Ringraziamenti

Scrittori precari ringrazia tutti coloro che hanno assistito alla tre giorni di TRAUMA CRONICO, il teatro Abarico che c’ha ospitato, i registi Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani e il tecnico luci Fabio Del Naia che hanno creduto nel nostro progetto e hanno lavorato affinché quest’avventura si concretizzasse per regalarci gli indimenticabili momenti vissuti.

Certo, non siamo mica attori, lo sappiamo, ma forse la forza di TRAUMA CRONICO sta proprio in questo. E poi, diciamola tutta, vedere il pubblico, così numeroso che chi se l’aspettava, andarsene via contento, non ha prezzo. Significa che, sebbene ci sia ancora tanto da crescere e migliorarsi, stiamo lavorando bene.

Grazie ancora a tutti.

GL

Gl’emeriti sconosciuti van negl’Emirati – [2/3] Luca, 12, 24.

(in piedi)

«Lodate l’Eterno, voialtri di tutte le nazioni, celebràtelo popoli tutti, perché la sua bontà è grande, e la sua fedeltà durerà per sempre. Lodate l’Eterno».

(seduti).

Il salmo centodiciassette, puoi mica sbagliarti, è talmente evidente, è un canto di trionfo e giubilo: t’invita a lodare il Signore, col Signore al fianco impossible is nothing e vincere, o almeno far di tutto per, è già un po’ meno complicato.

Amen, fratello.

Mosè è un nome da predestinato. Come si fa a non essere un condottiero, un leader, quando ci si appella Mosè?

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Gli strani (prima parte)

[a mio nonno Ermanno,

che ha fatto in tempo a mostrarmi al sbrègh

solo che io ho iniziato a guardarlo molti anni dopo,

lo strappo delle cose, della gente. Il mio.]

 

 

Non dirmi cosa devo essere.
(Perché dovrei? Tu non lo sai, io nemmeno. O sì?).

Stavolta le urla si sentono dal cortile.
Gli strani ricominciano, pensa Tonino, nato nel trentacinque, vedovo da una decina d’anni, e con due figlie altrove. L’aria è tiepida, il sole brucia già ma l’estate è lontana. La campagna attorno tace, aspetta. La terra aspetta l’arsura, le lucciole sono pronte a danzare per la luna, attendono tra erba e cespugli selvatici, qualche notte scivolano dai nascondigli precari ma sono apparizioni brevi, fughe. È presto, c’è tempo, pensa Tonino, c’è sempre tempo.

(Ti trema un labbro).
A te di più, sei ridicola.

Gli strani ne inventano una al giorno, non sono capaci di vivere come gli altri, di fare i normali. Tonino mordicchia uno stuzzicadenti, se lo passa da un lato della bocca all’altro, coi denti spezzati stringe appena, la lingua ne sfiora l’estremità interna in un’operazione ripetuta con precisione chirurgica. Gli strani potevano anche cercarsi un posto adatto. Perrrdio. Adatto a quelli come loro.
Silenzio improvviso. Eppure la finestra è ancora aperta, spalancata in quel modo che spezza l’ordine. Uno scuro agganciato, l’altro no. Hanno una sola finestra, gli strani. Stanno in un bilocale al secondo piano che chissà quant’è grande davvero. Ma quelli se ne fregano. Sono sempre pieni di gente che va e viene. Molte donne. Tonino sputa lo stuzzicadenti. Anche belle, quelle con i seni pieni, sodi che si muovono invitando sguardi e polpastrelli mentre salgono la vecchia scala esterna. Certe labbra, enormi, gli smuovono qualcosa, fastidio e istintiva erezione, Tonino non cede quasi mai, distoglie lo sguardo e impreca.

L’aria scivola attraverso le stanze, due appena, abbastanza per flessioni di pulviscolo e polvere. Entra, l’aria, striscia fluida sul pavimento macchiato, passa tra i mattoni mal intonacati e qualche mobile spaiato.
Gli occhi le sono diventati enormi, ha pianto.
La porta d’ingresso cigola, un rumore acuto in entrata, un altro più goffo, sordo, verso l’esterno.
Il volto arrossato di Elena Sorrentini sbuca oltre lo stipite del bagno. Sorride alle piastrelle con qualche crepa che ramifica nell’angolo doccia. Sorride e basta mentre lei si passa le mani tra i capelli, le ciocche scure le ricadono davanti agli occhi, ammassi stupidamente sgonfi. La prende per mano, Elena, e la sposta dal lavabo. Non dice niente, non lo fa mai. Entra, esce, mima emozioni con i muscoli facciali. Nell’altra stanza prende a disinfettarle le dita piene di sangue grumoso, quasi secco.

«Si saranno mica fatti del male, loro là?» E mentre lo dice, il vecchio Tonino ha un guizzo. La mente si riempie di caratteri alfanumerici. Polizia. Carabinieri. Pronto Soccorso. Vigili. Il cognato dei Terzani che lavora in tribunale. Non si sai mai con quelli-là. L’aria odora di erba bagnata. La finestra è ancora silenziosa e disordinata.

Non dirmi cosa devo fare.
Elena alza gli occhi, inginocchiata davanti a lei, le passa lentamente ciuffi di cotone morbido, glielo fa scivolare tra la pelle e le unghie, strofina lentamente.
Non dirmi chi sono, hai capito?
Elena annuisce e riprende a disinfettare ma lei, con un colpo svelto della mano destra butta per terra la bottiglia verde pisello. La croce rossa stampata sull’esterno della bottiglia rotola, il liquido denso corre seguendo mappature scavate da tempo e modi nel pavimento.

Si appoggiano sul divano sfilacciato. La bottiglia resta dove si è fermata, da sola, oltre i piedi gonfi del divano. Le due donne fissano l’inconsistenza della parete. Inizia a imbrunire. Uno scuro sbatte, quello non fissato. «Non-nnn-no io chiamo qualcuno,» sta urlando il vecchio di sotto, «qui non si può andare avanti così te lo dico io!» Le parole rimbombano, si schiantano contro il vetro dello specchio, in bagno. Vetro crepato, fratturato verso sinistra a formare una ragnatela imperfetta, triangoli deformi. Gli stessi che volevano decidere per lei. E non le piace, la faccia che vede mutilata, graffiata talmente a fondo da spezzarne i perimetri.
Ha paura. Il più delle volte.
Elena anche.
Una parla solo con se stessa.
L’altra non parla affatto.
Ma c’è qualcosa, quando il cielo si inscurisce, e restano avvolte dalla patina di buio familiare, lo stesso buio che penetra nei loro corpi di giorno e le avvelena entrambe (peccato che gli altri, quelli fuori, non sanno, non sentono. Figuriamoci se possono capire. Capire è una parola importante. Pesante).

C’è qualcosa nella vicinanza, tra mani che si sfiorano, carni strette tanto da sentire le vene pulsare, rombare sopra ogni cosa. C’è che riconoscono lo stesso piano oscillante su cui galleggiano, rullo compressore, martello pneumatico, otto volante. C’è un linguaggio automaticamente comprensibile nel dire-non dire che è non detto-nel detto.

Allora, così, lì, smette il male. Di fare male. Comunque sia, chiunque sia, cosa sia, poco importa. Smette. Diventa nitido, perfetto negli incastri che non si spiegano.

Barbara Gozzi

Vicolo dell’acciaio

Vicolo dell’acciaio (Fandango, 2010)

di Cosimo Argentina

 

Via Calabria 75, un condominio dove il novanta per cento delle famiglie ha il capo che se la spassa nel siderurgico. Dal primo al settimo piano siamo tutti incrostazioni del grande tubo madre e la nostra pelle profuma del ferro zecchino delle acciaierie. Via Calabria 75 dunque, un pezzo di cemento con il tetto incatramato ficcato tra un parcheggio asfaltato e un incrocio dove le ambulanze vanno e vengono a tutte le ore del giorno e della notte”.

 

Quando si giunge a Taranto quello che ci colpisce – esattamente come uno schiaffo in pieno viso – è il paesaggio. Già dall’autostrada, per chi ci giunge da Bari, l’Ilva è chiaramente visibile: l’impianto siderurgico più grande d’Europa, quello che avrebbe dovuto portare il Meridione verso il progresso industriale, verso le magnifiche sorti e progressive. Che ci ha regalato l’Ilva? Qual è il prezzo che i tarantini, i pugliesi tutti, hanno dovuto pagare? Basterebbe leggere uno dei mille rapporti sul tasso di mortalità per causa di tumori in quella parte di territorio per capire esattamente quanto, in termini di sofferenze, abbiamo dovuto pagare come dazio perché lo sviluppo tanto desiderato (e chissà se poi realmente raggiunto) abbia avuto atto. Eppure ancora oggi la maggior parte dei tarantini ha un parente che lavora nell’impianto. E non solo i tarantini. Partono bus da tutta la Puglia perché giungano gli operai al lavoro.

 

Cosimo Argentina, tarantino trasferito in Brianza, ambienta nella sua città natale questo romanzo doloroso, lacerante. Ma sempre più necessario. Protagonista è un diciannovenne che cresce in uno dei quartieri che fornisce maggior manovalanza all’Ilva. Ci abitano quelli della “prima linea”, che trascorrono la loro vita tra l’Ilva e una birra Raffo – un must per i tarantini – bevuta in compagnia nel bar sotto casa. Sono loro i duri, quelli orgogliosi di lavorare per mantenere la famiglia. Quelli che – ad uno ad uno – dall’Ilva verranno progressivamente uccisi. Mino, il protagonista, cerca di liberarsi da un destino già scritto per lui. Si iscrive all’Università, frequenta Giurisprudenza…eppure…sembra quasi che sia quasi impossibile rompere con le proprie radici, crearsi un futuro diverso. Allo stabilimento dell’Ilva si deve ancora una volta l’ennesimo tributo di sangue, come lo si deve ad una divinità maligna e misteriosa. Non c’è nessuna redenzione possibile. Non qui ed ora. Non per i “fottuti”, per gli abitanti del “Vicolo dell’acciaio” – gente umile, con gli occhi rossi e le mani callose, lontani anni luce dallo stereotipo dell’operaio “fighetto”, tutto coca e festini.

 

Niente lacrime per favore. Non si deve sprecare così la sofferenza. (Hellraiser)

 

Serena Adesso

Trauma cronico al Teatro Abarico

Per questa settimana terremo in home page la segnalazione dell’evento che ci vedrà impegnati al Teatro Abarico di Roma (via dei Sabelli 116)  dal 26 al 28 novembre. La normale programmazione riprenderà il prossimo lunedì.

Confidiamo in un pubblico numeroso, anche perché senza pubblico il teatro non lo si può fare. Sarebbe come parlare nel vuoto, una brutta sensazione di cui potrebbero fregiarsi soltanto i geni incompresi.

 

Trauma cronico.
Appunti per un film in terra straniera

Una produzione Sintesi 19/ Aramis
Per la regia di Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani

con

Scrittori precari

Trauma Cronico è un racconto che incrocia documentario e letture dal vivo, in un viaggio tra il bisogno di scrivere e quello di sopravvivere, nelle pieghe di una parola che si è normalizzata e fatta quasi inutilizzabile: “precarietà”. Un viaggio in cui si viene guidati dalle testimonianze di quattro scrittori che, per caso o volontà, vivono e lavorano a Roma. Storie epiche e comuni ad un tempo, tenute assieme dallo stesso progetto: praticare la scrittura come una testimonianza civile, andare oltre la pagina scritta attraverso la lettura pubblica. Nasce così il collettivo degli Scrittori precari, impegnato a far conoscere un mondo mai conosciuto e che si rischia, presi nella sua evidenza, di non conoscere mai.

ORARI E BIGLIETTI

Ore 21:00 (26-27 novembre)
Ore 18:30 (28 novembre)

Biglietto è 7euro (+ 3 di tessera teatrale)
Prezzo ridotto a 5euro (+3 di tessera) per gruppi di almeno tre persone.

In omaggio all’ingresso un cd o un libro degli Scrittori precari.
Per info e prenotazioni biglietti:
info@teatrointegrato.it – 0644340560

http://www.teatrointegrato.it/abarico_teatro.php
Per info e segnalazioni gruppi:
Scrittori precari: scrittoriprecari@yahoo.it

Gl’Emeriti Sconosciuti van negl’Emirati – [1/3] Ci vuole diplomazia

[L’òtto dicembre inizia la Fifa Club World Cup, si gioca negl’Emirati Arabi Uniti e la sponsorizza la Toyota. Una volta c’era Tokyo, la Coppa Intercontinentale, il pallone di bronzo sullo sgabello di bronzo, Paco Maturana e l’Independiente de Medellin, la partita a botta secca, la sveglia all’alba per fare il tifo. Oggi c’è tutt’un torneo. Al quale partecipano sei squadre. I preliminari li fanno le vincitrici delle cèmpions lig asiatica, oceanica ed africana.

Ve le racconto una per una.

Ròba che se almeno una volta sei andato a leggerti su uichipedìa la biografia di Carmel Busuttil, non te le puoi mica perdere le sforbiciate di questo lunedì, del prossimo e di quello seguent’ancora.]

A me i diplomatici piacciono, non statevi a fidare di chi insinua il contrario, anche se lo zucchero a velo mi sporca sempre i lembi della giacca e la pasta sfoglia scricchiola durante il suo trionfo di sbriciolamenti.

La torta diplomatica si chiama così perché è farcita con la crema diplomatica, che poi sarebbe crema pasticciera amalgamata con la panna montata. Tu vai pazzo per la vellutatezza della crema ed il tuo commensale per la soffice morbidezza pannosa, tu sei della Roma e lui della Lazio, le mettiamo entrambe e brindiamo felici: la torta diplomatica è una sorta di pareggio gastronomico, perché ci vuole diplomazia, alla fine della fiera, anche a tavola.

Poi può starci che di fare il diplomatico ti vada per nulla, e allora invii un telegramma al padrone di casa, perché in fondo lo sai che preparerà quella torta (te la fa trovare sempre, forse non è capace d’altro) e gli scrivi solo PNG: Panna Non Gradita.

Lo fanno anche i diplomatici quegl’altri, quelli con la cravatta e la bandiera della nazione che rappresentano sul cofano dell’auto, d’inviare una missiva ai colleghi d’un’altra ambasciata: gli dicono avete presente il nuovo proconsole? Ecco: PNG.

PNG, in diplomazia, significa Persona Non Gradita, ed è declinabile al plurale, personae non gratae. L’articolo 9 della Convenzione di Vienna sulle Relazioni Diplomatiche ne legittima l’uso: l’ospite o l’ospitante possono “in qualsiasi momento e senza dover motivare la sua decisione”, dichiarare un qualsiasi membro del corpo diplomatico terzo un PNG, una persona non grata. E dire che fanno i diplomatici, di mestiere.

PNG è anche la sigla internazionale della Papua Nuova Guinea, posto gradevolissimo tra l’altro, dove per dire hanno un uccello del paradiso nella bandiera: come fai a farteli andare a noia?

Scommetto una collana di conchiglie che se e quando hai letto per la prima volta il nome di quest’esotica nazione nelle due righe precedenti o successive c’era il nome di Bronislaw Malinowski, l’antropologo par excellance, che in Papuasia studiò il rituale del Kula.

Succede che i papuah, gl’aborigeni papuasici dai capelli a cespuglio, si fanno ogni tanto dei viaggi verso le isole Tobriand per scambiare collane di conchiglie rosse con braccialetti di conchiglie bianche. O meglio, fanno i loro affari, carne caffé olio e chissà cos’altro, ma contestualmente, con il rituale, stabiliscono tra loro un rapporto di fiducia. Imparano a fidarsi l’uno dell’altro. E poi fanno il business.

In Papua Nuova Guinea, andare a fare un Kula è un atto diplomatico.

E non c’è niente da ridere.

Una ròba che invece fa sorridere è che in Papua Nuova Guinea, alle volte, nevica. E si vincono le cèmpions lig.

Son due avvenimenti che ti lasciano discretamente attonito, una nevicata copiosa in Melanesia ed una squadra di calcio che va a farsi le finali della Coppa del Mondo per Club, non vi pare?

Il PRK Hekari United è l’Inter con la testa cespugliosa: PRK sta per Petroleum Resource Kutubu, il patron e fondatore era un petroliere, non si fanno i paragoni così pour parler.

Per alzare la coppa non ha seppellito avversari dai nomi altisonanti, i figiani del Lautoka non sono il Real Madrid e i vanuatuani del Tafea non somigliano nemmeno da lontano al Barcellona, ma fatto sta che ha vinto, ed ora va a sfoggiare le sue magliettine biancherrosse fiammeggianti negl’Emirati Arabi.

Nell’Hekari United giocan due parenti, David e Cyril, che di cognome fanno Muta e non statevi a fidare di chi sostiene il contrario, non ci sarà spazio per il facile sarcasmo qua, anche se la battuta è quasi fuori dalla tasca: le immersioni, il diving, ah che bel mare, metti la Muta.

No, guarda.

Il terzino sinistro viene dalle Isole Salomone, si chiama Gideon Omorikio, è soprannomiato Giggs, come Ryan, anche se sembra il sarcofago del gallese; è la bandiera della nazionale di beach soccer delle Isole Salomone e quando gli ricordano l’iconografia dell’indigeno che cuoce il colonizzatore nel pentolone non ride mai. Nulla, si dice di lui sia il più diplomatico membro della squadra, lo chiaman pure “il salomònico Gideon” e sulla parola membro spesso scatta una risata (i più burloni, dopo membro, ripetono il cognome scandendolo, òmo, rikiò, ma c’è poco da ridere invero).

Alvin Singh è un difensore centrale, viene dalle Isole Fiji e a casa non aveva lasciato detto che sarebbe partito per un torneo internazionale di calcio, ha sottolineato il Fiji Times Online. Seriamente.

Ma la stella incontrastata dovrebbe essere Winnie Tau, promettente ala papuah, per il quale il popolo con la testa a cespuglio ha già pronto un coretto ammaliante che fa Winnie Ta-ù, Winnie Ta-ù, sull’aria di questo.

Nella giornata inaugurale della FIFA Club World Cup l’Hekari United affronterà i padroni di casa dell’Al Wahda.

Ci si augura nessuno rovini la festa agl’Emiri, vieppiù degl’emeriti sconosciuti.

I diplomatici papuasici sono avvertiti: nessuno stupore se, all’indomani, dovessero ricevere un telegramma con su scritto PNG.


Fabrizio Gabrielli

Roche: “Sesso col presidente”

Sesso con il presidente della Repubblica se non firmerà la legge sulle centrali nucleari. E’ la proposta indecente della scrittrice tedesca Charlotte Roche, che chiede al presidente Christian Wulff di non sottoscrivere la legge che prolunga il funzionamento delle 17 centrali atomiche del Paese.

Io mi offrirei di andare a letto con lui, se non sottoscrivesse la legge” ha affermato la scrittrice. Secondo quanto riportato, la donna avrebbe affrontato l’argomento anche con il marito, che si sarebbe detto d’accordo e contemplativo.

Ma anche gli intellettuali italiani scendono in piazza: Silvia Avallone si dice disponibile per un rapporto anale con Giorgio Napolitano affinché bocci totalmente la nuova versione del lodo Alfano. Andrea Camilleri propone un footjob a Gianfranco Fini per sostenerlo nella sua lotta personalissima contro il presidente del consiglio. Il gruppo letterario Cricca33 si offre per una gangbang con Mara Carfagna al fine di convincerla a creare un suo nuovo calendario senza veli (naturalmente dopo le sue dimissioni). Tommaso Giartosio si dice invece disponibile per un pompino a Nichi Vendola affinché promuova fattivamente la raccolta differenziata a Napoli. Nel nostro piccolo, io e la mia compagna ci proponiamo per un ménage à trois con Vladimir Luxuria, ma così, per puro divertimento nostro.

 

E come disse Oscar Wilde durante un’intervista a Radio24: “Quando le parole non bastano, la lingua ed il culo hanno potere”.

Angelo Zabaglio aka Andrea Coffami

Peep-show

Le cose romantiche non mi sono mai piaciute. Questo me lo sono sempre ripetuta, tanto che non riesco più a ricordare se sono diventata così cinica o lo sono sempre stata. E non si tratta di essere incazzati col mondo, non è questo. La verità è che all’inizio io nel mondo ci stavo bene. Ho avuto tutto. Ma una vita serena vale a dire non conoscere nulla veramente, di quello che c’è fuori. Potevo arrabbiarmi con quelli che mi rinfacciavano di essere fortunata, potevo arrabbiarmi con i miei genitori, che mi hanno permesso di esserlo.

Le persone fortunate, credimi, non sono mai piaciute a nessuno.

E la nostra generazione non piace a nessuno per questo.

Allora abbiamo rovesciato il gioco delle parti: abbiamo smesso di mangiare, abbiamo smesso di studiare, abbiamo smesso di sentirci felici.

Questa cosa me l’ha insegnata Eva. Che la felicità è lobotomia. Che nascere felici è come non avere mai avuto le dita, il tatto, per esempio. E mentre lo diceva faceva scorrere uno sull’altro i polpastrelli.

Eva l’ho conosciuta la sera di un aprile invernale in cui la mia vita è cambiata. Una ragazza così bella io non l’avevo mai vista, davvero. Una ragazza così bella non deve chiedere niente nella vita, pensai. Faceva freddo, io ero fuori un locale di San Lorenzo e piangevo. Così, rannicchiata in un angolo, mentre dall’interno del locale si sentivano le voci altalenanti della gente soffocare un disco di Jimi Hendrix. Eva si avvicinò con una birra. Mi chiese perché piangevo e non le risposi subito. Mi sarei laureata dopo poche settimane in medicina, le dissi, e avevo rotto la sera stessa con il mio ragazzo. Non sapevo cosa dovevo provare. Felicità o tristezza. La disperazione le comprendeva entrambe.

Se non sei felice tu, non permettere a nessuno di esserlo, aveva detto Eva.

Eva aveva un tatuaggio sul braccio sinistro, un cuore trafitto da una spada, attorno una pergamena con sopra scritto “mom and dad”.

Piangi perché non sai un cazzo tu della vita. Ci posso scommettere. Mi disse. Si abbassò sulle ginocchia e poggiò sulle mie un libro. Piccole donne. Da un piccolo flacone fece uscire una polvere bianca, la sistemò in fila e tirò su col naso.

Ci hanno fatto credere un sacco di falsità. Che si deve crescere, come queste povere puttanelle. Che si deve rinunciare. Che ci si deve sacrificare. Che ci si deve innamorare. Quando poi diventano vecchi, queste cose le dimenticano, divertiti, ti dicono, ma solo quando è troppo tardi.

A questo punto della storia, la canzone esatta sarebbe Vodoo child. Ci sarebbero i titoli di presentazione, la musica che aumenta, Eva che mi dice. Pensaci. Tra uno stacco e l’altro della voce negra di Hendrix, e poi si allontana, dopo avermi lasciato un biglietto nella mano. Un appuntamento.

Era il giorno del mio ultimo esame. Andai all’università, aspettai il mio turno. Sapevo tutto. Ero pronta a diventare un medico. Quando mi chiamarono però non riuscii ad alzarmi dalla sedia. Non risposi al mio nome. Cercai nervosamente qualcosa nella borsa per nascondermi in volto e trovai il biglietto di Eva: il giorno indicato era esattamente quello. Mi alzai di scatto e cominciai a correre disperatamente verso l’orario e il luogo indicati.

Questo è il solo modo in cui si può assistere alla propria nascita. Me l’ha insegnato Eva.

Prima ci hanno insegnato Woodstock e poi ce ne hanno privato. Mi diceva sempre lei. La libertà e tutto il resto.

La scena successiva riprende la mia amica di spalle, chinata sul fornello della sua cucina lurida.

La vedevo svolgere quei movimenti come un rituale sacro. In quei momenti era una sacerdotessa inviolabile, nel silenzio. Due pezzi di ferro, i resti di una vecchia stampella, tenevano in equilibrio pochi grammi di oppio. Mi avvicinavo a lei che mi chiamava con lo sguardo. Incameravo il fumo. Incenso.

Ti manca casa? Mi chiedeva sempre, una volta stese sul pavimento della cucina. E io le rispondevo. Si, a volte, Eva, mi manca casa.

Allora lei mi diceva che il vero problema erano i pesci rossi. Ne teneva uno in una piccola vasca sul pavimento della cucina che nuotava in acqua melmosa. I pesci rossi hanno una memoria di soli tre secondi, poi ricominciano ad apprendere per dimenticare tutto immediatamente dopo.

Pensavo che era vero. Che Eva aveva ragione. Che fino ad allora l’affetto dei miei genitori, la felicità di rispondere ad un preciso senso del dovere e non del volere, era stata la mia gabbia. Raccolta dalla memoria degli affetti.

Ci hanno insegnato Woodstock e poi se lo sono ripresi. Lo hanno trasformato in colpa e poi lo hanno dimenticato. Infliggi alla tua casa la tua assenza. Questa è la punizione che si meritano.

Domani partiamo. Mi disse. Se tu non sei felice, non devi permettere a nessun altro di esserlo.

Ed era l’estate e il nostro primo viaggio insieme. Prese l’estremità della stampella ancora rovente e l’appoggiò sull’interno del braccio pallido senza emettere suono. Fece lo stesso con me. Doveva essere quello l’inizio della liberazione.

Ci fanno credere che il dolore sia qualcosa di negativo. Ci hanno insegnato Woodstock e poi se lo sono ripresi.

Fanculo la nostra generazione. Fanculo la modernità. Io ed Eva insieme fondammo un tempo nuovo.

La libertà di una donna a Londra si chiama Peep-Show. Sai cos’è un Peep-Show? Immagina un locale luminoso nel centro trasgressivo di Soho. Immagina delle cabine, separate da un’altra stanza con un vetro unidirezionale. Il cliente vede la donna senza essere visto. La donna si tocca, balla, si accarezza, si dondola su un’altalena di fiori. Il cliente si tocca con la donna, sente il proprio respiro che si condensa sul vetro. Nient’altro. Non è prostituzione, non è sfruttamento. È un modo onesto di affermare la superiorità della donna. Io che scopro lentamente una gamba, lentamente, fino al ginocchio, vicino, che quasi puoi toccarlo, così, e ti eccito e ti sono vicina senza esserci. So che tu mi stai spiando. So che sono bella. So che ti stai eccitando. Una cosa del genere, insomma. Ed è la cosa più autentica che c’è. Spiare dichiaratamente una donna. Rendere conto dell’atto. Pagare i diritti dell’atto. I nostri clienti erano i più sani appassionati di sesso che avessi mai conosciuto, come i grandi amanti della musica, che spendono tutto in dischi e trovano oltraggiosa la condivisione in rete. I nostri clienti non avrebbero mai spiato dal buco della serratura, di nascosto. Il punto estremo in cui il reality si dichiara fiction, senza falsi buonismi, era questo che affermavamo continuamente.

Piccole donne sotto vetro che danzano ondeggianti come pesci rossi. Goldfish in a Bowl, mi pare dicesse una canzone. Forse erano i Pink Floyd, ma non lo ricordo, non lo ricordo.

Abbiamo iniziato a guadagnare in quel modo. Potevamo ottenere tutto quello che volevamo. Ci sentivamo delle dive. Era come un banco del seme senza giornaletti porno e senza fiducia nella riproduzione. Dopo qualche mese eravamo diventate famose. Preparavamo i nostri show in un appartamento di periferia e li ripetevamo al locale. Nelle notti di Soho non esisteva cordone di velluto che non si alzasse per farci passare. Per la prima volta eravamo libere. Pensavo ad Eva come la mia vera madre. Madre senza padre. Era anche lo schifo per gli uomini ad accomunarci. La maledizione dell’innamorarsi, un motivo in più per sentirsi schiave.

Lei me l’aveva insegnato, io le credevo. Da bambina era stata violentata dal padre. Quella sera me lo confessò ridendo. Scopare è uguale con tutti. Non c’è differenza, aveva detto. La cultura vuole che non sia così, ma pensaci, è tutta una finzione. Tutti gli uomini sono uguali… lo dice anche il vangelo, no?

E rideva, infilandomi una giarrettiera rosa pallido ad una gamba. Mi baciò dolcemente sulle labbra. La felicità non esiste, sussurrò. Quella sera allo specchio vidi solo due anoressiche vestite da bambola.

Entrai in cabina senza sorridere. Dondolavo sull’altalena e in alto le corde si avvolgevano su se stesse, facendomi girare. Guardavo in basso. Dall’altra parte del vetro sentivo la voce di un uomo che mi diceva di togliermi il vestito , di sfilarmi lentamente le mutandine di pizzo giallo pallido, un nastrino per volta, sul fianco. Io stavo ferma a guardare nel vuoto. Iniziò a dirmi che ero una puttana, che aveva pagato per vedere, che non lo facevo eccitare abbastanza. Pensai alle gite in campagna. Pensai a tutte le volte che di sabato sera aspettavo sveglia i miei genitori che rientravano tardi, e a quanto ero sollevata nel vederli. Pensai alla mia camera, ai miei dischi di Simon & Garfunkel, alle poesie di Herman Hesse.

Mio padre che mi legge i versi di Omero in una giornata di sole, ai raggi che filtrano tiepidi dal vetro della cucina, mentre mia madre prepara la tavola con i colori più belli del mondo.

Sobbalzai al suono che indicava la fine del turno. L’uomo era andato via. Uscii fuori e accesi una sigaretta. Mi cambiai. Andai a casa. Aveva iniziato a piovere. Era bella la notte di Londra con la pioggia e mi sentivo affondare nelle cose.

Arrivai a casa mezza fradicia di pioggia ma ricordo perfettamente che andava bene così. Avevo cambiato idea e forse di vita ne avevo vista abbastanza. Che ero sempre in tempo per insegnare ad Eva quello che avevo scoperto e cioè che non tutto è definitivo. Che si è sempre in tempo. Questo lo pensai mentre cercavo le chiavi di casa, davanti alla porta.

E adesso immaginala con me, una voce che mi chiama. Una voce musicale, una ninnananna che inquieta. Bambolina. Mi chiama. Torna qui. Dice. Bambolina. Ho pagato per vedere. E ricordo che la borsa cadde a terra e si sentì solo il rumore delle chiavi.

Immagina: io che non ho fiato per gridare. Che mi fa male il cuore. Che provo a dimenarmi ma l’uomo stringe forte, mi trascina in un angolo di strada vuota. Sento che puzza. Sento che respira forte sul mio collo. Mi strappa i vestiti da dosso. Mi mordo la lingua per sentire più dolore, il mio, che io posso farmi più male di come me ne fa lui.

Basta, basta, ti prego, basta. Adesso basta. E dopo poco mi accorgo che non sento più niente, neanche la pioggia sul volto, neanche il freddo. Non avere paura, mi dico. Tra poco sarà tutto finito. E penso a quando nei sabati sera della mia infanzia lenivo da sola la paura dell’abbandono. Domani saranno i miei genitori a svegliarmi. Perché non mi hanno abbandonata. Saranno loro. Domani, domani sarà tutto finito.

Restai con il volto piantato a terra in una pozzanghera. Mi svegliai insieme a Londra alle prime luci oblique del mattino. Il sapore del sangue e quello della terra bagnata sono simili. Sanno di ferro. Senza muovermi riuscivo a guardare la porta di casa. Eva ha già portato dentro il latte, pensai. Ma non riuscivo a muovermi né a chiedere aiuto. Con un braccio sfiorai a tentoni la superficie della strada. Le mie dita incontrarono un pezzo di carta bagnato dove era ancora riconoscibile il nostro indirizzo. Il tratto blu scritto a penna e sfumato in parte e mi ricordò una laguna dipinta ad acquerelli. A stento riconobbi la scrittura di Eva.

Se tu non sei felice, non devi permettere a nessun altro di esserlo.

Ci hanno insegnato Woodstock e poi se lo sono ripresi, con l’innocenza e tutto il resto.

E noi non siamo altro che pesci rossi. Lo ricordiamo per tre secondi , poi basta. La condanna è eterna. Dobbiamo imparare ogni volta ad impararlo di nuovo.

 

Olga Campofreda