leggera e interscambiabile, levigata e pronta a combaciare con ogni cosa.

Quindi, la divinità sottesa (anche se involontariamente… involontariamente per gli autori medesimi, ovviamente) alla letteratura contemporanea non deve avere troppi legami e deve potersi accostare a tutto – esattamente come i personaggi e le situazioni di cui abbiamo parlato qualche riga fa.

I principi e i valori devono farsi trasparenti e volatili. Leggerezza, raccomandava Calvino nelle Lezioni americane.

Ma i principi sono anche la trama: sono spinte su cui si muovono i personaggi. Principi volatili danno personaggi inesistenti e plot cadenti.

Rispondiamo alla nostra domanda: la divinità – motore sotteso e originario delle letteratura – è svanita, o meglio s’è ridotta alla sua effige: la follia.

Ambiguità e ironia

Humbert Humbert, l’Abate Faria, Hannibal Lecter, il Vecchio della Montagna, Eraclito, Omero, Tiresia, Edipo, Buddha, il Mago di Oz, Nero Wolfe, perfino Babbo Natale: tutti questi personaggi (e molti altri affini) recano in sé delle tracce mai soppresse e sempre presenti in certe figure letterarie.

L’Oracolo in Matrix o la figura del profeta nei Libri Sacri o Sherlock Holmes: questi tre i grumi in cui, più che in altri personaggi, si sono mostrate le tendenze della letteratura occidentale.

Onniscienza. Ombra. Onnipotenza.

Tutti i personaggi che ho elencato poco fa hanno tre caratteristiche che manifestano singolarmente o accoppiate o nel complesso: vivono nell’ombra, intesa in senso lato (Holmes, per esempio, si traveste e vive immerso nel fumo o nella nebbia); sono, o sembrano, onniscienti; giocano con la vita e la morte perché sono immortali o perché si sentono tali oltre che onnipotenti.

Lo scrittore non s’è mai liberato di queste tre fascinazioni: il sapere, il vedere e il potere. Perché il sapere è anche potere, ma questa capacità di conoscenza (e dunque di dominio) si esplica meglio laddove gli altri non vedono: lo scrittore, così addentro alle parole, sente anche di poter manipolare come vuole i concetti, quindi la verità medesima, quindi – in ultima istanza – la vita degli altri. Perché gli altri sono ignoranti, perché non vedono, e dunque niente possono più di chi mette loro in bocca le parole di cui si servono come sonnambuli. Questa malattia degli scrittori, io la chiamo “sindrome di Polo”, dal nome del personaggio del Gorgia di Platone: consiste nell’immaginare di controllare tutto e di vivere in una trama solo perché si controlla il linguaggio, e lo spirito degli altri attraverso il controllo sul linguaggio.

Questa tendenza s’è estrinsecata, quantomeno in me, nel patologico citazionismo de Il volo interrotto, nel suo amore per l’ambiguità del dubbio dell’indeterminazione e dell’ombra, nel suo raffigurare omicidi che somigliano più a gesti quotidiani che ad attentati contro tutto ciò a cui siamo stati educati.

Ed è in fondo questo il principio di tutti i libri che si propongono oggi di essere “creativi”: l’omicidio, la conoscenza, l’ambiguità.

La generazione pulp sbandierava e sbandiera la violenza, i moderni giallisti la conoscenza, e tutti gli autori, nessuno escluso, l’ambiguità (che, per loro pochezza, s’è ridotta quasi esclusivamente ad ambiguità sessuale e non è molto di più della parodia di se stessa).

L’ambiguità siede allo stesso tavolo dell’ironia: dov’è finita l’ironia? Nei libri di oggi non ce n’è traccia.

Spostiamo allora la nostra attenzione su questi due ambiti: ambiguità e ironia.

Antonio Romano

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Metodica delle cose inutili – Sul lavoro

Sul lavoro


Il lavoro non mi piace, non piace a

nessuno. A me piace quello che c’è

nel lavoro: la possibilità di trovare

se stessi.

Conrad in Cuore di Tenebra

Un punto spinoso: il lavoro. Così spinoso da dover subito sgombrare il campo da tutte le interpretazioni fuorvianti in cui è possibile leggere, in contrasto con la teologia della nostra civiltà, questo concetto.

A molti pare, infatti, che il lavoro, anziché un obbligo o una triste necessità, sia qualcosa di voluto dal nostro spirito, dalle nostre mani. Ancora nella costituzione fiumana si parlava di lavoro senza lavoro e, uno dei protagonisti dell’avventura dannunziana, Guido Keller, folgorato da un’etica dell’altro (“scordare se stessi per l’altro”), che ricorda vagamente quella di Lévinas, umanista profondo qual’era, vedeva nel lavoro un ampliamento di conoscenze. Uno dei maggiori danni, in questo campo, è stato apportato da Dante Alighieri, che, nell’ottavo canto del Paradiso (v. 142-148), fa bellamente dire a Carlo Martello: “ E se ‘l mondo la giù ponesse mente/ al fondamento che natura pone,/ seguendo lui, avria buona la gente./ Ma voi torcete a la religïone/ tal che fia nato a cignersi la spada,/ e fate re di tal ch’è da sermone;/ onde la traccia vostra è fuor di strada.” Insomma questo mondo è fuori strada, e la gente non è buona, perché non si tollera che l’individuo si assuma il coraggio e il peso della propria vocazione, e si fa di un soldato un prete, e di un prete un re. In questa lettura del lavoro non solo è pericoloso questo richiamo alla volontà individuale e a un diverso, più profondo e stravagante, uso della ragione, ma vi è insito quell’appello del Nazareno a leggere la realtà non secondo le regole della necessità imposte arbitrariamente dall’uomo (secondo il suo libero arbitrio), ma in una feconda chiave simbolica che liberi la natura profonda delle cose dalla retorica della concretezza (“non di solo pane vive l’uomo”), che ha determinato in certo cristianesimo perfino una visione delle leggi di mercato e una lettura dell’ordine sociale invertite: si pensi a Sant’Ambrogio, secondo il quale quando fai l’elemosina, “non de tuo largiris pauperi, sed de suo reddis” (al povero non dai il tuo, ma gli restituisci il suo: il maltolto). Questa affermazione può sembrare un aspetto innocuo di questo ribaltamento di prospettive, ma apre un dibattito che ancora nel Novecento, porterà Norman O. Brown, in una critica al luteranesimo e al comunismo scientifico, a riconnettersi alla fonte, sorpassando una critica al denaro come “sterco del demonio” e come strumento di sopraffazione, e puntando la sua, di critica, sul denaro come indice quantitativo anziché come espressione di valore simbolico: in uno spirito non diverso da quello del Nazareno, o anche come uno zingaro, secondo Brown l’oro sta meglio al collo che in tasca (sarà stato mentre si faceva ungere di preziosi balsami con soldi non dati ai poveri che a Gesù è venuto in mente che una lanterna non deve rimanere nascosta in un moggio).

Bene, questo, per sommi capi, è il campo che dobbiamo sgombrare, scartando con forza ogni richiamo alla responsabilità individuale verso se stessi e l’altro, e a un uso diverso della ragione, riconnesso alla sua matrice simbolica e immaginale. Ci aiuta, in questo, la lampante evidenza che lo sforzo spirituale e culturale che mette in gioco questa lettura della realtà è impari davanti al fatto che non bisogna avere una laurea per capire che la via facile da seguire è quella dell’inutilità.

Il lavoro è inutile, è come una di quelle cose che si inventano tanto per cattiveria, una punizione data da Dio ai suoi bambini capricciosi, una correzione che ci dà un’ordinata, un ordine. Si può allora accettare questo ordine, accettare il lavoro in suo nome, subendolo passivamente o, in un istinto confuso ad ottenere il perdono, cercando di guadagnare dei meriti, ovvio quantificabili (fare carriera, guadagnare denaro, ottenere potere, e via dicendo): tutte le organizzazioni sociali avvicendatesi nella nostra civiltà sono state basate su questa salda base.

Uscire fuori da questa prospettiva significa pensare che questo mondo, piuttosto che una valle di lacrime, è la “valle del fare anima” (Keats) e che ognuno di noi è chiamato a lavorare, secondo il proprio talento e la propria vocazione, (ognuno secondo le proprie capacità così come ad ognuno secondo le proprie esigenze) per essa: per gli altri.

Pier Paolo Di Mino