La coerenza

di Simone Lisi

Si tornava dal Poetto in autobus, senza regolare titolo di viaggio, ed era estate. Quasi trentenni, quasi finita l’università e quasi in partenza, alla fine di quella stessa estate, per destinazioni improbabili e possibili o inutili. Da fuori: un gruppo di quasi trentenni, con almeno tre accenti diversi tra loro, su di un autobus che va dalla spiaggia alla città, che parlano di mostre di Morandi a cui non sono andati e della morte recente della moglie di Christo, che si parlano addosso e non dicono niente e poi si fanno silenziosi e cupi e guardano fuori dal finestrino e si soffermano a osservare a lungo, senza fiatare, un loro quasi coetaneo, disabile, vestito da bambino, tenuto per mano dal padre, o da quello che si augurano essere il padre. I vestiti di noi che guardiamo il disabile, invece, sono lievemente pensati, sottilmente particolari, senza cercare eccessi o espressionismi, con lo stile autoreferenziale canonico dei primi anni Dieci. Da dentro (in breve): gente incoerente. Incoerenti non tanto (e non solo) per l’assenza di biglietto dell’autobus, visto l’evidente status di-ciò-che-in-altri-tempi-si-sarebbe-detto-borghese. L’assenza di biglietto non era certo Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

Appunti per un futuro letterario all’insegna dell’inconsistenza – parte seconda

[Leggi la prima parte]

1) Sostenere che non esistono i generi letterari: uno scrittore è uno scrittore e basta.

2) Progettare la stesura di un thriller psicologico.

3) Di un romanzo noioso, dire che è un magistrale esempio di sobrietà.

4) Pronunciare in maniera personalizzata i nomi di autori russi e francesi.

5) Spedire a molti editori, insieme al proprio manoscritto, una lettera di presentazione in cui si sottolinei il fatto che la propria opera è stata giudicata con estremo favore da ben quattro persone, tra parenti e amici, tutte laureate (non è necessario specificare in cosa). Leggi il resto dell’articolo

Generazione TQ. Il manifesto letto da uno scrittore trentacinquenne fuori dai giri

Una cosa è certa: la generazione trenta-quaranta è ossessionata dagli anni Ottanta.
Li buttiamo nel cesso, poi li andiamo a riprendere e li laviamo con cura. Li poggiamo sulla mensola dell’ingresso e aspettiamo che si impolverino, poi li prendiamo e li nascondiamo nello stanzino. Un giorno, mentre stiamo decidendo se andare al mare o cominciare a scrivere la storia che ci ossessiona da qualche mese, ci ricordiamo che sono rimasti chiusi nello stanzino per tanto tempo e li andiamo a riprendere, controlliamo che sia tutto a posto, li guardiamo e li ributtiamo nel cesso, tirando lo scarico. Dopo due giorni facciamo un’incursione disperata nelle fogne e li ritroviamo. Ce li contendiamo con topi e scarafaggi e li riportiamo a casa. Pulizia e restauro e di nuovo in bella esposizione sulla mensola di casa con tanto di foto trionfale su facebook. Non riusciamo a capire se ci piacciono da morire o se li detestiamo, se sono stati la nostra palestra adolescenziale o la nostra dannazione culturale. Ci vantiamo di essere andati a sentire gli Europe dal vivo al Teatroteam di Japigia e ci ricordiamo che a Bari quel giorno nevicava e che due giorni dopo uno che conoscevamo è morto di overdose (da eroina e non da ecstasy) e passiamo intere serate a guardare su youtube le frangettone di Sanremo ’83 e le migliori scene di Grosso guaio a Chinatown. Poi spegniamo tutto e leggiamo Pincio e Pynchon, Wallace e Barth, Vonnegut e Benni. Leggi il resto dell’articolo