La società dello spettacaaargh! – 20

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Caro Jacopo,

trovo difficile parlare di Nessun Paradiso. È un libro che ho apprezzato, ma con cui fatico a entrare in risonanza. C’è un dinamismo efficacissimo nel suo stile che distrugge e rigenera continuamente sul piano linguistico le idee, come se volesse impedire alle parole di farsi idolo (così come hai rilevato tu nella settimana scorsa), o anche mostrando come esse facilmente diventino un idolo, prendendo il sopravvento sulle cose o sui pensieri da cui si originano; oppure come esse, da idoli che esistono sedimentati nella memoria, generino false percezioni.1 Parole che diventano immagini delle cose, e che nello Spettacolo si impongono come cose: nella narrazione Enrico, e forse questo è uno dei principali meriti che scorgo nel romanzo, dà forma a una frase di Debord che altrimenti, di per sé, potrebbe sembrare un assioma appagante per l’intelletto, «il vero è un momento del falso», un falso che è fin troppo facile assimilare sul piano cognitivo:

Leopardi era l’unico in Italia in grado di tradurre Aristotele e aveva tredici anni. Pasolini era l’unico a dire in faccia ai democristiani che erano fascisti, e s’è accorto trent’anni prima cosa c’avrebbe fatto la tivì. Cosa saremmo diventati. E perderemo anche noi, ché non siamo Pasolini e non siamo Leopardi. E ci diranno che eravamo impotenti e sfigati: saremo degli abominii, eppure non possiamo fare altro che proseguire il Pensiero, che tentare di tramandarlo a qualche altro sfigato, che verrà dopo di noi. È il nostro ruolo. È il nostro dovere.
E allora lei mi dice: – E tu? Tu dove sei stato, finora?
Io ci penso un po’, solo un po’ e poi glielo dico: – Sai? Non sono sicuro che Leopardi a tredici anni traducesse Aristotele. So soltanto che era l’unico in Italia a conoscere il greco e l’imparò da solo e lo chiamarono a Milano ch’era un bambino, anche se poi non c’andò, ché a lui non gliene fregava un cazzo, d’andare a Milano.
Un rivoluzionario, altro che pippaiolo. Leggi il resto dell’articolo

Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 8

L’otto quassù indica il numero di settimane da cui vanno avanti queste cronache dalla campagna. Sono passati già quasi due mesi da quando sono venuto qui. La stagione va cambiando: i colori meravigliosi dell’autunno; le ore di giorno si rimpiccioliscono e la sera alle sei e mezza è già scuro; si presentano i primi freddi e le piogge e il vento. Mentre scrivo, adesso, mezzogiorno di mercoledì, fuori piove. Mentre da ieri un bombardamento di notizie mette in allarme per i previsti nubifragi su Roma. Qui invece piovono le foglie – ingiallite nel tempo di un solo giorno – del tiglio fuori dalla finestra di questa stanza dove vengo a scrivere, l’unica della Casa degli oblò dove arriva la wireless. I cani sono nelle cucce, papere e galline nel pollaio: aspetto che spiova per portargli da mangiare.
Stasera dovrebbe arrivare Leggi il resto dell’articolo

Carta taglia forbice – 5

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Una grande città dell’America del Sud

Ci sono dei momenti in cui lui e lei non sanno che farsene del tempo. Il tempo stringe. Il tempo è denaro. Tempo contato. Non ho tempo da perdere. A loro non importa, perché lui e lei passano tutto il tempo insieme. Ma poi arriva il giorno in cui una conoscenza in comune incontra lui e gli chiede di lei, e lui scoppia a piangere, e la conoscenza non sa che fare, anche perché le buste pesano, il pesce puzzava già quand’era steso sul ghiaccio del banco, e poi è ora di tornare a casa. Ma lui piange e la conoscenza non può che fingere premura, interesse.
Alla fine lui si asciuga le lacrime e torna a casa. In cucina c’è un odore insopportabile di cose lasciate andare a male, e il vecchio frigorifero è rotto, non funziona più, perciò forse Leggi il resto dell’articolo

Ottobrata romana

Doppio appuntamento precario in questa fine di ottobre, che non riserva solo funghi e castagne.
Per dire che questa sera vi aspettiamo alle 19.30 alla Libreria L’Eternauta (via Gentile da Mogliano 184), ché Vanni Santoni arriva apposta da Firenze per presentare il suo nuovo romanzo, Se fossi fuoco, arderei Firenze (Contromano Laterza), dove all’inizio ci trovate persino una mappa della città con le vie attraversate dai protagonisti della storia – tante volte vi venisse in mente di ripeterne le gesta. Ci sarà anche il Liguori (non nel libro, mi raccomando!), che per l’occasione calpesterà nuovamente l’asfalto cittadino, e siam tutti curiosi di vedere se davvero gli sia già cresciuta la barba come agli gnomi del bosco. Io non l’ho capito se dovrò introdurre il testo o se mi ci fanno andare per leggerlo con accento labronico – magari il pezzo sul lampredotto, che sarebbe un po’ come il cacciucco per noi della costa.   Di sicuro però c’è questo: che il posto è piccolo e dunque vi consiglio di arrivare puntuali, magari anche un paio di minuti prima che non si sa mai, altrimenti vi resta toccare all’in piedi e poi vi lamentate che è colpa dei precari che son disorganizzati.
Domani, invece, con tutto il collettivo “Scrittori precari” al completo – ad eccezione a quanto pare del Liguori, che fa sempre notizia e non può resistere al richiamo della foresta, e per questo sarà sostituito da Marco Lupo (nomen omen) – saremo ospiti di “Labirinti Urbani”, evento organizzato da Les Flaneurs presso la Sala Vittorio Arrigoni (ex Cinema Palazzo – San Lorenzo), dove a partire dalle 19 ci sarà un sacco di roba: reading, live painting, performance teatrali e musica dal vivo. Qui non lo so se ci saranno delle sedie, magari trovate addirittura le poltroncine visto che si tratta di un ex cinema, e comunque se arrivate in orario c’è l’aperitivo, ché se poi venite tardi vi lamentate che si son mangiati tutto.

Simone Ghelli

Il Principe Azzurro non esiste

Recentemente sono stato con una ragazza. Una stronza, ovviamente, ma ormai non ho più un rapporto tranquillo con le donne: nel migliore dei casi mi sembrano solo stupide, mentre normalmente mi sembrano radicalmente feccia. Sto diventando misogino. Non maschilista (che pure i maschi sono esecrabili), ma solo misogino. Si lamentava che non le volevo bene, che era solo sesso. Per di più aggratise. Perché tutti vogliono affetto da me? Boh.
Ma io non me la prendo con le donne. Non è colpa loro se sono così: tirate dall’uomo con una mano verso il cielo e, sempre dall’uomo, con l’altra mano tirate verso la terra. Non chiediamo loro forse troppo? Cuoche in cucina, signore in salotto e troie in camera? Noi, se cambiamo – non dico idea, ma almeno – mutande già ci sembra di aver fatto uno sforzo sovrumano. Cioè, lo dice la parola stessa “mutanda”: è una perifrastica passiva, “mutanda est”, cioè “che è da cambiarsi”. Leggi il resto dell’articolo

ContraSens – Museo interiore

Piccoli accorgimenti fonetico-sociali.

Le lettere che contraddistinguono i suoni della lingua romena, e che di conseguenza ne affilano la musicalità in senso specifico, in questi testi non hanno subito traslitterazione. A seguire, una breve guida fonetico-esplicativa per la loro lettura corretta:
Ă: una -a più gutturale, pronunciata con la parte anteriore della gola, a bocca mezza aperta.
Â: una -a gutturale che tende alla -i.
Ț: corrisponde ad una -z dura, come in pazzo.
Ș: corrisponde al suono -sc, come in sciare.
Buona lettura.

Museo interiore *
di Ioan Es. Pop
Traduzione di Clara Mitola

Avevo letto molto, il sorriso mi aveva abbandonato
La vita non mi amava affatto

Nell’autunno del 1983 sono diventato finalmente un misero insegnante di provincia, i sogni dei miei genitori in merito al destino che avevo da compiere erano finiti. Gli ho lasciato credere in modo convincente che non era più necessario occuparsi di me e che potevo camminare sulle mie gambe; quindi loro che stiano tranquilli, me la sarei cavato da solo.
Nel villaggio in cui andavo come professore mi era stato assegnato un appartamento in uno dei due palazzi piantati accanto al municipio come animali morenti. Qui ce n’era un’altra decina come me, stranieri a cui il villaggio non aveva mai guardato in altro modo. Sono diventato inquilino principale, unico padrone di due stanze che non ho mai popolato con altro al di fuori dei fogli che ho scritto. È stata la prima e ultima volta in cui ho avuto casa mia.
Nell’autunno dell’anno successivo, in zona n’é apparso ancora un altro come me e mi hanno detto: signor Pop, una camera le è sufficiente, vogliamo darle un subinquilino, il professor Mircea Zubașcu, insegnerà geografia quest’anno, lei rimane inquilino principale. Essere inquilino principale era un grande onore, pagavi tu tutte le tasse, risolvevi tu tutte le grane, però io non sapevo che farmene di tutto quello spazio, due camere vuote erano due solitudini, così Mircea Zubașcu si era trasferito in una delle due. Leggi il resto dell’articolo

La società dello spettacaaargh! – 19

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Ciao Matteo,

questo meditare sulle vie della cancellazione e sulla loro praticabilità mi ha fatto venire in mente Nessun paradiso (Round Robin 2011) di Enrico Piscitelli. Conosci la storia: nell’Italia della “dittatura democratica”, all’indomani dell’assassinio del Capo del Partito, un dissidente si reca a Venezia per incontrare il coordinatore della rete d’opposizione al regime, e a Venezia gli accadono due cose: si innamora e scopre la verità sul potere, e la verità non è bella, almeno per il lettore.
A un primo sguardo, complice la bandella («il Potere è inevitabile», «le rivoluzioni sono impossibili»), lo spirito del romanzo appare rassegnato, negativo: una sorta di atemporalità1 fa pensare a una natura umana sempre uguale, mai progredita e destinata a non progredire mai; e poi c’è una Venezia che la avverti sempre postuma e spoglia, fatiscente; e c’è un protagonista i cui pensieri sembrano poggiare sempre su un sentimento di vanità di tutte le cose. Dunque in Nessun paradiso c’è l’opposto della rivoluzione, del tempo come forza progressiva, dell’esaltazione della vita. Qualcuno potrebbe giudicarlo reazionario, o nichilista2. Eppure non fa questo effetto. Anzi, quando l’ho terminato, non solo mi sentivo bene, più pulito, e con le idee più chiare, ma addirittura con più speranza e con un maggiore controllo sulla realtà. Mi sono domandato perché. E penso di aver trovato la risposta. Leggi il resto dell’articolo

L’arte del Piano B

L’arte del piano B (Piano B Edizioni, 2011)

di Gianfranco Franchi

Che cos’è questo nuovo libro di Gianfranco Franchi? Un manuale di sopravvivenza in tempi di crisi (o meglio: “un libro strategico”, come leggiamo in copertina, per non ritrovarsi impreparati nel momento della crisi)? Oppure, non è piuttosto la cronistoria di una rivolta tutta interiore, di un’immaginazione che evoca delle alternative (il famoso piano B) con l’intento provocatorio di sbattercele in faccia? Come dire: un po’ ce la siamo andata a cercare se oggi ci ritroviamo infognati. Certo, il libro ci dice anche che non è stato per tutti così: qualcuno che ha avuto la pazienza e la tenacia di lavorare nell’ombra c’è stato (e sempre ci sarà); qualcuno che all’improvviso ci fregherà a tutti quanti, lasciandoci di stucco (magari proprio quel qualcuno che non sospettiamo minimamente capace di tanta dedizione). Questo ipotetico qualcuno è la sorgente della voce narrante, che ci elenca punto per punto (e con dovizia di particolari) le strategie messe in campo da chi voglia allestire un piano B. Questa voce a tratti fastidiosa, che smaschera i nostri vizi e le nostre debolezze, rappresenta una mano tesa pronta a tirarci fuori dalle sabbie mobili in cui stiamo sprofondando. In cambio, Gianfranco Franchi chiede al suo lettore la medesima dedizione e forza di volontà…

Simone Ghelli

Riportiamo in anteprima un breve estratto dell’opera, da domani in tutte le librerie.

Pizzicherai, nel corso degli anni, tutta una serie di soggetti velleitari, diciamo dei “Wanna Be Piano B”. Li riconoscerai non soltanto dall’estetica (tendenzialmente è pretenziosa, capricciosa e ricercata: va sublimando le loro lacune, le loro aporie), ma da una caratteristica indiscutibile e facilmente evidente. L’estraneità completa a qualsiasi professionalità. Un Wanna Be Piano B è uno che ti accoglie nel suo studio, tutto affettato. Magari ti prepara addirittura un caffè, non chiede scusa per il disordine –preferisce piuttosto vantarsi del disordine: fa molto artista – e ti mostra al suo pc (se è proprio grossier, al suo macintosh) una serie di fotine e di filmati relativi a uno o due dei suoi Piano B meglio riusciti. Ora, ci sta che a certa gente sia venuto bene un Piano B nonostante la nulla documentazione, la fiacca progettazione, l’inesistente professionalità. È successo qualche anno fa. Si chiama culo. Il discorso è che questa gente vuole venderti il culo, avuto una volta o due, come professionalità. E no, cicci. Mica è sempre domenica. Leggi il resto dell’articolo