Il paese di Dio

Il paese di Dio (Nutrimenti, 2011)

di Percival Everett

 

 

Dove comincia il West? Per Percival Everett molto lontano dai luoghi comuni .

Nutrimenti (che ha pubblicato tutti i romanzi dell’autore americano in Italia) regala la traduzione del romanzo parodistico del 1994, God’s Country.

Un vero western che vede protagonista Curt Mader, antieroe per eccellenza, con tutti i difetti che i bianchi dell’epoca (solo dell’epoca?) potevano avere: codardia, xenofobia, ingenuità bifolca, sessualità pronunciata e tante balle pronte ad essere servite alla prima occasione.

Tutto comincia molto semplicemente.

Il protagonista si ritrova ad assistere alla distruzione del suo ranch, al rapimento della moglie Sadie e all’uccisione del suo cane. Spettatore di questa devastazione da dietro una collina fuori dalla portata delle pistole ovviamente.

Cosa fare dunque? Andare in città a chiedere aiuto e a cercare anime compassionevoli, con la sola amara constatazione che a tutti dispiace per il cane e se ne sbattono del resto, a tutti piange il cuore per quel cane ammazzato da un freccia indiana fatta con piume di gallina. Bianchi che assalgono altri bianchi.

Senza pensarci troppo si imbarca alla ricerca dell’unico uomo che, a detta di tutti, può aiutarlo: il braccatore Bubba. Un bravo braccatore, peccato che sia negro, peccato che sia negro nel west, peccato e basta.

Sulla strada incontra il piccolo Jake, orfano a causa dello stesso gruppo di scellerati visi pallidi che giocano a fare i pellerossa, e da lì la compagnia sembra essere pronta al viaggio.

La vicenda prende una piega assolutamente funambolica, tra venditori di bibbie, di pozioni miracolose, accampamenti indiani, fughe da bordelli, deserto, deserto e poi deserto Americano. Tutto per Sadie. Questa Sadie che sembra essere il primo e l’ultimo pensiero di Curt.

A farla da padrone dialoghi che sembrano usciti da Cocco Bill e Lucky Luke, ambientazioni cine fumettistiche e il tema della segregazione razziale nella terra delle grandi opportunità, dove il sogno americano è basato sul morire con le mani nelle tasche altrui, anziché morire con le mani in mano.

Romanzo come sempre trasversale e altamente satirico, che non sembra soffrire degli anni passati dalla prima pubblicazione grazie anche alla sempre attenta traduzione.

Naturalmente non mancano i colpi di scena e gli incontri “storici”, come il Generale Custer in gonnella … quante ne capitano nel paese di Dio!

 

Alex Pietrogiacomi

Inutilissima nota sull’amore

«Cos’è il piacere se non un dolore straordinariamente dolce?» si domandava Heinrich Heine. Bussy Rabutin, invece, sostenne: «Quando non si ama troppo non si ama abbastanza». Quindi, si potrebbe dire, che amare consiste nel provare un enorme dolore estremamente piacevole. Ma qual è un dolore estremo ed estremamente dolce?

«L’offesa più atroce che si può fare ad un uomo è negargli che soffra,» scrive Pavese ne Il mestiere di vivere. Ma lui s’è tirato un colpo: non fa testo. Per lui la morte era il dolore estremo più dolce. Un dolore atroce che è durato una frazione infinitesimale di secondo per donargli una dolcezza che dura ancora e durerà per sempre.

Dio, quando decreta la nostra morte, in realtà ci vuole regalare un atto d’amore a orgasmo multiplo.

Nella premessa al film L’oro di Napoli si legge: «Noi ne mostriamo soltanto una piccola parte, ma troverete egualmente tracce di quell’amore, di quella pazienza e di quella continua speranza che sono l’Oro di Napoli». Amore, pazienza, speranza. Partendo dall’assunto che l’amore è dolore dolce ed estremo, che la pazienza è sopportazione del dolore e che la speranza è prospettiva della fine del dolore, potremmo dire allora che Napoli è la città dove meglio si vive la dolorosa estasi dell’amore.

E allora perché tutti dicono che l’amore è una cosa bellissima? Perché si dicono questa menzogna incredibile? Perché temono che poi nessuno più accetterebbe d’innamorarsi?

«La menzogna più frequente è quella che ciascuno fa a se stesso; il mentire agli altri è un caso relativamente eccezionale,» dice Nietzsche ne L’Anticristo. Ma allora l’amore è una menzogna prodotta da noi stessi per noi stessi? Non creiamo l’amore per la persona amata, ma solo per noi.

Ritorna una mia vecchia idea: l’amore è autolesionismo e noi siamo masochisti.

E nemmeno Lina Sotis, ne Il colore del tempo, sembra darci la prospettiva di una fine («Fine. Non ci sperate, si ricomincia sempre»).

E questa continuità si moltiplica per ogni essere umano, per ogni momento della storia, per ogni etnoantropologia. «Gli argentini sono spagnoli, vivono come italiani, studiano in scuole inglesi e vorrebbero essere francesi,» dice Borges, condannando inconsapevolmente gli argentini alla sofferenza d’amore concentrata di spagnoli italiani inglesi e francesi.

E anche se, come ci dice la canzone, basta che ci sta il sole basta che ci sta il mare, nemmeno potremmo dire di amare il mare visto quello che Debussy scrisse nel 1904 all’editore Durand («La gente non ha sufficiente rispetto per il mare… Non dovrebbe essergli permesso d’immergervi quei corpo deformati dalla vita quotidiana…»). O forse sì: il non rispetto è creazione di dolore altrui. Una dimostrazione più grande di questa non credo sarebbe possibile.

Ma, visto che continueremo a soffrire e a far soffrire per amore godendone come dei pazzi, mi sa che è meglio chiudere qui questa nota.

Antonio Romano

Lo Spreca? Meglio l’Amaro del Mago

Questo articolo è apparso precedentemente sul «Gazzettino dello Scrittore Novello» (perdonerete, quindi, se a distanza di tempo possa presentarsi un poco sfiatato).

Parola dello scrittore di culto Andrea Coffami, che, interpellato sulla possibilità di trovare due lettori che lo presentino al Premio Spreca, ha risposto laconico: «Io mi presento da solo, e bevo soltanto Amaro del Mago».

Stando alle parole del diretto interessato, la storia della candidatura del maestro dell’irriverenza sembrerebbe insomma la solita bufala montata ad arte per far salire l’audience. L’ambiente delle lettere, già surriscaldato dal timore per la sua partecipazione, si è improvvisamente ritrovato disorientato, incapace di spiegarsi una scelta talmente suicida: «Avrei capito il Peroncello,» ci spiega un attonito addetto ai lavori (volutamente anonimo, per non alimentare ulteriori polemiche), «ma scegliere l’Amaro del Mago è un chiaro sintomo di perversione».

A distanza di poche ore, lo stesso Coffami si è dimostrato perplesso sulla sua decisione: «Ho saputo solo in seguito che è previsto anche il buffet,» ha ammesso, «ma ormai hanno chiuso le prenotazioni».

Tra i suo fan, c’è chi già si dispera e chi invece interpreta la scelta del suo beniamino come l’ennesimo gesto anticonformista nei confronti del sistema: «Che altro poteva fare?» si chiede Luca (uno che ha persino i primi cd autoprodotti con la voce dello scrittore incisa su basi neomelodiche), «Lo hanno ignorato per anni, e ora che il suo stile dà scandalo, tentano di addestrarlo per far divertire i benpensanti».

Non è dello stesso avviso Gianluca, che invece di Coffami conosce soprattutto il lato poetico: «Un po’ di non sense avrebbe fatto senz’altro bene a un premio in cui gli scrittori si prendono un po’ troppo sul serio».

Comunque vada, questa nuova edizione del Premio Spreca sembra aver riaperto una vecchia questione nel mondo dell’arte tutta e non solo della letteratura: ovvero se sia possibile rimanere puristi fino in fondo; oppure, visto che le mani bisogna proprio sporcarsele, se non sia allora meglio approfittarne e lanciarsi nella vasta gamma dei compromessi accettabili.

Che i più si proclamino puristi per poi accapigliarsi al momento dello scrutinio, non è d’altronde una novità, ma anche questo aspetto fa in fondo parte dello spettacolo: ecco dunque spiegato il motivo di tanta attenzione nei confronti delle capriole linguistiche di Andrea Coffami, che (c’è da starne certi) avrebbe fatto saltare i nervi a più d’un concorrente.

Lo stesso scrittore, nel corso dell’intervista che riporteremo integralmente soltanto dopo la proclamazione del vincitore 2011, si è poi dichiarato dispiaciuto di perdersi l’evento: «E io che me l’immaginavo una serata noiosa,» si è sfogato, «con i giornalisti che si contano i peli del naso mentre gli scrittori ricordano al pubblico tutti i patimenti passati e i sacrifici che hanno dovuto affrontare per arrivare fin là…»

Insomma, nonostante le accuse di usare un linguaggio volgare e provocatorio al fine di mascherare i propri difetti stilistici, Andrea Coffami dà invece dimostrazione di un’ingenuità che farà sorridere (se non proprio ridere) i più scafati scrittori dell’entourage letterario, che a forza di spingere e lamentarsi un posto a tavola lo trovano sempre.

Infine, una nota di colore. Lo scrittore dalle origini indefinite (alcuni dicono la Ciociaria, altri i Monti Ausoni, altri ancora persino la Costiera Amalfitana) s’interroga candidamente sul nome dell’ambito premio letterario: «Non ho ancora capito se si chiama Spreca perché ci vanno tutti gli avanzi, o perché durante la serata si butta via un sacco di roba».

Davvero un peccato che al suo posto si siano ormai prenotati i denti di qualcun altro…

 

Sforbiciaudio – Georgie Blues *

* Se proprio volete leggere Georgie Blues, lo trovate qui.

“L’io so del mio tempo”. Il dilemma pasoliniano in “Gomorra” di Roberto Saviano

[Intervento di Matteo Pascoletti precedentemente pubblicato sul suo blog]

Nel romanzo Gomorra, c’è un episodio in cui il protagonista e voce narrante si reca presso la tomba di Pier Paolo Pasolini per recitare quello che definisce «L’io so del mio tempo». In questa espressione si possono notare due tratti: un tratto connesso ad una visione storicizzata del rapporto tra intellettuale e Potere (che in Gomorra è Potere economico e territoriale); un secondo tratto che, da questa visione storicizzata, isola un precedente illustre, ossia Pier Paolo Pasolini, e si pone su questa scia per denunciare, nel lasso di tempo che intercorre tra l’articolo di Pasolini Che cos’è questo golpe? (1) e Gomorra, il processo di trasformazione del cittadino in consumatore, e le devastanti conseguenze a oltre trent’anni di distanza. Come si vedrà, il secondo tratto si palesa in relazione ad un altro precedente illustre, Luciano Bianciardi, che ne La vita agra ha ferocemente puntato il dito contro l’Italia del boom economico. È bene ricordare che il Pasolini dell’«Io so», impossibilitato a denunciare i responsabili di quei golpe che proteggono il Potere, è un intellettuale moralmente avverso al processo in corso, considerato un «nuovo fascismo»; ma come intellettuale, pena l’esautoramento del proprio ruolo o il suo tradimento, è eticamente impossibilitato a interagire con quel Potere che, scindendo la verità politica dalla pratica politica, favorisce il processo di trasformazione; un intellettuale non può separare la sfera dei valori da quella della prassi, dunque è impossibilitato, pur sapendo – e qui sta il dilemma – che ciò garantirebbe l’accesso a quelle prove o indizi. «Io so», dice Pasolini, «perché sono un intellettuale». «Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. […] Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi» (2).«L’io so del mio tempo» rompe questo schema, e lo rompe perché Saviano lo considera rotto in partenza. Chi lo pronuncia è nato in terra di camorra, e nascere e crescere in terra di camorra è come avere a che fare con un “virus” inculcato dal proprio habitat sociale. Per fare un parallelismo con Pasolini, l’intellettuale Saviano è moralmente avverso a quel Sistema che agisce tramite la camorra, ma eticamente è impossibilitato a non interagire con esso: il connubio tra “virus” e “intelletto” fa sì che il virus agisca come un farmaco (ossia nell’accezione tanto di veleno quanto di medicina). Scrive Saviano, con un lessico in cui spiccano i riferimenti al corpo, alla carne e alle funzioni biologiche (3):

In terra di camorra combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. […] E’ qualcosa di più essenziale, di più ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d’affermazione dei clan, le loro cinetiche d’estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza, come se l’esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare.
(Gomorra, pp. 330-331)

 

La consapevolezza di questo virus è parte stessa del romanzo, e caratterizza gli aspetti più autobiografici e intimi del protagonista. Sottintende un’architettura tragica, inoltre, poiché la colpa (il ‘virus’) è ereditata, frutto del fato. Il sintomo più evidente è quello di una rabbia che talvolta si mostra come vera e propria hybrys. Si pensi, ad esempio, al passo relativo alla villa del boss Walter Schiavone, progettata volutamente per essere una copia della villa di Tony Montana, il personaggio interpretato da Al Pacino nel film Scarface. Il protagonista, preso da una rabbia pulsante di fronte ad una simile manifestazione del Potere, di fronte a dei meccanismi che sfuggono alla logica apparente, come può essere per un crimine organizzato che guarda alla cinematografia hollywoodiana come ad un ipotesto da cui forgiare i propri simboli, si sfoga orinando nella vasca da bagno. «Un gesto idiota», dice, «ma più la vescica si svuotava più mi sentivo meglio».
In precedenza, è sempre la rabbia, stavolta per l’ennesimo morto nei cantieri edili gestiti dai clan, a portare Saviano ad evocare il protagonista anarchico de La vita agra di Luciano Bianciardi, i suoi intenti dinamitardi contro il «torracchione», e a reagire con il già citato viaggio in treno a Casarsa, verso il cimitero dove è sepolto Pasolini:

Dovevo forse anch’io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia dell’attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all’assillo.
(Gomorra, p. 232)

È proprio in seno a questa rabbia, che nei suoi momenti più impulsivi e ciechi ricorda la hybris dell’eroe tragico, che sgorga «L’io so del mio tempo». E sgorga da uno stato d’animo che precede la dimensione razionale o intellettuale: le parole di Pasolini infatti rimbombano come un «jingle musicale», una similitudine che, curiosamente, richiama un elemento della società dei consumi. A questo stadio, ci si trova ancora in una massa indistinta e astratta in cui i contenuti non sono codificati in forme e le parole non hanno consistenza logica: è un piano dunque viscerale, emotivo, non intellettuale. Ma ciò che segue permette al Saviano scrittore, attraverso la proiezione autobiografica e la catarsi narrativa, di porsi idealmente oltre il Bianciardi disintegrato da quei meccanismi del consumo che avversava, e oltre il Pasolini fermo di fronte ad un nodo gordiano che non sa sciogliere. Se per sciogliere il nodo gordiano Alessandro Magno usò la spada, Saviano usa la parola, e la usa per denunciare un golpe economico che ha la propria spina dorsale nell’edilizia, terreno privilegiato per l’amalgama di quel Potere in cui lecito e illecito sono categorie contigue, e non elementi in opposizione:

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova […]. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra “È falso” all’orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di questa verità.

[…] Il cemento. Petrolio del sud. Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nato nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni […]. L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna.

[…] Io so e ho le prove. Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento.
(Gomorra, pp. 234-240)

Per capire che cosa intenda Saviano quando afferma che «La verità è parziale», e non «riducibile a formula oggettiva», bisogna osservare il rapporto tra quei dati citati all’interno di Gomorra e la dinamica narrativa entro cui si manifestano. In Gomorra c’è un assioma deducibile alla base di questo rapporto, e che giustifica implicitamente la forma romanzo adottata dall’autore: conoscere il numero di morti prodotti dall’epidemia del crimine organizzato è diverso dal vedere quelle persone morire per effetto dell’epidemia. Per rendersi conto di come viva questo assioma all’interno del romanzo, si guardi il capitolo intitolato «La guerra di Secondigliano» (4): il dato relativo agli omicidi compiuti dalla camorra in quegli anni non presenta picchi rilevanti, mentre la narrazione di come abbia agito la guerra a Secondigliano mostra un clima in cui la mattanza è all’ordine del giorno e non risparmia niente e nessuno.
Alla luce di ciò, ci sono due considerazioni da fare. La rottura ideologica del dilemma pasoliniano agevola innanzi tutto un rischio, ossia che il messaggio contenuto in Gomorra, nell’arrivare al destinatario, non possa essere disgiunto dal mittente, facendo di quest’ultimo un simbolo (una coppia inscindibile emittente-messaggio): ma se il mittente predomina all’interno del simbolo, il messaggio si indebolisce, o viene ridotto a fenomeno di costume, addirittura ad epifenomeno. Il destinatario legge Gomorra, vede lo spettacolo teatrale o il film perché è di moda, perché attraverso quell’oggetto artistico costruisce un’autorappresentazione di sé, e disperde il messaggio in un meccanismo autoreferenziale; o, peggio ancora, si identifica emotivamente con un immaginario centrato sull’autore, e attraverso l’identificazione con l’autore identifica se stesso. Lo stesso Saviano è consapevole di questo rischio, come si evince da questo passo, tratto da un’intervista rilasciata a Internazionale:

Quello che ha messo in pericolo la mia vita non sono state le informazioni che ho dato, ma il fatto che queste informazioni sono arrivate a molte persone. Se ci raccontiamo queste cose solo tra di noi o in tribunale non facciamo paura. Oggi la comunicazione ha davvero – per usare una parola che tutti detestano – una missione. Basta raccontare al mondo cose che sono già agli atti. La mia vicenda spesso viene definita un fenomeno mediatico. Può sembrare riduttivo o offensivo, ma è esattamente così.
(Gomorra ai tempi della crisi, intervista a Roberto Saviano, «Internazionale» del 20 marzo 2009, p. 37)

La seconda considerazione riguarda la natura parziale di «questa verità», parzialità che fa retrocedere la possibilità di azione politica dell’intellettuale. Poiché i «nomi» che andrebbero fatti, secondo il dilemma pasoliniano, sono quelli di tutti i responsabili, a qualunque livello, e non soltanto quelli relativi a ciò che vedono gli occhi (i clan casalesi, in Gomorra). Quindi l’opera di denuncia può esaurirsi solo attraverso una composizione di visioni parziali che, come un mosaico, messe insieme restituiscano il quadro completo. Ma se il terreno si sposta dall’intelletto al piano emotivo e viscerale (un piano fondamentale nello stile di Saviano e che ha in Gomorra il suo esito più alto), fino a rendere più importante il secondo, se il contenuto veicolato dalla retorica diventa morale o ideologico, e se viene a mancare una prassi, allora, ritornando all’intervista, essere «fenomeno mediatico» per l’intellettuale-farmaco non è «riduttivo» né «offensivo». È piuttosto una pericolosissima degenerazione, poiché nel frattempo i responsabili che non sono stati denunciati avranno il tempo di mettersi al riparo, magari sfruttando l’attenzione rivolta dall’opinione pubblica a quelli denunciati, e poiché l’intellettuale-farmaco diventa rappresentazione di intellettuale ad uso e consumo delle masse. C’è un passo nell’articolo di Pasolini che parla proprio di ciò:

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si definisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
(Il romanzo delle stragi, p. 90)

Se si guarda alla recente iniziativa di Saviano degli “elenchi”, si nota come la degenerazione sia in fase assai avanzata. Con gli elenchi si è addirittura giunti al di sotto dell’ipocrita dibattito morale e ideologico di cui parlava Pasolini: tutto ora è emozione e bellezza collettiva in cui identificarsi, manca qualunque dimensione critica, intellettuale o razionale. Gli elenchi sono «carta costituente di se stessi» (5): domina un principio di identificazione in cui il soggetto che prova l’emozione e la scrive nell’elenco si autoreifica (ossia “io sono la cosa che mi piace”); quella con gli elenchi non è perciò una relazione basata sul gusto (“mi piace”). Addirittura agli elenchi si conferisce una capacità magica, poiché «i dettagli comuni inseriti negli elenchi smettono di essere cose trascurabili e divengono dettagli fondamentali».
Sono dunque all’opera i due rischi sopra indicati:

Sentimenti antichi, desideri vivi, lampi di gioie quotidiane irrinunciabili.
[…]
È da qui che mi piace pensare l’inizio di una possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono. Non il paese incattivito, egoista, in fondo disperato in cui ciascuno bada solo ai fatti propri, dove tutti sono ugualmente sporchi, compromessi, piegati, e quindi tutti uguali nella meschinità.

Come si può vedere, infatti, non è importante il messaggio codificato negli elenchi, ma l’esistere a-critico degli elenchi come oggetti emozionali: lo stesso Saviano è secondario, rispetto ad essi. Inoltre i nemici individuati, ora, non sono responsabili di un golpe secondo il dilemma pasoliniano, ma semplicemente persone al di fuori del meccanismo di identificazione, che lo rifiutano o non lo riconoscono:

Elenchi banali, diranno i cinici, pieni di ipocrisia e di falso buonismo, diranno i saccenti. Ma chiunque abbia ascolto sincero delle parole sa che sono loro a banalizzare, impauriti dalla semplicità quando diviene senso della vita e soprattutto punto fermo di felicità.

Si è perciò nella demagogica situazione in cui vengono additati come nemici degli eversori emotivi, la cui colpa non è politica, né morale o ideologica: la colpa è quella di non riconoscere la reificazione delle emozioni attraverso gli elenchi, il loro valore autofondativo.
Da notare che nel lessico usato da Saviano prevale ancora il richiamo e l’attenzione stilistica a ciò che è corpo e carne, parentela, legame. Tuttavia è sparito qualunque accenno alla propria condizione di intellettuale-farmaco, al provenire da una terra ‘infetta’. La malattia, il ‘virus’ è allontanato da sé, e proiettato sugli altri, così come sono presenti accenni a ciò che è cura e medicina, sempre esternalizzati:

[…] il sentimento dei legami va oltre la cerchia del sangue. L’amore per i genitori, anche malati […]. C’è il piacere di ridere, a crepapelle, sino alle lacrime: risate terapeutiche capaci di contagiare e curare chi è triste. […] la ricerca della felicità, che si fa corpo in questi elenchi. […] un’Italia integra, pulita […].

L’atteggiamento, dunque, l’ethos incarnato dalle parole di questo Saviano è quello del demagogo che crea un senso collettivo in cui ciò che è critico è potenzialmente una minaccia e va visto a priori con sospetto, poiché l’atteggiamento critico distanzia se stessi dalle cose; un demagogo particolarmente efficace, va detto, poiché popola questo senso collettivo con un immaginario che proviene “dal basso” e che si limita ad amministrare attraverso la retorica e l’autorevolezza conquistata in precedenza. Un procedimento la cui pericolosità è sintetizzabile in queste due frasi: «la dimensione privata di molti messa insieme può divenire pubblica. È da qui che mi piace pensare l’inizio di un possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono». Ciò che manca, oggi, è un aspirante tiranno in grado di fare sua questa visione populista, ma è chiaro che, rispetto alla visione populista berlusconiana, che è calata dall’alto (il mito della «discesa in campo»), quello degli elenchi è un populismo complementare.

 

NOTE

(1) Apparso sul «Corriere della sera» del 14 novembre 1974. Si è fatto uso del testo che compare in Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2008, pp. 88-93, dove compare con il titolo Il romanzo delle stragi.
(2) Il romanzo delle stragi, p. 89.
(3) Si cita da R. SAVIANO, Gomorra, Milano, Mondadori, 2006.
(4) Gomorra, cit., pp. 71-150.
(5) cito dall’articolo Cinquantamila ragioni per vivere / Tutti gli elenchi della felicità linkato in precedenza.

Nuovi scrittori, nuovi lettori. KATACRASH: quando il New diventa Gnu

Leggere Katacrash significa mettersi all’ascolto di un racconto. Il suono, infatti, rappresenta lo scheletro, la struttura portante dell’intera narrazione (intercalari, onomatopee, titoli di canzoni). E non poteva essere altrimenti, visto che l’ultimo romanzo di Fabrizio Gabrielli (Prospettiva, 2009) mette in scena un genere musicale, l’hip hop, e tutto il mondo che ruota attorno alla cultura della doppia acca all’inizio del Terzo Millennio. Come già ricordato altrove, l’autore, circa dieci anni fa, rappava e si faceva chiamare Tsunami Kobayashi. Come a dire che Gabrielli conosce bene la materia di cui tratta. Un romanzo sonoro, interamente costruito sulla forza del linguaggio: l’utilizzo di modalità espressive contemporanee («svario», «benza», «spino»), di un lessico sempre meno famigliare e sempre più metropolitano («bro» per fratello, «bellalà»), contraddistinguono Katacrash, testo sperimentale che va letto ad alta voce con musiche in sottofondo, consigliate appositamente dall’autore (in calce al libro nelle Note a cura di Valentina Vitale). Già, perché il suono riecheggia ad ogni parola e il tratto fonico sovrasta perfino i significati delle parole stesse: ecco allora che MTV si trasforma in «emtivì», rap in «erre a pi», SMS in «essemmesse». La simbiosi tra i vocaboli e i suoni ha chiaramente la funzione di riprodurre i frangenti emozionali dei personaggi in tutta la loro completezza. Si tratta di un mélange che funziona, non fosse altro per quelle acrobazie lessicali che ci ricordano quanti forestierismi, acronimi o sigle hanno ormai contaminato la nostra lingua: «emmepitré», «occhei», «biemmevù». Lo spaesamento è forte, quasi non capisci cosa tu stia leggendo; poi, pagina dopo pagina, ti ricordi che l’autore decompone volutamente la parola per riproportela così come tu non l’avevi mai percepita.

Protagonista indiscussa del volume è la musica, segnatamente quella rap e hip hop, che accompagna la crescita di tre ragazzi di provincia dalle «braghe larghe»: il narratore e i suoi amici Gi (Gionata) e Donnie (Donato). Il Pro-epilogo catapulta il lettore all’interno di un condominio agitato a caccia di un «topo grosso così». Si mobilitano la polizia, i pompieri, tutti i condomini per il «rodeo»: lo scarto tra la descrizione seria dei comportamenti umani e la vacuità dell’evento descritto rende decisamente umoristica la scena inaugurale. La trama è affollata di nomi, situazioni, musiche, rimandi intertestuali (si pensi ai titoli che fanno il verso a ben più note canzoni ed opere letterarie). Trentasei capitoli brevissimi, veri e propri petits coups de pinceau, dove si aprono parentesi riflessive che per un attimo ti costringono a rallentare: figli che cercano modelli da imitare, mentre i genitori preconfezionano loro il futuro secondo le proprie ambizioni; o l’appuntamento fisso, ogni novembre, di manifestazioni studentesche: «magari avessimo letto il testo della finanziaria, avremo anche potuto decidere il perché dell’insofferenza» (p. 48). La punteggiatura (in particolare l’uso abbondante delle virgole) segue il fiato della voce narrante: soggetti messi per inciso, ordo verborum snaturato, termini riproposti in sillabazioni esclusivamente foniche (ken-ne-dici?) e parole stranianti che, invece, sei tu a dover dividere per comprenderle: «pocopiùchebambine», «vattelapescadove», «diotenescampi».

La scrittura di Fabrizio Gabrielli è il tratto originale del racconto: alla fine della lettura è come se in testa ti rimanesse un rumore, un ritmo, una melodia e non il ricordo di aver appena letto un testo. Un linguaggio martellante, un vortice che ti risucchia, un libro fuori le righe, così come instabile e per niente convenzionale è l’adolescenza di cui si narra, con le sue incertezze, precarietà, collassi: «avevamo un background culturale fatto di Otto sotto un tetto, Tangentopoli, Notti magiche inseguendo un gol nanninicamente e bennaticamente scanticchiato, film di Vanzina e al massimo i Quaderni di Gramsci, che solo il più rosso di noi aveva nella libreria anche se non significa che l’avesse necessariamente pure letto» (p. 21). Katacrash è la storia di «tre giovanotti infottati con la doppia acca che vivono la formazione deformata nel destino di una generazione degenere. Finché non arriverà il momento del fragoroso crollo. Fin quando non sarà Katacrash». Così l’autore ha spesso introdotto il suo racconto nelle innumerevoli presentazioni in giro per le librerie italiane.

Il romanzo fa parte della collana BraiGnu della casa editrice Prospettiva. Ricordo che, oltre Katacrash, sono usciti Patagonìa di Dario Falconi e Finefebbraio di Valentina Grotta. Cosa sono i libri BrainGnu lo leggiamo nel sito web della collana: «deflagrazioni emotive, naufragi letterari, derive metropolitane. Scalpitìo di zoccoli nella savana. Tutùm tutùm. Paradosso e mutevolezza. Baratri ameni ed incantevoli, voragini vertiginose e feritoie di luce. Gnu, perché New». Ed è questo il segreto vincente della casa editrice: la propensione al Nuovo, la volontà di dare voce a giovani scrittori (precari) che sentono il bisogno di raccontare il loro mondo, le loro storie, ma soprattutto la loro evoluzione. Niente di scontato. Nessuna ovvietà. I volumi della collana BrainGnu sono alti venti centimetri e larghi tredici, come il muso di un cucciolo di gnu. Tutti i libri hanno lo stesso layout grafico. Si somigliano molto, così come all’interno di un branco di gnu è difficile distinguere un capo dall’altro. Ogni titolo è composto da una singola parola, unica nota di colore su copertine rigorosamente in bianco e nero.

Numerose e degne di nota le attività che ruotano attorno a Prospettiva editrice. Su tutte giganteggia il Premio Carver, nato come contropremio letterario italiano e che si distingue, come avviene nelle migliori accademie americane, per la segretezza della giuria, la quale legge i libri a prescindere dal nome dell’autore. Libertà di giudizio e mancanza della non meritocratica equazione “nome autore-casa editrice” sono i punti cardine del premio diretto da Andrea Giannasi, già definito dalla critica come il Premio Strega o Campiello dei nuovi scrittori. Non vanno dimenticate, infine, la lodevole iniziativa di pubblicare le tesi di laurea ospitandole nella collana “I Territori”, il Giornale letterario, il Festival del libro di Civitavecchia “Un mare di lettere”. E poi il canale ProspettivaTV su youtube e la Rivista letteraria Prospektiva: ogni numero è monografico; l’ultimo, ad esempio, (il n. 52) è dedicato al tema della Traversata. Così la letteratura scende dalla torre d’avorio, fa passi in avanti, si apre ad un pubblico vasto e non per forza specialistico. E i libri, finalmente, vengono letti anche tra i più giovani.

 

Stefania Segatori

[Clicca qui per leggere un estratto di Katacrash]

Momenti di trascurabile felicità

Ogni buon libro che si rispetti prima di uscire nelle librerie ha dei passaggi obbligati e un lavoro che un lettore sprovveduto nemmeno s’immagina (alle volte non se l’immagina nemmeno l’editore). Una fase decisiva della stesura di un libro è la fase di editing, ovvero quella fase in cui il testo va nelle mani di un editor che decide, consiglia, suggerisce, taglia e modifica le bozze di un testo.

Ad esempio, se ci fosse stato un editor per questo post, tra le altre cose mi avrebbe detto sicuramente che la parola fase è stata ripetuta già troppe volte e che avrei dovuto trovare un sinonimo. Robe così insomma.

Oggi voglio parlarvi di un piccolo capolavoro della letteratura contemporanea, Momenti di trascurabile felicità di Francesco Piccolo. Storie descritte con leggera poesia comica, fotografie narrate con la commedia nell’anima, preziosi momenti di felicità universale che non possono non farvi sorridere. Inizialmente il libro doveva essere mooooooooolto più lungo, ma in fase di editing è stato livellato, accorciato e ridimensionato, per fini commercial-artistici. Qui in anteprima mondiale e telematica, alcuni dei momenti di trascurabile felicità che per motivi di volgarità e inutilità sono stati trascurati ed oscurati in fase di stampa.

Entro in un negozio di scarpe, ne vedo un paio che mi piacciono in vetrina e le indico alla commessa. Chiedo un 46. La commessa mi dice che hanno solo il 41 e mi domanda se le voglio lo stesso. Ed io penso che la commessa mi fa pena e vorrei mandarla affanculo.

Quando vai al cinema e c’è un gruppetto di donne che hanno visto il film e nel finale, pochi secondi prima che il protagonista muore, dicono in coro «Oddio ora muore, mi commuovo sempre» e tu rimani zitto, muto e però pensi che vorresti farti rimborsare il prezzo del biglietto da loro. Ma non lo fai. Ed inizi ad odiare le donne.

Quando finisce la carta igienica ed in bagno hai solo un numero di «Satisfaction» che ti hanno regalato a forza alla fiera del libro.

Recarsi alla basilica di San Pietro in Vaticano, andare al confessionale e pentirsi per un delitto commesso quando eri bambino.

Quando stai in crisi d’astinenza ed il distributore automatico di sigarette non vuole accettare la tua banconota da cinque euro. E allora sei costretto a comprarne due pacchi e metterci quella da dieci euro che però avevi conservato per metterci benzina al ritorno. E nella via del ritorno rimani senza benzina e la banconota da cinque euro non viene accettata nemmeno dal distributore della Erg. E bestemmi la madonna.

Andare in motorino per le strade di Roma sorpassando automobili bloccate nel traffico. E poi viene a piovere.

La soddisfazione nello scovare Cani arrabbiati di Mario Bava posizionato nello scaffale dei “grandi classici” della Ricordi Media Store. Prenderlo, andare alla cassa e pagarlo quasi venti euro. Uscire dal negozio e vederlo a tre euro nella bancarella di fronte.

Quando scopri che a farti fare un pompino con il dito in culo godi il doppio.

In autobus mi siedo subito sul primo posto libero e me ne frego degli altri. Una volta al mio fianco, in piedi c’era una donna incinta. Io non le ho detto nulla per paura che mi dicesse che non era incinta.

Recarsi a casa di una prostituta e veder uscire dall’appartamento tuo padre che si sistema i pantaloni. Arrivare a casa e ricattarlo facendoti dare un fisso mensile di cinquecento euro.

Arrivi in aeroporto alle sette del mattino, attraversi il metal detector e sei costretto a levarti la cinta dei pantaloni ed i pantaloni ti cadono alle caviglie. E fino a poche ore prima eri a un festino con amici. E ti rendi conto solo adesso che le tue mutande sono ancora lì.

Quando fai dei peti dopo aver mangiato al ristorante cinese. Sembra che non siano i tuoi. Ne puoi gustare l’aroma e spesso ti vengono in mente dei piacevoli ricordi che avevi rimosso.

Tornare a casa e levarsi i tacchi a spillo dopo una nottata trascorsa in discoteca. Addormentarsi. Svegliarsi alle nove, lavarsi e fare colazione con la tua compagna che ti dice che aspetta un bambino.

Quando verso le 15:30 bussano alla porta i testimoni di Geova. Parli un po’ con loro della vita, dell’amore e della religione. E poi offri loro un buon caffè con la cocaina al posto dello zucchero.

 

Note: Il post non corrisponde al vero. E’ di pura fantasia. I “momenti di trascurabile felicità” che avete letto non sono stati scritti assolutamente da Francesco Piccolo. Il post che avete letto vuol essere semplicemente un sentito omaggio di Andrea Coffami al libro Momenti di trascurabile felicità.

Andrea Coffami

Elogio dell’ignoranza

L’uomo non somiglia alla scimmia solo perché ha in comune con lei il corredo genetico o, come vorrebbe Jorge de Burgos, il riso. L’uomo ha in comune con la scimmia, essenzialmente, la curiosità. Il lato distintivo dell’intelligenza è la curiosità, è risaputo, lo dice anche Aristotele nella Metafisica («Tutti gli uomini, per natura, desiderano sapere») che il genere umano tende sempre a sapere o a cercare di sapere. Dello stesso parere sembrava Martin Heidegger quando diceva «Non possiamo non chiedere perché». Ed è proprio questa la parolina magica: “Perché?”. Tutto parte sempre da qui: “Perché?”. Ma supponiamo, per amor d’ipotesi, che l’uomo fosse onnisciente. La spinta al conoscere non ci sarebbe. Di conseguenza non ci sarebbe neanche la curiosità. E se non ci fosse la curiosità, il carburante per il meccanismo dialettico intellettivo, inevitabilmente, andrebbe in malora.

Come gli immortali che Borges descrive ne l’Aleph si sono disamorati della vita, così le ipotetiche creature onniscienti sarebbero poco più che dei dogmatici col cattivo vizio dell’aver ragione. «Solo l’individuo libero può meditare e creare, in questo modo, nuovi valori, sociali», disse Einstein, ma se è onnisciente non ha libertà perché le sue stesse conoscenze lo limiterebbero come se fosse (questo voleva precisamente dire Einstein) in una dittatura. Non creerebbe valori sociali perché in una società di onniscienti non c’è nulla da creare o da dire che non sia già stato concepito. L’onniscienza porterebbe all’inazione e all’ignoranza dialettica. Se tutti sappiamo tutto, che bisogno c’è di parlare e interagire? So già che vuole il mio prossimo da me, so già che lui sa tutto e so che lui sa che io so tutto. «L’uomo è il principio delle azioni» (Aristotele) solo se ha bisogno di tali azioni. E un non-onnisciente messo con un onnisciente? Certo che ci sarebbe dialogo: ma sempre e solo per la curiosità del non-onnisciente. Se sbaglio e vengo in possesso della verità, imparo. Se non sbaglio e so già tutto, non imparo e vegeto. «Una cosa è dimostrare che un uomo ha torto, una cosa è metterlo in possesso della verità», teorizzò Locke nel Saggio sull’intelletto umano, ma ovviamente lui si riferiva a persone normali, cioè non in possesso della verità. Gli onniscienti sono già in possesso della verità, la loro vita è grigia e senza sorprese, già scandita e definita. In loro è radicata la gnoseologia della capra cotta, che ben si sa dove può andare. Da nessuna parte!

«La verità dovrebbe essere il respiro della nostra vita», disse Gandhi, ma un respiro non deve arrivare a soffocarci. In un mondo di onniscienti Machiavelli non sarebbe mai esistito, non avrebbe mai scritto «Colui che inganna troverà sempre chi si fa ingannare» ne Il principe: chi devi ingannare fra onniscienti? L’onniscienza, portando all’immobilità intellettuale, porta anche al pragmatismo più sfrenato: da qua il possibile, da là l’impossibile, da là l’opportuno, da lì il nocivo. Questo vuol anche dire fine delle aspirazioni: «Un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione; ecco l’arte» (Benedetto Croce, Breviario di estetica). Fine dell’arte. Come sempre parlava bene Einstein a un’umanità di non-onniscienti: «Ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto» (nel suo Come vedo io il mondo). Quanto c’è d’umano in un onnisciente?

In La democrazia in America il Tocqueville dice che «I popoli democratici provano per la libertà un gusto naturale». Questo lo pensava lui, ma in un mondo di onniscienti la libertà e la democrazia sono un optional: che me ne faccio di un ordinamento se io stesso conosco l’ordinamento dell’universo? E anche l’amore ci andrebbe di mezzo: fine della conquista (so già chi, come, dove, quando, perché conquistare), fine della passione (so tutto dell’altro, non ho il gusto della scoperta e della quotidianità e dell’intimità romantica), fine del «Quel che si fa per amore è al di là del bene e del male» (Forza Nietzsche!). Boezio, nella Consolatio, dice che «ogni condizione è felice quando sia accettata, con sereno equilibri»”: questo è proprio l’atteggiamento dell’onnisciente. Sereno equilibrio. E poi si finisce come Boezio: a pelar patate su una roccia aguzza mentre castori demoniaci ti mordono le chiappe. Addio Newton che con gli occhioni sognanti ti domandi: «Da dove provengono l’ordine e la bellezza che vediamo nel mondo?» (argomento poi distrutto da Richard Dawkins in L’illusione di Dio). In un mondo d’onniscienti lo prenderebbero a calci nel sedere e gli darebbero dell’imbecille. A Newton. Come consolazione potrebbe rimanere la bellezza che, come diceva Nietzsche, ha la voce sommessa per essere compresa sola dalle anime più deste. Ma il filosofo parlava di anime deste, un onnisciente – lo abbiamo visto prima – è ormai dormiente e anestetizzato. Insensibile, forse anche alla bellezza.

E allora, tirando le somme, si direbbe che a essere onniscienti, non solo si perde il gusto delle cose, ma anche quello della vita stessa. Non esiste un mondo di onniscienti perché «La totale privazione del bene, dunque, significa inesistenza. E, viceversa, l’esistenza suppone il bene» (Sant’Agostino lo dice nelle Confessioni) e «L’uomo seleziona a proprio beneficio, la natura a beneficio di ciò che accudisce» (Darwin lo dice ne L’origine della specie).

 

Antonio Romano