Le parole (rac)contano

Ieri mattina, girovagando su piazza facebook, trovo segnalato da un contatto comune questo post sul blog di Carlotta Borasio, ufficio stampa e curatrice di una collana per giovani adulti presso Las Vegas edizioni. Vado a leggere. Sarà che non era una proprio buona giornata per alcune vicende di cui non mi prendo la briga di parlare qui, ma m’incazzo. Cioè, non esageriamo, non è che m’incazzo, ma piuttosto penso che sia poco etico e poco professionale, per un addetto ai lavori, uscire pubblicamente con riflessioni tanto vaghe. O meglio: dire, ma non dire. Dire senza dire. Ma entriamo nello specifico. In pratica qualcuno ha consigliato un libro di racconti a Carlotta un libro di un autore molto conosciuto pubblicato da una grossa casa editrice. La prima reazione di Carlotta è positiva: vuoi vedere che tornano alla ribalta i racconti? Allora Carlotta, curiosa, ne vuole sapere di più e, nonostante l’autore in questione (che evita di nominare, come vedremo in seguito per non attaccare gente che ha già un nome per guadagnare qualche visita, altrimenti le darebbero della paracula) non le piaccia (perché lo trova prolisso, barboso e poco originale), gli vuole dare fiducia e digita di google (Ah, zio google!). Trova uno dei racconti e comincia a leggere. Dopo le prime quattro righe, ha subito capito tutto: “ma che è sta menata?”.

La curiosa Carlotta, drogata di libri, sa bene che da sole quattro righe dell’incipit di un racconto si capisce subito se l’intero libro sia buono o una cacata, se sia degno di essere letto o pubblicato (anche se specifica che non è compito suo in casa editrice valutare i manoscritti altrimenti ne casserebbe alcuni dopo la quarta riga). Ma questa amara considerazione le fa sorgere una domanda spontanea: possibile che ci sono autori che qualsiasi cagata scrivano va bene per la pubblicazione? Inoltre, a ragione, aggiunge che costa 20 euro (ma questo, ovviamente, è un capitolo a parte, ed è un capitolo dolentissimo). E niente, tutto qui, a parte che ‘sta gente (che poi chi sarà, ‘sta gente?) dovrebbe prendere lezioni.

Da lettore sono indignato, e mi sento pure un tantino preso per il culo. E visto che non era proprio una buona giornata, vado a punzecchiare dicendo in un commento che sarebbe interessante sapere l’autore e la casa editrice in questione. Ma intanto, dicevo, ero sempre su piazza facebook, e chiacchieravo pure con Zabaglio sulla possibilità di portare Trauma cronico a Bologna, quando tornando sul blog di Carlotta mi rendo conto che il commento è in moderazione. Dico ad Angelo: leggi il mio commento? No, risponde, intanto scrive un commento che pure a lui va in moderazione. Ora è chiaro che se scrivo per la prima volta un commento su un blog, quello mi mette il commento in approvazione, pure qui su Scrittori precari è così, e un paio di volte è capitato pure qualche piccolo malinteso. Ma sapete com’è, di questi tempi, ci si allarma subito e si grida presto a censura. E invece, probabilmente, era solo che Carlotta non era a computer. Infatti dopo un po’ i commenti vengono pubblicati. E nei commenti, la curiosa Carlotta, tira fuori il meglio di sé. E un po’ me le fa girare.

Ora, devo essere onesto, mi dispiace pure, Carlotta l’ho conosciuta e la incontro alle fiere del libro quando vado a pascolare, stanno sempre nello stand coi tipi di Intermezzi, e devo dire che lei mi sta pure simpatica, lei e tutti i tipi di Las Vegas (di cui ho avuto il piacere di leggere – e apprezzare – un solo libro, La minima importanza del Piscitelli, che vi consiglio, resterete soddisfatti ma in caso contrario non aspettatevi rimborsi che da queste parti siamo poveri, poveri ma belli, come il film, rubando la battuta a Zabaglio), ma non posso star zitto (se no perché scrivi o vivi?, diceva, anche se a proposito dell’interno delle cosce di Mardou, Leo Percepied).

È il web, bellezza! Non sono io che non perdono, è il web che non perdona. Ma andiamo con ordine. Quello che mi ha infastidito, della replica di Carlotta, è stata la posizione paracula di dire che non è politica del suo blog fare pubblicità a coloro che non ritiene meritevoli di attenzione positiva, chiedendo perdono per la vaghezza (poi aggiunge che la casa editrice è Einaudi, ma prima non l’aveva scritto). Ora, dico io, su Einaudi si può contestare il fatto che i libri costino tantissimo e che alla fine dei conti (e al netto delle intenzioni), chi guadagna di più è sempre un’azienda del monarca, il monarca proprietario del gruppo Mondadori, che ha la storia che ha (in proposito vi segnalo questo post di Morgan Palmas sul blog Sul Romanzo); ma il catalogo, cazzo, no! Il catalogo Einaudi, purtroppo o per fortuna, è un patrimonio dell’umanità. Certo c’è qualche scelta che comincia ad essere poco condivisibile (vedere Mario Balotelli vicino ai mostri sacri della Letteratura mondiale, sinceramente, è un po’ inquietante) ma il catalogo Einaudi, vi voglio bene, non scherziamo. È una questione di qualità, direbbe il fu Giovanni Lindo Mattia Pascal Ferretti.

Certo le aberrazioni del mercato editoriale sono sotto gli occhi di tutti, ma proprio per questo è importante fare nomi e cognomi (e motivare sempre), proprio per districarsi meglio in questo labirinto mortale dell’editoria nostrana. Già la gente in Italia non legge, se poi un non-lettore (o un lettore magari non proprio sgamato) si trova tra le mani spazzatura, abbiamo perso. Tutti.

Per questo credo che sia dovere di (tutti) coloro che amano, lavorano e vivono per i libri, rispettare la responsabilità che il compito che si sono assunti richiede. C’è un popolo intero di lettori da coltivare, se non da far nascere, mentre mi sembra che si resti sempre più imprigionati in una piccola nicchia di eletti. Mentre dimentichiamo enormi fette di maggioranza, sempre più rincitrullite dalla cultura del vuoto e dell’intrattenimento, con le parole svuotate di significato e un analfabetismo dilagante. Non so se anche voi, come me, avete notato la dilagante diffusione del verbo “cosare”. Se non stiamo attenti, tra un po’ finiamo a parlare coi versi, ma non versi poetici, versi bestiali. Ma forse, come insegna il bunga-bunga, lo facciamo già.

Fatta l’Italia, restano da fare gli italiani, dicevano. Curioso no? Oggi cosa sono gli italiani nell’anno di questo pomposo anniversario di una disfatta e fasulla unità? Ovvio che un popolo di lettori è un popolo consapevole. E un popolo consapevole avrebbe saputo meglio difendersi da un monarca squallido, un essere stupido, cattivo e dannoso per gli altri. Non a caso, contro il manganello (e contro il potere), ci si difende con il book block (a riguardo segnalo due articoli su Giap e Carmilla).

Pensiamoci: è già tardi. Non troppo, ma già.

 

Allora il vecchio si appoggiò sulla poltrona. Mi guardò con gli occhiali più lucidi. Cominciò a farmi i complimenti. Disse che gente come noi ce ne voleva.  Che ce n’era ancor poca. Ch’eravamo dei santi. Ma la nostra magagna era stare nascosti. Perché non unire le nostre forze con quelle degli altri italiani? Che cos’è che volevano gli altri italiani? Farla finita coi violenti, coi cafoni, coi ladri, ritornare al rispetto di sé e alla legge, restaurare l’Italia e le sue libertà.

– Rovesciare il fascismo senza far altri danni, interruppe Carletto. [Cesare Pavese, Il compagno]

Gianluca Liguori

 

 

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Trauma cronico – Saluti e baci

Eccoci giunti all’ultimo appuntamento dell’anno con Trauma cronico, la rubrica va in vacanza per tornare domenica 3 gennaio 2010; segnatelo sul calendario nuovo di zecca, programmate la sveglia del cellulare, scrivetelo sui muri.

Sono un po’ stanco, la rete sfianca, devo disintossicarmi per qualche giorno del web. Negli ultimi mesi ho lavorato tanto per questo blog, appuntamento quotidiano per un numero sempre maggiore di lettori, voi, che ci date la forza di continuare a ricercare contenuti sempre nuovi. Colgo l’occasione anche per ringraziare a nome mio e di tutto il collettivo i tanti amici, scrittori ma non solo, a cui chiediamo di contribuire alla causa.

Per il nuovo anno speriamo di portarvi nuovi autori, giovani promettenti e firme già riconosciute nel panorama letterario nazionale. C’è qualcuno che sta già lavorando per noi, e per voi.

Il blog continuerà ad essere aggiornato ancora per qualche giorno, poi si prendrà un po’ di vacanza. Mertitata? Ditelo voi…

Domani c’è il consueto appuntamento del lunedì con la “Poesia precaria”, la rubrica di Andrea Coffami e Luca Piccolino. Vi anticipo solamente che ospiteremo una poetessa bravissima che ha letto ad un paio di reading insieme a noi. Avete capito? Scopritelo domani.

Martedì pubblichiamo la seconda parte del racconto diviso in tre di Daniele Vergni, L’inferno (il terzo sarà online il 5 gennaio).

Mercoledì infine chiudiamo i battenti rinnovando l’appuntamento per sabato 2 gennaio 2010 con l’undicesimo episodio del feuilleton politico surreale e grottesco di Simone Ghelli, La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia.

Per concludere ho piacere di segnalarvi qualche titolo di autori italiani usciti nell’ultimo biennio che ho letto quest’anno e che vi consiglio assolutamente. Purtroppo ne dimenticherò qualcuno, di quelli letti, e tanti, di quelli che ancora non sono riuscito a leggere. Ma credo di potervi dare ottimi suggerimenti. Leggete, e fatemi sapere.

Ecco a voi la mia piccola lista in ordine sparso:

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Giuseppe Genna, Italia de profundis

Vanni Santoni, Gli interessi in comune

Claudio Morici, La terra vista dalla luna

Peppe Fiore, La futura classe dirigente

Cristiano Cavina, I frutti dimenticati

Luca Moretti, Cani da rapina

Ed infine, perché no, Il cagnolino rise, l’omaggio a John Fante di vari autori, tra cui i precari Ghelli, Zabaglio e il sottoscritto.

Buone letture e fate i bravi.

Gianluca Liguori

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 7

[Leggi qui le puntate precedenti]

Ora, stando agli atti del processo gli è che il bubbone metifico – quello che lor poeti definirebbero invece sacro fuoco, o volontà di potenza, perché troppo si vergognano a chiamarlo col suo termine più proprio: ovvero un ego smisurato – insomma, quella cosa lì, crebbe a dismisura dopo una prima tappa sperimentale nella città partenopea, dove gli entusiasmi ribollirono a tal punto da convincere una signorina lì di passaggio a indirizzarli verso un luogo il cui nome ben si adattava alla veritiera natura dei cinque declamatori. Questo luogo si chiamava – e presuppongo si chiami tutt’oggi, poiché non compare nel registro degl’indagati – il Perditempo: un posto dove vennero accolti come cantori di un nuovo mondo, in modo così inaspettato che rimasero basiti davanti a chi porgeva loro in dono calici traboccanti di bevande senza che neanche vi fosse stata esplicita richiesta (quando invece, solitamente, erano costretti a far la questua per ottenere almeno un cicchetto omaggiato per sciaquare l’ugola dopo tanto profluvio di parole). Uno di loro poi, quello che si vantava dei suoi natali etruschi – che però era finito guardacaso a Roma per fornicar con le parole – finì talmente ciucco da concludere la serata con una barzelletta toscana; ché ci vorrebbero delle foto solo per vedere le facce tutte da ridere dei discendenti di Pulcinella, da immaginarsi con le orecchie protese e le mascelle spalancate nel tentativo di carpire qualche ci aspirata e inghiottita insieme ai sorsi di limoncello di Sorrento che il sommo vate trincava tra una frase e l’altra.

È di quei giorni lì la prima voce di una possibile alleanza extracapitolina, in cui sembrò confluire una misteriosa brigata partenopea, composta di scrittori dialettali e non, che spingevano per goder dei fasti di un nuovo 7 settembre*, per poi ritirarsi anch’essi, da veri intellettuali, senza ricompense e in qualche sperduto loco**.

Ad onor del vero quest’unione non s’ebbe poi a fare, e rimane una delle zone oscure di tutta questa stramba processione che vide le parole uscir dai loro ranghi come insubordinati non ligi agli ordini. Il dilemma non è affatto di poco conto, ché la risposta potrebbe confermare i legittimi dubbi sulla reale unità d’intenti tra i nostrani spadaccini di penna, soprattutto alla luce dei documenti recentemente resi noti dalla commissione di vigilanza web, dai quali emergono polemiche e risse verbali all’ordine del giorno tra questi tutori della cultura, che in quanto a ferir di lingua non sembravano da meno dei tanto vituperati giornalisti.

Insomma, stando ai prodromi si potrebbe oggi asserire che il piano partì già bello che zoppo, nonostante i facili entusiasmi che accompagnarono i cinque briganti durante il viaggio di ritorno in seconda classe, soprattutto quelli del poeta imbrattatore di mura, che fantasticava il buon ritiro in quel di Ausonia, ma solo dopo aver compiuto il suo dovere civico verso l’irriconoscente patria, che si burlava ancora una volta del coraggio dei proprio figli.

Il dado era tratto e i cinque si apprestavano a render giustizia non soltanto a coloro che già si organizzavano per l’espatrio, ma anche a chi, accerchiato dalla cultura dell’aggressione verbale, si accingeva mestamente ad alzar bandiera bianca: essi vollero dare esempio di strenua resistenza dinanzi a chi voleva accorciare la lingua italiana ai suoi minimi termini, per riportarla invece ai fasti, alla ricchezza e alla musicalità a lei più congeniali, proprio come ai tempi del Gadda e del Landolfi.

Simone Ghelli

* Il riferimento è alla conquista della capitale del Regno delle due Sicilie, dove Garibaldi fece il suo ingresso il 7 settembre del 1860, per poi sconfiggere le truppe del re Francesco II che si erano ritirate a nord del Volturno.

** Dopo aver accompagnato il re Vittorio Emanuele II a Napoli, l’8 novembre del 1860 Garibaldi si ritirò sull’isola di Caprera, rifiutandosi di accettare qualsivoglia ricompensa per i suoi servigi.

Non multa sed multum. Qualità della vita, qualità letteraria – 1

Non multa sed multum. Qualità della vita, qualità letteraria

Questo testo è la seconda parte di un’introduzione alla collana di narrativa Novevolt, curata da Enrico Piscitelli e Alessandro Raveggi, a partire dal 2011, per la casa editrice Zona. Il primo testo può essere letto qui, ed ha il carattere di un’apertura violenta del vaso di Pandora. Questo secondo testo, dopo l’apertura del vaso, ci guarda circospetto dentro, e si interroga sul futuro e la possibilità di scardinarne le pareti, o almeno distanziarle.

La collana Novevolt, oltre a proporsi come soggetto culturale nell’organizzazione di un festival letterario nazionale (ULTRA-Festival della letteratura, in effetti) e di altri progetti collaterali, auspicherà una promozione, attraverso piccoli libretti, romanzi brevissimi e racconti lunghi di autori affermati e giovani promesse, di luoghi quali la qualità, la densità e il rischio nella letteratura italiana. Le prime due uscite saranno gli autori Enzo Fileno Carabba e Franz Krauspenhaar. [Enrico Piscitelli e Alessandro Raveggi]

Viviamo, oggi, in una condizione in cui le nostre parole sono un nodo, una tag associata a un’informazione, verso le quali e dalle quali si irradia una rete, alcune reti, nella Rete. La Rete è un modello di autonomia relativa, di libertà limitata e temporanea, meravigliosamente anarchico e labirintico (per i fanatici del labirinto), ma anche ambiguamente accessibile. Siamo completamente accessibili, siamo completamente visibili, purtroppo, ovvero: vulnerabili. La Rete ha le sue falle e i suoi pescecani, che navigano a vista con i propri specchietti per le allodole tra i denti. La possibilità di essere fregati, di essere illusi, di perdere la nostra libertà, è paradossalmente maggiore. Dal Sistema anarco-capitalistico in crisi, dal mainstream che pur sta cercando di mimetizzarsi nella nostre forme di resistenza vitale, quasi biologica – per rinascere quando forse rinasceremo – si è sempre delusi.

Il diffondersi della letteratura nel mezzo partecipativo delle comunità-web italiane e mondiali ha moltiplicato quantitativamente i luoghi dove la qualità può (ma non necessariamente deve) essere rintracciata. Al di là della possibilità che le forme rapide di pubblicazione del weblog ci stanno offrendo, e del ricrearsi blando della comunità in una simulazione gioco in cui possiamo pur sempre mascherarci da avatar, bisogna preservarsi dal rischio del consenso qualitativo, ovvero dalla pretesa di valutare un testo come qualitativamente letterario, dipendendo dalla quantità di frequentazioni del testo, di apprezzamenti, di click, poll e commenti telematici. La letteratura qui viene spesso classicamente mercificata, anzi mercificata al secondo grado. “Non è merce, questa è letteratura, un nuovo modo cool di farla”, ma è sempre paradossalmente merce, termometro di consenso. Quello che vogliamo dalla qualità non è consenso, è diffusione e differenziazione, movimento di visione e divisione, non partecipazione da prova d’acquisto.

Bisogna comunque fare un tentativo per togliere uno strato immancabile di spocchia dalla nozione di qualità letteraria.

Cosa è allora questo richiamo alla qualità, in un mondo felice e utopico in cui Tutti scrivono Tutto, e in un mondo infelice e distopico in cui nessuno pare comprare i libri? Facciamo un parallelo. Cosa intendiamo con l’espressione qualità della vita? Il semplice adeguamento al gusto della massa (o della massa al suo gusto preconfezionato), la semplice capacità di possedere e dominare ammennicoli tecnologici, divani confortevoli e televisori al plasma, di essere oggi up-to-date e domani chissà…? Questa concezione non è più proponibile, visto che il modello economico che l’ha portata in auge sta crollando, o rientrando nel proprio guscio protezionistico (anche se forse lì dentro marcirà). La qualità della vita è ora molte cose assieme, un vettore di tante variabili in rapporto al nostro Welfare State individuale, ma sicuramente è una condizione in rapporto a una gittata, a una potenzialità futura. Appunto: la gittata delle nostre azioni future. Vivo qualitativamente bene se quello che faccio oggi potrà durare domani, senza per questo andare in cancrena, ma vivendo nella metamorfosi, nell’apertura, non in un eterno presente insipido. E questo vale sia per la classe media italiana in lenta fissione, che per i Paria dei paesi in via di sviluppo. Vivo qualitativamente bene non necessariamente se oggi possiedo un divano di lusso (o un libro in prima fila sullo scaffale), ma se potrò permettermi un divano anche domani, magari più piccolo, anche per i miei figli. La qualità della vita è così poter pensare alla propagazione, e metamorfosi, della mia vita, e della mia opera, domani. Ed è qualcosa che ha a che fare dunque con la possibilità (non l’obbligo) di fare figli, di riconoscersi in un’alterità che nasce dal nostro ventre.

Il disprezzo per i giovani che le generazioni che ci precedono dimostrano e hanno dimostrato, un disprezzo che si è caratterizzato come spettacolarizzazione della gioventù, almeno dal Dopoguerra a oggi – e che è uno dei nostri faticosissimi compiti annullare – ci fa capire che la loro visione di qualità della vita era necessariamente contraria alla nostra possibilità di propagarci, era in qualche modo castrante. Il benessere borghese è ed è rimasto un concetto statico e ottocentesco basato sull’accumulazione, l’appropriazione, l’accatastamento di beni, entrato in crisi proprio nell’era del consumo e della sovrapproduzione. Dall’accumulazione si è passati, linearmente, alla mercificazione della cultura. Questo dobbiamo ripensarlo. Sono le nostre discariche vicine e lontane che ce lo chiedono. Persino tutta questa discarica del senso che ci ha consegnato il cosiddetto post-moderno dimostra in fondo una mancanza, un dolore nascosto, anestetizzato più che esorcizzato, annullato più che ritualizzato.

Questo per dire che qualità non è possesso, una eudemonia: la qualità non si possiede, ma si produce, si narra, si propaga, si consegna e si perpetua, potendo guardare al di là del presente. Adesso speriamo che il parallelismo sia chiaro, anche se il rapporto vita/letteratura è obliquo, necessariamente inclinato, mai verisimile: la qualità letteraria è un insieme di forze che producono un effetto d’intensità, una durata che garantisce la possibilità di trasmissione. Effetto sul lettore, effetto sulla comunità, effetto sul futuro. Non è solo una questione di stile, ma di efficacia di stile. Per questo, la qualità letteraria sta, e a un tempo non sta, nella forma libro. Forma che molti (non noi) sono pronti a demolire o sorpassare, senza riuscire a pensare alla transmedialità originaria della letteratura, dalla lingua schioccante degli aedi alle USB roventi dei piccoli editori.

La qualità è così la capacità del libro, del romanzo, del poema, di prefigurare il futuro, uscendo da se stesso, uscendo dal proprio presente statico e cristalizzato del linguaggio e del desiderio. Qualcosa di molto vecchio e di molto nuovo. Senza per questo dimenticare il passato, anzi, rinnovando il desiderio di comprenderlo in quello che chiamiamo memoria. Già, la memoria: in Italia pare solo il nome dato al tour di un gruppo di partigiani, che vanno affaticati, di liceo in liceo, a rammentare i combattimenti su per i monti, le rupi e le brumose vallate. Già, l’Italia… Oggi più che mai, parlare di qualità letteraria in Italia, ancora senza snobismo e pretese decadenti, esotico-esoteriche, significa enucleare una serie di topic-salvagente non del tutto inutili anche per quello che si chiamerebbe condizione di vita (almeno nel Bel Paese). Il parallelo qualità letteraria-qualità della vita potrebbe diventare un’istruzione. Visto che paiono saltati da tempo i parametri di distinzione tra reale e finzionale, almeno dobbiamo trovare una strategia sostenibile per muoverci in queste ambiguità, un efficacia che ci permetta di distinguere. Non opere efficienti, che fanno il loro bravo lavoro di decalcomania feticistica della realtà, che rispettano il lettore e il suo mondo di agi e ombrelloni, ma opere efficaci.

Alessandro Raveggi e Enrico Piscitelli

* La seconda parte del testo sarà pubblicata venerdì 23 ottobre 2009

Precari all’erta! – Internet e letteratura

Per continuare coi rapporti tra internet e carta stampata, oggi vorrei focalizzarmi su un articolo uscito sul Corriere della Sera di giovedì primo ottobre, che riflette sull’influenza di internet sulla letteratura contemporanea, ricollegandosi in parte anche a un precedente articolo dello stesso Giuseppe Genna uscito il primo agosto su Milano Finanza.
Riassumendo, si può dire che in questo pezzo emergono due posizioni affatto nuove e apparentemente agli antipodi: da una parte quella che viene definita la vulgata degli “integrati”, rappresentata per l’occasione da Genna, e dall’altra quella degli “apocalittici” come Antonio Moresco. I primi sarebbero quelli che ripongono molta fiducia nel mezzo, nelle sue possibilità di rivoluzionare il linguaggio ed i suoi modi di fruizione, mentre i secondi apparterrebbero invece alla specie degli scettici che non si fidano della democrazia del web, che anziché rivoluzionare i linguaggi tenderebbe piuttosto a favorire il riciclaggio e la clonazione di quelli già esistenti.
La mia opinione è che entrambi i punti di vista siano condivisibili e che la loro inconciliabilità dipenda dal fatto che tendono a rimarcare, estremizzandoli, i possibili effetti (ancora tutti da dimostrare) del web sulle forme di scrittura (e non mi limiterei a considerare la sola letteratura).
Forse l’inconciliabilità di fondo tra le due visioni è piuttosto il risultato di un problema di metodo, poiché nell’articolo in oggetto mi sembra che si tenda a sovrapporre piani tra loro diversi: insomma, la letteratura e il panorama letterario sono due cose diverse, così come bisognerebbe chiarirsi sul significato specifico da dare alla parola linguaggio, che mi pare tenda qui a confondersi con la lingua e lo stile. Ecco perché i due discorsi apparentemente antitetici potrebbero in qualche modo ritrovarsi su un piano comune: Genna parla di spazi di discussione alternativi, mentre quello di Moresco è un discorso sulle forme; si discute sempre di web e scrittura, ma in due accezioni completamente diverse.
Il minimo comun denominatore delle due posizioni sta a mio parere nella stretta interdipendenza tra natura del mezzo e produzione di linguaggi, poiché se da una parte il web dà la possibilità di moltiplicare gli spazi di discussione, e dunque di allargare potenzialmente la sfera del sapere e il numero delle persone che vi possono partecipare attivamente (permettendo anche la nascita di quella nuova critica militante di cui parla Dario Voltolini alla fine dell’articolo), dall’altra esso può effettivamente favorire la diffusione di forme di scrittura più facilmente “normalizzabili”.
Per questo io sarei più portato a usare il termine scrittura (o ancor meglio scritture) in luogo di letteratura. Da un punto di vista strettamente stilistico il web può infatti essere un’ottima palestra di scrittura, di confronto (laddove vi sia però sempre un’adeguata attività “promozionale”, che permetta al blogger di turno di avere visibilità e dunque feedback), ma la sua influenza sulla letteratura (intesa come corpus di opere riconosciute da critica e pubblico) mi sembra si limiti per adesso ad alcuni sporadici casi “di tendenza”. Sicuramente il web influirà sulla velocità di scrittura, così come accade con gli sms dei telefonini, ma bisognerà capire quali sono gli effetti di queste modalità (che per molti è barbarie e perdita della lingua) quando precipitano fuori della rete (del mezzo specifico).
Mi sembrerebbe invece più prolifico un discorso sulle dinamiche della scrittura collettiva (le scritture – penso ad esempio all’esperimento del SIC o ai collettivi come Luther Blisset e Wu Ming), dove il mezzo in-forma realmente un modo di fare letteratura autonoma e originale, a differenza dell’esempio del blog che si riversa sulla pagina, che per quanto rappresenti una forma di letteratura direttamente derivata da internet, si presenta molto simile per dinamiche e struttura alla precedente produzione diaristica.

Precari all’erta! – Una terra promessa…

Vorrei fare alcune precisazioni riguardo alla mia iniziale provocazione sul tema “restare o partire?”. Si tratta di alcune riflessioni nate in seguito alla lettura dei tanti commenti alle varie note apparse su facebook, grazie alle quali il dibattito si è trasferito sull’inserto domenicale de Il Sole 24 ore prima e su Carmilla dopo.

Innanzitutto vorrei precisare che la mia intenzione di restare non è legata a un sentimento di patriottismo, ma si fonda sul presupposto che è a partire dal territorio su cui vivo quotidianamente (sul luogo di lavoro, per strada, negli spazi culturali più o meno ufficiali) che devo impegnarmi per migliorare le cose. È ovvio che mi ritrovi dunque a parlare del “sistema Italia”, e che mi debba confrontare con le logiche di quel sistema, altrimenti me ne sarei già andato e non mi porrei il problema in questi termini.

Una seconda precisazione, che mi sembrava già esplicita nei miei interventi: ritengo fuorviante metterla sul piano del coraggio. Non si tratta di una gara a chi è più eroe. Partire e restare sono due scelte opposte, eppure legate a uno stesso malessere, e questo è un valido motivo per ragionare senza porsi paletti o confini, magari creando una piattaforma comune dove poter confrontare le diverse esperienze. Precisato ciò, nelle guerre tra poveri siamo tutti un po’ eroi e un po’ fessi allo stesso tempo.

E qui veniamo al terzo punto, il più importante, quello di cui ho già parlato nel post precedente: cosa fare nella pratica? Una cosa che ho notato nei commenti, e che deriva dall’effetto “cascata” di internet (dove con facilità si possono spostare i confini di una discussione per allargarla all’infinito), è un malcontento diffuso, figlio forse dell’impossibilità di trovare delle cause ben definite della situazione attuale. Si parla naturalmente di responsabilità politiche (di destra e di sinistra), dei media, di una sorta di attitudine congenita degli italiani a lasciar fare, per non parlare di una serie di valori condivisi dalla maggioranza (ad esempio un certo maschilismo dilagante che l’ha fatta da padrone in quest’estate di “scandali rosa”) ma invisi a chi in questo dibattito è intervenuto. Questo per dire che prima del cosa fare, bisognerebbe forse chiedersi chi e quanti siamo, contarsi insomma.  La mia idea, col rischio di ripetermi, è che siamo in tanti ma sembriamo pochi, proprio perché parcellizzati in una serie di iniziative individuali che, se hanno il merito di dimostrare una forma di resistenza, corrono d’altro canto il rischio di rimanere isolate e di non offrire reali alternative. Alla resa dei conti siamo quindi una minoranza (o almeno è così che appariamo dinanzi all’opinione pubblica) ed è da questo presupposto che dovremmo partire.

La sinergia createsi in pochi giorni sul web è un esempio concreto di come possiamo muoverci, di come la rete possa scavalcare certe mediazioni tipiche di altri strumenti e offrirsi come possibile piattaforma di lavoro.

Proprio come dovrebbe accadere entro pochi giorni, con un nuovo blog dedicato al “precariato intellettuale” (scuola, università, editoria, etc), di cui ospiteremo un contributo.

E per concludere, vorrei prendere a prestito una frase estrapolata da un commento di Laura su Clobosfera, e che mi piacerebbe prendere come motto da tenere sempre a mente: “Non lavorate gratis per le università, lavorate gratis per la comunità, che vuol dire per voi stessi”.

Capito, cari i miei precari? Perciò state all’erta!

Simone Ghelli