In balia di una sorte bizzarra e cattiva

Prima che fosse un tutt’uno assordante di vuvuzela e waka waka a loop, prima che il carrozzone zulu, che poi lo sanno mica tutti che letteralmente zulu è rumore, s’irradiasse nell’etere mondiale, c’è stato un tempo in cui il pallone nel Cuore di Tenebra aveva il suono ovattato ed il fascino atavico del suono dei tamburi nella foresta tropicale.

In Africa l’europeo ha colonizzato tutto il colonizzabile, sfruttato lo sfruttabile, devastato il devastabile. Anche sui campi di calcio. Ha cercato di indottrinare centravanti indisciplinati, gente come Georgie, imprimendogli direzioni obbligate, insegnandogli l’amara lezione che a prender le decisioni, poi, son mica mai loro.

Ma s’è stupito, poi, certe volte. Stessa espressione che deve aver avuto Livingstone quando s’è imbattuto nelle Cascate Vittoria, stessa espressione che deve aver avuto Stanley quando s’è imbattuto in Livingstone, poi, Mr Livingstone, I suppose, davanti a certe storie.

Lo stupore!

Mr Bwalya, I suppose.

Di Bwalya in campo ce n’erano due, in realtà, quel giorno del millenovecentottantotto, a Seul. Si giocava Zambia-Italia, primo girone della fase eliminatoria. Dov’è lo Zambia?

A Seoul il mare non c’è. C’è un’abitazione a forma di cesso, quella sì, ma il mare, ecco, il mare proprio no. Neanche in Zambia c’è il mare. E nemmeno l’abitazione a forma di cesso. Ci sono abitazioni che sono cessi, quello sì. C’è la povertà. Ci son quelle ròbe che l’europeo colonizzatore non ha saputo risolvere. Non ha voluto risolvere. Il calcio dello Zambia: terzomondista.

In quella nazionale olimpica italiana, invece, c’erano Roberto Cravero e Angelo Colombo che sapevano a memoria Onda su onda di Paolo Conte ed ignoravano dove fosse Lusaka.

Il giorno dopo il match gli venne da canticchiarla, onda su onda il mare ci porterà alla deriva e gli venne poi da aggiungere in Bwalya di una sorte bizzarra e cattiva. Non risero, però. C’era ben poco da ridere.

Essere ubriachi, in ispagnolo, si dice tener resaca. Come la risacca delle onde.

Ubriachi sembravano tutti e undici, i calciatori italiani, in balia degli zambiani che avevano magliettine d’un arancione spento, pantaloncini dello stesso colore, i numeri sulla schiena che neanche si scorgevano. Da quei pantaloncini: fasci di muscoli color dell’ebano. Erano filiformi, sinuosi ed inarrestabili come un branco di gazzelle. Denti bianchi e collanine d’oro. Nomi che rimbombavano come tamburi di guerra nella foresta.

Makinka, Chomba, Chabala, Chikwalakwala, Chansa, Mumba, Mwanza e Mulenga. Musonda, Jonson Bwalya. Kalusha Bwalya.

Jonson, il meno conosciuto dei Bwalya, segnò la rete del tre a zero con una stafilata da trenta metri dopo aver messo con le chiappe a terra tre italici centrocampisti.

Kalusha, figlio di minatori nato in una capanna di fango col tetto di paglia quando lo Zambia era ancora Rhodesia del Nord, uno dei migliori talenti che il calcio non solo dello Zambia ma di tutto il Continente Nero abbia mai espresso, le rimanenti tre.

Per le strade della capitale Lusaka fu il finimondo. Come e meglio di quando s’ottenne l’indipendenza. Come e meglio di quando si smise di chiamarsi Rhodesia e si divenne Zambia.

Per noialtri, una delle peggiori Waterloo che il nostro calcio ricordi. Una tragedia.

Quanta leggerezza tendiamo a dare alla parola tragedia.

Il 28 Aprile del 1993 il volo della Gabon Air che trasportava i Chipolopolo, i proiettili di rame, diretti a Dakar per un match di qualificazione ai mondiali yankee, si schiantò in mare. Nessun sopravvissuto. Nessuno. Questa, è una tragedia.

Su quel volo c’erano otto degli undici titolari nel match contro l’Italia. Nomi che rimbombavano, ora, come tamburi in un rito funebre.

Makinka, Chomba, Chabala, Chikwalakwala, Chansa, Mumba, Mwanza e Mulenga.

Se ne salvarono tre, non foss’altro perché militavano in team europei ed avrebbero raggiunto il Senegal separatamente. Charlie Musonda. Jonson Bwalya. Kalusha Bwalya, allora stella del Psv Eindhoven.

Da loro ripartì la dura e commovente cavalcata verso un sogno chiamato Mondiali.

Non ce la fecero, a qualificarsi.

Ma a nessuno, nessuno, venne in mente di parlare di tragedia.

Fabrizio Gabrielli

5 Responses to In balia di una sorte bizzarra e cattiva

  1. Andy Q. says:

    grazie di avermi messo al corrente di questa vicenda.

  2. Pingback: Fútbologia « Scrittori precari

  3. lospera says:

    Cravero era Roberto e non Paolo, 🙂

  4. Matteo Gallo says:

    Gran bel pezzo, complimenti. Le andrebbe di collaborare con VAVEL, giornale sportivo online? Se interessato per favore scriva a matteo.gallo@vavel.com o info@vavel.com

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