Prisma

di Francesco Quaranta

L’obiettivo della Reflex è una stella fissa che turba il quieto buio di quell’angolo di stanza; dalla parte opposta, il faretto inonda di sole freddo il viso del professore.
“Il mio nome è professor Ulisse Urbani, ideatore e soggetto cavia numero zero zero uno del progetto Prisma”.
Una volta bastava contattare qualche rivista scientifica o attizzare l’opinione pubblica con espressioni come “nuova frontiera della scienza” o “scoperta innovativa”. Oggi, senza live streaming su Youtube, non vai da nessuna parte.
“A breve entrerò nella cabina alle mie spalle, dov’è alloggiato il dispositivo…”
Di solito mi occupo di riprese e montaggio di webseries, ma la mail del professore ha calamitato la mia curiosità come solo i primi video di Andrea Diprè sapevano fare.
“Se qualcosa dovesse andare storto… Dite alla mia famiglia che gli voglio bene. Tutto questo lo faccio per loro”, mormora, mentre io carico un suo scatto su Instagram: professore diventa cavia di esperimento senza fondi #nomoney #vergogna #ricerca #tette #ilcapitano #pontifex.
Poco altro succede, Ulisse Urbani si accarezza la testa rasata quasi a voler disperdere la nebulosa di incertezze e poi si alza lento, ma con fermezza.
Penso che qui ci piazzerò una bella colonna sonora di suspance trillata e sostenuta da una trama d’archi a sottolineare ogni suo passo.
Lui entra nella cabina e Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

La megafesta di compleanno di Satana

di Marco Marsullo

Satana, il Signore degli Inferi, ne aveva davvero le palle piene. Tutte le proposte canore per la megafesta del suo compleanno illustrate da Emilio Borraccia, il suo ufficio stampa, gli facevano letteralmente cagare.
Lui voleva qualcosa di tosto, qualcosa per cui i suoi ospiti si sarebbero dannati l’anima. Più che letteralmente.
Così, quella notte, in preda a una strana angoscia esistenziale si incollò al computer e fece l’unica cosa che gli tirava su il morale quando gli girava di merda: prese a guardare le vecchie puntate de I Ragazzi della Terza C su youtube.
Lo mandavano ai matti le scene col ciccione, quello coi capelli rossi, che poi dimagrì un sacco e finì a fare Forum con Rita Dalla Chiesa. A dirla tutta non è che dimagrì… Satana conservava ancora l’originale del Patto che strinsero a metà anni Novanta. Ma questa è un’altra storia.
Dopo essersene sparate quattro di fila, l’occhio gli cadde sui “video correlati”. Per lo più spezzoni della serie tivù College e video in cui Susanna Messaggio raccontava l’esperienza della sua maternità. Ma fu l’ultimo filmato a rapire la sua attenzione, cliccò su play.
Jo Monaciello (neomelodico satanista) – Zolfo e cioccolata.
Satana non poteva credere ai suoi occhi. Agguantò con entrambe le mani lo schermo del piccì e prese a urlare di gioia nel silenzio della sua stanza. In pochi attimi Borraccia si precipitò da lui.
«Che succede, signore?», chiese con l’affanno a spezzargli ogni parola.
«È lui, è lui!».
«Lui chi, signore?».
«Lui! Monaciello! Voglio lui a cantare alla mia festa!». Leggi il resto dell’articolo

Suonare il paese prima che cada

Suonare il paese prima che cada (Agenzia X, 2011)

a cura di Andrea Scarabelli 

Sceglie un campo minato Andrea Scarabelli con il suo Suonare il paese prima che cada, un focus, un’analisi sulla musica indipendente italiana degli anni zero, il decennio più controverso da Rock around the clock in poi. E Andrea, 28 anni, sceglie di far parlare, in primis, loro, i protagonisti, o almeno una buona rappresentanza della scena indipendente nostrana, che sviluppa una nuova generazione di musicisti, povera di mezzi, ricca di determinazione e di talento musicale e poetico. Leggi il resto dell’articolo

Generazione TQ. Il manifesto letto da uno scrittore trentacinquenne fuori dai giri

Una cosa è certa: la generazione trenta-quaranta è ossessionata dagli anni Ottanta.
Li buttiamo nel cesso, poi li andiamo a riprendere e li laviamo con cura. Li poggiamo sulla mensola dell’ingresso e aspettiamo che si impolverino, poi li prendiamo e li nascondiamo nello stanzino. Un giorno, mentre stiamo decidendo se andare al mare o cominciare a scrivere la storia che ci ossessiona da qualche mese, ci ricordiamo che sono rimasti chiusi nello stanzino per tanto tempo e li andiamo a riprendere, controlliamo che sia tutto a posto, li guardiamo e li ributtiamo nel cesso, tirando lo scarico. Dopo due giorni facciamo un’incursione disperata nelle fogne e li ritroviamo. Ce li contendiamo con topi e scarafaggi e li riportiamo a casa. Pulizia e restauro e di nuovo in bella esposizione sulla mensola di casa con tanto di foto trionfale su facebook. Non riusciamo a capire se ci piacciono da morire o se li detestiamo, se sono stati la nostra palestra adolescenziale o la nostra dannazione culturale. Ci vantiamo di essere andati a sentire gli Europe dal vivo al Teatroteam di Japigia e ci ricordiamo che a Bari quel giorno nevicava e che due giorni dopo uno che conoscevamo è morto di overdose (da eroina e non da ecstasy) e passiamo intere serate a guardare su youtube le frangettone di Sanremo ’83 e le migliori scene di Grosso guaio a Chinatown. Poi spegniamo tutto e leggiamo Pincio e Pynchon, Wallace e Barth, Vonnegut e Benni. Leggi il resto dell’articolo

Nuovi scrittori, nuovi lettori. KATACRASH: quando il New diventa Gnu

Leggere Katacrash significa mettersi all’ascolto di un racconto. Il suono, infatti, rappresenta lo scheletro, la struttura portante dell’intera narrazione (intercalari, onomatopee, titoli di canzoni). E non poteva essere altrimenti, visto che l’ultimo romanzo di Fabrizio Gabrielli (Prospettiva, 2009) mette in scena un genere musicale, l’hip hop, e tutto il mondo che ruota attorno alla cultura della doppia acca all’inizio del Terzo Millennio. Come già ricordato altrove, l’autore, circa dieci anni fa, rappava e si faceva chiamare Tsunami Kobayashi. Come a dire che Gabrielli conosce bene la materia di cui tratta. Un romanzo sonoro, interamente costruito sulla forza del linguaggio: l’utilizzo di modalità espressive contemporanee («svario», «benza», «spino»), di un lessico sempre meno famigliare e sempre più metropolitano («bro» per fratello, «bellalà»), contraddistinguono Katacrash, testo sperimentale che va letto ad alta voce con musiche in sottofondo, consigliate appositamente dall’autore (in calce al libro nelle Note a cura di Valentina Vitale). Già, perché il suono riecheggia ad ogni parola e il tratto fonico sovrasta perfino i significati delle parole stesse: ecco allora che MTV si trasforma in «emtivì», rap in «erre a pi», SMS in «essemmesse». La simbiosi tra i vocaboli e i suoni ha chiaramente la funzione di riprodurre i frangenti emozionali dei personaggi in tutta la loro completezza. Si tratta di un mélange che funziona, non fosse altro per quelle acrobazie lessicali che ci ricordano quanti forestierismi, acronimi o sigle hanno ormai contaminato la nostra lingua: «emmepitré», «occhei», «biemmevù». Lo spaesamento è forte, quasi non capisci cosa tu stia leggendo; poi, pagina dopo pagina, ti ricordi che l’autore decompone volutamente la parola per riproportela così come tu non l’avevi mai percepita.

Protagonista indiscussa del volume è la musica, segnatamente quella rap e hip hop, che accompagna la crescita di tre ragazzi di provincia dalle «braghe larghe»: il narratore e i suoi amici Gi (Gionata) e Donnie (Donato). Il Pro-epilogo catapulta il lettore all’interno di un condominio agitato a caccia di un «topo grosso così». Si mobilitano la polizia, i pompieri, tutti i condomini per il «rodeo»: lo scarto tra la descrizione seria dei comportamenti umani e la vacuità dell’evento descritto rende decisamente umoristica la scena inaugurale. La trama è affollata di nomi, situazioni, musiche, rimandi intertestuali (si pensi ai titoli che fanno il verso a ben più note canzoni ed opere letterarie). Trentasei capitoli brevissimi, veri e propri petits coups de pinceau, dove si aprono parentesi riflessive che per un attimo ti costringono a rallentare: figli che cercano modelli da imitare, mentre i genitori preconfezionano loro il futuro secondo le proprie ambizioni; o l’appuntamento fisso, ogni novembre, di manifestazioni studentesche: «magari avessimo letto il testo della finanziaria, avremo anche potuto decidere il perché dell’insofferenza» (p. 48). La punteggiatura (in particolare l’uso abbondante delle virgole) segue il fiato della voce narrante: soggetti messi per inciso, ordo verborum snaturato, termini riproposti in sillabazioni esclusivamente foniche (ken-ne-dici?) e parole stranianti che, invece, sei tu a dover dividere per comprenderle: «pocopiùchebambine», «vattelapescadove», «diotenescampi».

La scrittura di Fabrizio Gabrielli è il tratto originale del racconto: alla fine della lettura è come se in testa ti rimanesse un rumore, un ritmo, una melodia e non il ricordo di aver appena letto un testo. Un linguaggio martellante, un vortice che ti risucchia, un libro fuori le righe, così come instabile e per niente convenzionale è l’adolescenza di cui si narra, con le sue incertezze, precarietà, collassi: «avevamo un background culturale fatto di Otto sotto un tetto, Tangentopoli, Notti magiche inseguendo un gol nanninicamente e bennaticamente scanticchiato, film di Vanzina e al massimo i Quaderni di Gramsci, che solo il più rosso di noi aveva nella libreria anche se non significa che l’avesse necessariamente pure letto» (p. 21). Katacrash è la storia di «tre giovanotti infottati con la doppia acca che vivono la formazione deformata nel destino di una generazione degenere. Finché non arriverà il momento del fragoroso crollo. Fin quando non sarà Katacrash». Così l’autore ha spesso introdotto il suo racconto nelle innumerevoli presentazioni in giro per le librerie italiane.

Il romanzo fa parte della collana BraiGnu della casa editrice Prospettiva. Ricordo che, oltre Katacrash, sono usciti Patagonìa di Dario Falconi e Finefebbraio di Valentina Grotta. Cosa sono i libri BrainGnu lo leggiamo nel sito web della collana: «deflagrazioni emotive, naufragi letterari, derive metropolitane. Scalpitìo di zoccoli nella savana. Tutùm tutùm. Paradosso e mutevolezza. Baratri ameni ed incantevoli, voragini vertiginose e feritoie di luce. Gnu, perché New». Ed è questo il segreto vincente della casa editrice: la propensione al Nuovo, la volontà di dare voce a giovani scrittori (precari) che sentono il bisogno di raccontare il loro mondo, le loro storie, ma soprattutto la loro evoluzione. Niente di scontato. Nessuna ovvietà. I volumi della collana BrainGnu sono alti venti centimetri e larghi tredici, come il muso di un cucciolo di gnu. Tutti i libri hanno lo stesso layout grafico. Si somigliano molto, così come all’interno di un branco di gnu è difficile distinguere un capo dall’altro. Ogni titolo è composto da una singola parola, unica nota di colore su copertine rigorosamente in bianco e nero.

Numerose e degne di nota le attività che ruotano attorno a Prospettiva editrice. Su tutte giganteggia il Premio Carver, nato come contropremio letterario italiano e che si distingue, come avviene nelle migliori accademie americane, per la segretezza della giuria, la quale legge i libri a prescindere dal nome dell’autore. Libertà di giudizio e mancanza della non meritocratica equazione “nome autore-casa editrice” sono i punti cardine del premio diretto da Andrea Giannasi, già definito dalla critica come il Premio Strega o Campiello dei nuovi scrittori. Non vanno dimenticate, infine, la lodevole iniziativa di pubblicare le tesi di laurea ospitandole nella collana “I Territori”, il Giornale letterario, il Festival del libro di Civitavecchia “Un mare di lettere”. E poi il canale ProspettivaTV su youtube e la Rivista letteraria Prospektiva: ogni numero è monografico; l’ultimo, ad esempio, (il n. 52) è dedicato al tema della Traversata. Così la letteratura scende dalla torre d’avorio, fa passi in avanti, si apre ad un pubblico vasto e non per forza specialistico. E i libri, finalmente, vengono letti anche tra i più giovani.

 

Stefania Segatori

[Clicca qui per leggere un estratto di Katacrash]

FACEBOOK, UN LIBRO DI FACCE /2

Perché FB spaventa meno? Perché sostanzialmente è più simile al pianerottolo di un condominio o a una piazza, ovviamente rapportati al villaggio globale. Il motivo è semplice e basta ricercarlo nella natura dello stesso FB.

Non si tratta di un blog né di un sito né di un motore di ricerca: a differenza di un blog non ci sono ampie parti dedicate allo scritto, a differenza di Youtube non ci sono ampie parti dedicate ai video, a differenza di Google non ci sono notizie da trovare.

La vera essenza di FB è la possibilità di scrivere in una stringa risicata il proprio status, di poterlo commentare e di poter fare lo stesso con tutti gli “amici”. Certo, posso pubblicate degli scritti, ma in una sottoparte chiamata “Note”: ma quello che veramente conta è sapere cosa fanno gli altri miei “amici” grazie alle “notifiche”.

Il meccanismo posto in essere da FB è quello tipico del pettegolezzo: sapere tutto di tutti, come in ogni condominio che si rispetti, oppure – grazie alle foto – guardarsi in faccia e sapere qual è lo stato d’animo del mio “amico”, proprio come in una piazza. Non per nulla è il social network per eccellenza.

FB incute meno timore perché, senza voler essere ulteriormente rivoluzionario, recupera invece qualcosa: l’identità. Se i cybernauti dell’origine tenevano moltissimo all’anonimato, oggi si mettono in Rete con nome e cognome.

FB ha questo scopo, benché involontario, fin dal nome: un libro di volti. Tutti si debbono poter guardare, sapere chi sono e sapere come sono fatti. Basta con la menzogna.

Se prima si usciva di casa per sapere che facevano i propri amici, oggi ci si chiude in casa e s’interroga FB.

 

Antonio Romano

FACEBOOK, UN LIBRO DI FACCE /1

Secondo Time, l’uomo dell’anno 2010 è Mark Zuckerberg, il ragazzo che ha inventato l’unica cosa che anche i tecnodiffidenti utilizzano: Facebook.

Molte persone non riescono ad avvicinarsi alla tecnologia perché ne hanno paura e ne hanno paura perché non la conoscono. Non si tratta di persone stupide o particolarmente retrograde, piuttosto di persone non compatibili col meccanismo della Rete. In effetti le proprietà di questo meccanismo sono, per alcuni aspetti, davvero singolari.

Una delle quattro proprietà principali della Rete è la memoria.

La Rete conserva memoria di tutto, non è composta di verba ma di scripta, tutto “rimane agli atti”. Il problema è che questo modo di scrivere si avvicina, per emotività e velocità, più ai verba che agli scripta e tutti sappiamo quante sciocchezze dette a voce poi, a vedersele davanti per iscritto, farebbero arrossire. Questa “ipermemoria” conserva tutto ciò che scriviamo, tutto quello che digitiamo velocemente sulla tastiera con la leggerezza tipica della chiacchiera, in sostanza tutto ciò che ci passa per la mente viene fissato da qualche parte. È come una colossale intercettazione dei nostri pensieri: stati d’animo, battute di spirito, osservazioni finiscono nero su bianco nel cyberspazio, spesso senza il loro contesto originario, e così enucleate diventano tutt’altra cosa.

Un’altra delle proprietà principali della Rete è la velocità.

Questa proprietà nasce da tre caratteristiche ben precise della Rete stessa, che sono: multimedialità, orizzontalità e immediatezza.

Se siamo sul sito dell’ANSA a leggere un articolo sul premier islandese, grazie alla multimedialità, potremmo finire sul sito della tv russa a vedere un filmato o su quello della BBC per guardare delle foto o su quello della CNN per sentire una registrazione: non c’è più un solo documento da visionare, ma una catena di documenti visionabili che si legano tra loro tramite link.

Il fatto che i documenti siano fra loro collegati e che nella Rete non ci sia una graduatoria dei siti – se non quella dettata dai motori di ricerca – ci porta direttamente alla seconda caratteristica: l’orizzontalità non è altro che la tipica assenza di gerarchia del materiale di Internet. Non ci dobbiamo arrampicare per 1500 metri su una montagna per avere una stella alpina, ma “navigare” o “surfare” in un mare in cui tutto è al livello del pelo dell’acqua pronto a essere cliccato. La Rete è un oceano dove ci sono solo isolette collegate fra loro da un numero indeterminabile di canali: spetta a me decidere dove andare, perché la Rete non m’impone una salita ai 1500, ma solo una navigazione della rotta incerta.

Ma quanto tempo si perderebbe a girare questo sterminato arcipelago? Infinito, se non fosse per l’immediatezza del meccanismo, che consente di muoversi in “tempo reale”: invio una mail in Australia e in un secondo è arrivata, cerco la biografia di un attore e in men che non si dica è davanti a me, clicco su una clip di Youtube e immediatamente inizio a guardarla. Questa navigazione fulminea, però, ha bisogno di alcune condizioni: i contenuti devono essere scaglionati in capoversi per essere più leggibili, i post reperibili attraverso i tag per risparmiarsi la lettura sommaria di tutto, le frasi senza troppe subordinate o congiuntivi per non essere troppo impegnative, i siti “accessibili” e intuitivi, i colori accattivanti e allo stesso tempo riposanti, etc. Tutto, dall’ideazione di un contenuto alla sua pubblicazione on-line, viene semplificato per essere creato e fruito più velocemente possibile: è l’unico vincolo che il meccanismo richieda. Anche per questo postare qualcosa ragionatamente diventa difficile, perché mentre navigo voglio disporre subito dei contenuti, quindi i contenuti devono essere postati altrettanto velocemente: ecco come gli scripta diventano verba e possono diventare imbarazzanti.

Queste tre caratteristiche sono tutte menzionabili come velocità: da un media all’altro velocemente, da un sito all’altro velocemente, dal mio cervello al web velocemente.

Terza principale proprietà della Rete è la virtualità.

Per virtualità bisogna intendere l’esistenza di uno spazio che in realtà non è uno spazio, ossia di un luogo che sopprime tutti i problemi collegati col mondo fisico: in Rete non esiste la distanza, la Cina o l’Ungheria sono ugualmente vicine, parlare con un pakistano è facile come parlare col mio vicino di casa, tutto è a portata di clic.

Addirittura, per chi naviga sistematicamente, la vita on-line è molto più ricca e completa di quella reale. Quest’ultima vive di routine e regole precise, quella virtuale è imprevedibile (le rotte incerte) e informale (la velocità non può perder tempo in convenevoli). La vita in Rete è vertiginosa perché attraverso il modem tutto il mondo entra in una stanza: pur essendo irreale non smette d’essere autentica, è finta ma viva. Come tutte le fantasie è impalpabile e coinvolgente.

Quarta principale proprietà della Rete è l’autonomia.

Sul concetto di autonomia, come su quello di virtualità, bisogna intendersi. Autonomia significa darsi delle proprie leggi, cioè delle proprie regole e delle proprie parole d’ordine, vivere in base a quanto diciamo noi stessi e non in base a quello che dicono gli altri. Chi è autonomo è Demiurgo di se stesso.

L’esempio più eclatante di autonomia è il nickname, un’identità creata da noi stessi. Non siamo più come gli altri ci vedono (cosa tipica della vita reale), ma siamo come vorremmo essere: il profilo – che fa capo al nick – può diventare tutto quello che vogliamo, possiamo costruirlo su quello che desidereremmo essere, diventa lo specchio deformante in cui somigliamo al nostro ideale. La menzogna è facile in Rete perché la virtualità salva dalla realtà e se si pesa cento chili, ma sul profilo si scrive sessanta, per tutto il web si peserà sessanta e nessuno potrà negarlo perché nessuno è lì a guardare.

Possiamo mentire, d’accordo, ma non dobbiamo sottovalutare la memoria del sistema: se scriviamo in un sito che la nostra taglia è 56 e il giorno dopo, su un altro sito, scriviamo che pesiamo sessanta chili il sistema non lo dimentica e ci smaschera. Il bugiardo deve avere buona memoria nella vita reale, ma in Rete deve averla ottima. Solo a questa condizione l’illusione che creiamo può reggersi.

A questo punto poniamoci di nuovo la domanda: perché alcuni non sono compatibili con queste quattro caratteristiche?

La risposta che potremmo dare è la seguente: perché ognuna di queste porta con sé un paradosso.

Sembra una cosa da niente, ma un paradosso è come il pisello sotto il materasso della principessa: pochi se ne accorgono, ma quei pochi non riescono a far finta di niente.

Il paradosso della memoria è che, anche se scriviamo come se stessimo chiacchierando per strada, tutto rimane. Non conta cosa diciamo né come lo diciamo né se vogliamo che rimanga: resta e basta. Quindi la nostra volontà di conservarlo non conta. Una memoria simile è inconcepibile per un essere umano perché sopprime completamente il concetto di tempo: ciò che è stato detto anni fa è reperibile come se fosse stato detto ieri.

Il paradosso della velocità è che ha cambiato la natura del mezzo scritto: nato per conservare un pensiero ragionato si è trasformato nell’espressione dell’emotività. Prima lo scrivere comportava una mediazione razionale, una volontà precisa, un controllo su ciò che veniva detto; ora si tratta d’un getto di pensieri quotidiani, spesso non ponderati, spesso molto emotivi. Scritto e parlato, in Rete, non si distinguono quasi più e ciò influenza anche l’uso della lingua scritta al di fuori del web. Così come non si distinguono più i luoghi, perché grazie alla velocità lo spazio non esiste più.

Il paradosso della virtualità riguarda la capacità di coinvolgimento di una cosa finta. C’è senza esserci. È come immaginare una stanza: proprio perché non esiste nella realtà, ma solo nell’immaginazione può contenere qualsiasi cosa, contiene ciò che non si può (o non si vorrebbe) contenere. Non è un caso che il web sia definito “amplificatore”: si pensi all’eco che può produrre una stanza infinita.

Il paradosso dell’autonomia, infine, riguarda due aspetti della psiche umana. Il primo è quello della creazione, perché grazie al nickname creatore e creatura coincidono; il secondo è quello del narcisismo, che viene esasperato perché, se Narciso poteva distrarsi senza che nulla cambiasse, chi mente su se stesso in Rete dev’essere costantemente concentrato per impedire che lo specchio deformante si sconti con la dura realtà e vada in pezzi uccidendo la finzione. In Rete chiunque può giocare a essere quello che vuole (si pensi a tutti quelli che, prima di fare una strage, si filmano e si mettono su Youtube), ma per continuare a esserlo deve mantenere un’attenzione quasi paranoica.

Antonio Romano

Papà De Pasquale, buona sera

Era un periodo particolare della vita di Luca De Pasquale.
In qualità di amico, beh, diciamo che ero un po’ preoccupato. Ogni volta che andavo a casa sua, nel suo loft specchiato che affacciava su via Pigna, non percepivo più nell’aria la stessa tranquillità di prima. Luca De Pasquale era inquieto, lo avrebbe capito anche un cammello ritardato.
Poi, un giorno succede che trovo Luca De Pasquale conciato come Billy Idol che mi parla di Brendost, di Crain, della Dimensione 2000 (e di come questi fenomeni reagiscano combinati tra loro).
Quella cena si svolse in un clima artico, tra i suoi singhiozzi e i miei perché.
Tra la pasta al sugo e una fetta di pane della Conad, Luca De Pasquale vuotò il sacco: aveva voglia di avere un figlio, un figlio vero. Il cofanetto dei Rolling Stones, con il poster di Mick Jagger poco più che ventenne, non gli bastava più. Un figlio da vestire, da sfamare, un figlio da amare. Un figlio a cui tramandare lo scibile musicale, a cui leggere i propri racconti prima di farlo addormentare.

Sì, Luca De Pasquale aveva un problema. Un vero problema.
Certo, anche volendo – mi disse – dove lo sistemo in 26 metri quadrati un infante? E i soldi? E i libri per la scuola?

Insomma, eravamo nella merda.
Ascoltai devoto De Pasquale mitragliare lacrime napoletane e decisi di fare qualcosa.
Avrei dato un figlio a Luca De Pasquale.
Non biologicamente, certo, ma avrei fornito la prole in eredità al noto scrittore vomerese.
Quella notte, prima di salutarci, guardammo su you tube una serie di risse di Sgarbi e di gol di Batistuta e capii in che direzione dovevo muovermi. Diedi la mano a Luca De Pasquale e, prima di svicolare definitivamente dal suo loft specchiato, gli feci una promessa: Luca De Pasquale farò qualcosa per te, te lo giuro su Maradona e su Dio Universale. E solo lui conosceva la reazione di questi due fenomeni combinati insieme.
Scesi in strada, il freddo schiarì definitivamente le idee. Il giorno seguente sarebbe partita la mia missione.

Mi svegliai di buon ora (la mezza) e mi recai in un’agenzia del centro che affittava macchine, scooter, motoscafi e mongolfiere alimentate dal sacro fuoco di Brendon. Noleggiai una Panda bianca, annata ’82 come i mondiali di Espana (targata NA Y87632), e – fatto il pieno di benzina e Dimensione Acrain – presi l’autostrada.
Sarei andato in Romania a prendere un figlio a Luca De Pasquale. Un bel bimbo biondo, ignifugo al fuoco sacro di Crain e Brendost, possibilmente agghindato in una maglia di calcio pezzotta di qualche squadra italiana. Questi, i requisiti che avevo letto nelle parole di Luca De Pasquale.
Mi gonfiai il petto d’orgoglio in un respiro pavone: ce l’avrei fatta e Luca De Pasquale sarebbe stato di nuovo contento. Sarebbe tornato a scrivere di cosce tornite in calze sguainate, di coiti a ritmo di Progressive Rock e di monolocali. Insomma, avrei donato al mondo – nuovamente – il miglior scrittore della provincia oscura.
All’altezza di Bologna rischiai, però, di prendere fuoco. Crain e Brendost facevano l’autostop in una piazzola d’emergenza ed io non li avevo riconosciuti a primo acchito. Avevo addirittura fermato la Panda (a “piede”, ché i freni, dopo una certa velocità, perdevano colpi) per farli salire ma, fortunatamente, mi resi conto in tempo che i due fenomeni, combinati, mi avrebbero fatto prendere fuoco all’istante. Sgommai via in una nube di fumo. Dovevo tenere gli occhi aperti 24 ore su 24; Brendon e la Dimensione 2000 mi stavano col fiato sul collo, mi erano ostili, era evidente.
Se mi fossi rilassato un solo istante mi avrebbero fatto prendere fuoco come un arrosticino dimenticato sul grill e arrivederci alla Romania, al sorriso di Luca De Pasquale e alla letteratura italiana del primo XXI secolo.
Arrivai al confine dopo venti ore di viaggio, con la Panda per metà in fiamme. Valicai la dogana a Tarvisio travestito da monaco leghista, con la maschera popolare del luogo (Borghezio Power Ranger) così da non destare sospetti, e mi addentrai nel ventre dell’est Europa.
Avrei traversato l’impervia Slovenia prima di arrivare in Ungheria, dove avrei fatto una breve sosta di qualche ora per girare un porno ambientato in un casinò barocco.
Ma le cose non andarono esattamente secondo i piani.

Vissi avventure incredibili; tra fiches, vibratori al gusto lampone selvatico e seni rifatti che parevano budini Cameo. Divenni Marco “twentyfour” Marsullo e la gente iniziò a riconoscermi per strada. Mi salutavano, inneggiando al sesso libero.

La ricchezza mi diede alla testa; in breve tempo i fumi viscidi del danaro – manna ingannatrice mandatami da Crain in persona – mi destabilizzarono, impedendomi di ricordare la missione per cui ero partito dall’Italia appena qualche giorno prima.
Poi, come d’incanto, la mia illuminazione sulla via di Damasco. Mi apparve, vivido come se non fosse un sogno ma la vera verità, Giuliano dei Negramaro che danzava sinuoso su un motivetto un pop porno.
Giuliano dei Negramaro mi ricordò il perché di tutto questo, riconsegnandomi le chiavi della Panda – che avevo scioccamente sostituito con una Saab decappottabile – dicendomi che per il pieno di benza ci aveva pensato lui. Lo ringraziai, lui si spogliò e mi obbligò a guardarlo avere sei rapporti sessuali con se stesso. Lo scotto da pagare per chi perdeva la retta via, pensai.
Il mattino seguente, dismessi i panni del pornodivo magiaro e fattomi laserare via il tatuaggio di Rocco a Praga, mi rimisi nella Panda, pronto a traversare gli ultimi chilometri della mia Odissea personale.
Mi accorsi che Giuliano dei Negramaro aveva lasciato sul sediolino posteriore dei suoi slip usati. Deciso a non farmi più distrarre da nulla, li scaraventai fuori dal finestrino e sgommai alla volta della Romania.

Dopo qualche ora sulle strade rumene, mi parve di essere tornato a casa, nella Napoli che ricordavo. Groviere d’asfalti e pozze d’acqua marroni mi accolsero, come presagio di labirinto mentale. Era chiaro che Crain, Brendost e perfino Brendon, si erano adunati al confine tra la Romania e la Dimensione 2000 per farmi perire, proprio a pochi passi dalla meta.
Raggiunsi Otopeni, piccolo sobborgo nei pressi di Bucarest. Avevo letto su internet che lì scambiavano bambini, sani e bellissimi, con figurine di Roberto Baggio e Totò Schillaci. Ovviamente ero pieno di effigi dei due celebri calciatori.
Arrivai nel centro abitato e venni accolto da festoni colorati e dalla banda cittadina, vestita con le maglie della Dinamo Bucarest (mi dissero poi che era il loro completo per la festa). Venni sfamato, vezzeggiato e proclamato cittadino onorario. Il sindaco, un trans di nome Venezuela, mi consegnò le chiavi della città. La Panda venne lavata, a mano, da degli immigrati calabresi. Mi dissero che al mattino seguente mi avrebbero portato al bambile per scegliere l’infante che avrei preferito, ma prima volevano vedere la merce, le figurine. Con una certa tracotanza sbattei sul tavolo il codino di Baggio e gli occhi spiritati di Schillaci durante Italia ’90. Un boato accompagnò il movimento.
Festeggiammo per il resto della notte con le note di “Vamos a bailar” di Paola und Chiara, tra fiumi di vino in cartone e dolci calabresi fatti in casa.
Mi portarono, che era praticamente l’alba, nella mia tenda, augurandomi una buona notte. Dopo qualche ora saremmo andati a scegliere il bambino.

Il bambile era un luogo tutt’altro che deprecabile. I bambini erano tenuti in ampie gabbie riscaldate, con timer automatici per il rifornimento di acqua e biscotti Plasmon, che irrigavano le ciotole dall’alto con un meccanismo computerizzato gestito da un Ibm 3.86 (compatibile).
Fui molto critico nell’osservare i marmocchi. Luca De Pasquale si meritava il meglio, non avevo dimenticato i requisiti di scelta, ma pareva non esserci trippa per gatti. Chi era troppo grasso, chi non aveva un occhio, chi era convinto di essere un vampiro. Insomma, stavo per mollare e riprendermi la mia figurina di Baggio che calcia la punizione con la maglia della Juve, quando in un angolo notai un bimbo mingherlino fasciato da una maglia della Cremonese degli anni ’90, quella col numero 11 di Andrea Tentoni, ex idolo della curva di Cremona. I fluenti capelli biondi coprivano un po’ gli occhi azzurri, e un sorriso sdentato sembrava dire: “Prendimi, prendimi, forza Cremonese, alè alè”.
Non esitai oltre. Indicai l’infante e scelsi di portarlo con me. Rinunciai alla confezione regalo, salutai i miei amici rumeni (ancora la banda cittadina accompagnava l’operazione, intonando stavolta una canzone di Sabrina Salerno) e mi rimisi in viaggio per tornare in Italia con Florian, il nuovo figlio di Luca De Pasquale.

Mentre macinavo i chilometri nel verso opposto, pregustavo la faccia di Luca De Pasquale che, al ritorno dal reparto dischi dalla Knack, avrebbe trovato in casa Florian. Florian De Pasquale.
Insegnai, nei due giorni di viaggio, l’italiano al bimbo. Gli fissai in mente delle frasi da dire una volta visto il nuovo genitore. Florian sembrava piuttosto recettivo, tant’è che aveva imparato tutto a menadito già all’altezza di Padova Est.
Le ultime ore di viaggio sgusciarono via in un tramonto che sapeva di liberazione: ce l’avevo fatta.
Quella notte, quando arrivai a Napoli, uscii direttamente al Vomero dalla tangenziale (andando piano perché c’erano i tutor attivi), direzione via Pigna.
Entrai nel palazzo di Luca De Pasquale che Luca De Pasquale non era ancora tornato. Ne avevo la certezza perché quel giorno, in Knack, aveva il turno dalle 6 alle 24.
Corsi con Florian fino al secondo piano dello stabile e, arrivato di fronte alla porta di Luca De Pasquale, la sfondai con un calcio.
Stella, la gatta strabica, mi accolse rotolandosi sul marmo gelido. L’accarezzai e la feci socializzare con Florian, che pareva amasse gli animali.
Preparai una pasta al sugo col battuto GS e attesi che Luca De Pasquale tornasse dalla Knack per mostrargli la clamorosa sorpresa. Florian sembrava vivesse lì da sempre. Aveva già iniziato a giocare con i dischi dei Prodigy, costruendo una tana con i vinili e i cuscini del letto.
Poco dopo la mezzanotte sentii la porta aprirsi (a mano, era sfondata!) e vidi un intimorito Luca De Pasquale solcare il mini corridoio per arrivare nel salotto (che poi è il resto del loft).
Appena mi vide rasserenò il volto in un’espressione compiaciuta. Sorrise liberato, dicendomi che aveva avuto paura che ad entrare fosse stato Crain o, peggio ancora, Brendost l’ignifugo. Solo che, non vedendo il fuoco, si era insospettito. Era stanco in volto e nei gesti.
Gli dissi: “Luca De Pasquale ho una sorpresa per te, guarda!” e lasciai uscire da sotto il letto Florian, ancora avvolto nella maglia della Cremonese di Tentoni.
Il bimbo, riconosciuto il nuovo padre dalla mia descrizione sommaria, gli saltò al collo.
“Papà De Pasquale! Scrittore! Papà De Pasquale! Buona sera”.
Luca De Pasquale scoppiò a piangere e iniziò a maledire Crain, Brendon, Brendost, la Dimensione 2000 e Dio Universale.
Da allora Luca De Pasquale e Florian De Pasquale vivono insieme nel loro loft, giocando a subbuteo, ascoltando heavy metal e leggendo, rigorosamente insieme, i racconti che papà De Pasquale scrive ogni notte. Tra cosce tornite e autoreggenti ombrate.

Nota dell’autore:

Crain, Brandost, Acrain, Brendon, Dimensione 2000 e Dio Universale, sono parti della mente del notorio mago campano Gennaro D’Auria.

Durante la stesura di questo racconto nessun bambino è stato maltratto. Solo la lingua italiana, ne ha risentito un po’. Ma niente di che.

Marco Marsullo