Scrittori precari augura buone feste

Scrittori precari vi augura buone feste ed un felice 2010.

Questo blog va in vacanza per ritornare attivo sabato 2 gennaio 2010 con l’undicesimo appuntamento de La banda dello stivale.

A gennaio si ricomincia con un doppio appuntamento capitolino:

21 gennaio 2010

ore 18.30

Libreria Rinascita

Largo Agosta – Roma

Ospiti Pier Paolo e Massimiliano Di Mino

28 gennaio 2010

Ass. Cul. Simposio

Via dei Latini 11/ang. via Ernici

San Lorenzo – Roma

Ospiti Peppe Fiore e Vanni Santoni

Inframezzo musicale di Manuel Milano

Disoccupazione silenziosa

Sono un serial killer. Mi chiamo Giovanni ed ho 47 di piede. Squarto bambine mute per hobby ma la mia vera passione sono le commesse della Rinascente con contratto a tempo determinato. Se poi trovo una commessa della Rinascente con contratto a tempo determinato che ha pure una figlia muta, vado a dormire soddisfatto la notte. Non mi hanno mai preso per due motivi che ora vi dirò. Uno: Le bambine mute, essendo mute non possono urlare mentre seziono loro lo stomaco. Due: Le commesse della Rinascente le uccido sempre mentre vanno a fumare di nascosto nella stanza del retro Rinascente. E non è che si mettono ad urlare ché se il capo reparto si accorge che sono li a fumare le licenziano. E al giorno d’oggi uno si farebbe uccidere pur di tenersi il posto di lavoro.

Angelo Zabaglio feat. Andrea Coffami

Racconto per il gioCOCOnCOrso indetto da [zop blog]

Dieta

Erano dodici giorni che Falco faceva la spesa tra i rifiuti del mercato della Marranella. Trovava roba buona. Bastava togliere parti marce, ammaccature, ma frutta e verdura, certo non di primissima qualità, a costo zero, e qualche volta magari un pacco di pasta rotto oppure un avanzo di prosciutto, solo grasso, che per condire i pomodori era una prelibatezza.

Conosceva tutti i mercatari, Falco, alla maggior parte di loro però faceva un po’ pena. Un uomo di trent’anni passati, laureato, anni a sudare e studiare, ed era rimasto senza lavoro. Il mondo non è più come una volta, pensavano i vecchi.

Falco non lavorava da due mesi. Aveva debiti con amici e conoscenti. Alcuni nemmeno lo salutavano più, lo consideravano un miserabile. Aveva anche rubato al supermercato, un paio di volte, alla terza lo avevano sgamato e minacciato. Non lo avrebbe fatto mai più.

Aveva inviato oltre mille curriculum: nessuno aveva da offrirgli uno straccio di lavoro per le sue competenze. Aveva provato di tutto e di più, ma alla sua età non risultava idoneo per nulla. Inoltre, avendo studiato, avrebbe potuto creare problemi. Non sapeva proprio a chi rivolgersi, cosa inventarsi.

Era il tredicesimo giorno di sopravvivenza, quel giorno aveva particolarmente fame. Aveva sognato di mangiare una bistecca. Non mangiava una bistecca da sei, forse otto mesi. Non amava granché la carne, in genere. Ma ne sentiva un gran bisogno.

Non era la prima volta che li incontrava, avevano i suoi stessi orari: i gabbiani. Gli ha sempre procurato una strana impressioni vederli aggirarsi pei cieli della città, tra palazzi e antenne. Lui, che veniva dal sud, cresciuto in un paese di mare, li considerava uccelli marini.

Erano coraggiosi i gabbiani, procacciavano cibo tra rifiuti umani arraffando e volando via. Qualcuno li scacciava, come faceva con Falco; come fratelli, vivevano la stessa emarginazione.

Puntò quello con la macchia sull’occhio, era il più grande e dominava all’interno del gruppo.

Gli si avvicinò come fosse distratto, i gabbiani ormai lo riconoscevano e non avevano paura di lui, o forse nemmeno si accorgevano della sua presenza. Era un derelitto. Quella volta però, anziché andare diretto verso il cumulo di sacchi neri colmi di rifiuti, Falco prese il giro alla larga. Raccolse una mela da terra, la strofinò sul calzone e diede un morso. Avanzò di qualche passo, diede un altro morso e gettò la mela a terra poco lontano dalla spazzatura. Qualche piccione volò via. I gabbiani erano là, facevano la cernita dei rifiuti, mangiavano, poi PFUM!

Era sopra di lui. Lo aveva preso. L’animale si agitava, dimenava le ali, per sfuggire. Troppo tardi. Falco gli strinse il collo. Sentì il volatile venir meno.

Provvide a svuotare un sacco per riporvi la sua preda. Caddero alcuni pomodori e gli scarti dell’insalata. Mise il bottino dentro la busta e sgattaiolò tra le bancarelle per perdersi nei vicoli. Ritornava vittorioso a casa, la caccia era andata a buon fine. Per cena carne bianca.

Gianluca Liguori

Racconto per il gioCOCOnCOrso indetto da [zop blog]

L’inferno – I pendolari in metro

GIRONE II – I pendolari in metro

La cosa meno rassicurante per una persona è scendere da qualche parte. Scendere sempre di più e arrivare sotto. Sotto vuol dire stare più in basso, un valore negativo che porta ad una situazione di svantaggio nella nostra percezione del mondo.

Una fila interminabile di corpi scende da una scala mobile, poi da un’altra, poi un’altra, per arrivare sotto e partire, esplorare il mondo dei vermi sotto terra. Il tempo di abituarsi all’aria rarefatta e poi via sul veloce metro che ad ogni frenata fa volare scintille dal basso e dall’alto. La tensione dei cavi si limita a variare il minimo prestabilito, giusto per rendere il tutto poco stabile, ma mai instabile. La velocità e i sobbalzi rendono l’equilibrio precario, regalando giramenti di testa e conati di vomito che solo raramente avranno la possibilità di uscire allo scoperto per spargere quel po’ di noi che c’è rimasto attaccato alle budella. Le mani sudate scivolano sui pochi appigli ambiti da una moltitudine di persone. Le persone in eterno viaggio… sempre in cerca di qualcosa che le distolga dal lineare flusso di eventi, ma come al solito niente, solo altre fermate, sempre le stesse.

Persone che cercano di guardare tutti e pretendono di capire tutti, d’inquadrarli, diffidando di tutti per non sbagliare. Non un dialogo tra sconosciuti, nemmeno un semplice sorriso. Non sono ammesse espressioni costruttive, solamente sguardi arrabbiati, stravolti, sofferenti e sadici.

Gli inadattabili guardano schifati ogni diversità e appena pensano di vivere condizioni altrui così incredibili quanto disgustose fremono dalla paura, paura che tendono a reprimere con un odio paralizzato, di quelli che bruciano dentro e basta, senza venire mai a galla per “paura”. Codardi.

Questi simpatici personaggi si trovano sempre in prossimità delle porte, pronti a fuggire. Proprio nel momento dell’apertura vengono inondati dal grasso rancido degli ingranaggi delle porte e sono sbattuti in fondo al vagone assieme ai diversi. Ora, sotto gli sguardi delle persone per bene interpretano le parti del diverso.

Il diverso non è accettato, capito, e per questo è libero di fare quel che vuole. Solo lui sa che si può fare tutto. Basta essere sostenitori delle proprie individualità. Per fare questo ci vuole coraggio, il coraggio di fare quel che si vuole. Se ne fregano degli sguardi della gente stupidamente infastidita e forse solamente gelosa, gelosa di quel coraggio o di quell’indifferenza che li rende unici.

I diversi nel loro momento di grazia deciderano di scendere e ce la faranno, fin a quando saranno tutti giù ad aspettare di salire su un’altra vettura, ma nessuna carrozza sarà più pronta ad ospitarli. Pian piano tutti loro deruberanno gli altri stronzi dalla mente ristretta e assumeranno i loro panni per poi lottare e tenere fuori dal loro mondo i loro fantasmi. Spettri liberi e incuranti dell’opinione pubblica.

Daniele Vergni

Poesia precaria (selezionata da A. Coffami) – 18

Barbara Pinchi quando si faceva le Slam Poetry leggeva/recitava le sue poesie scalza. E faceva strano magari vederla al salone del libro di Torino senza scarpe che ammaliava con quella voce e quei suoi testi vibranti. Io e lei, dopo un bel periodo di letture itineranti (eravamo autori della scuderia Prospettiva editrice, con la quale lei pubblicò la raccolta D’Ombre) non ci siamo sentiti né visti per mesi e mesi finchè non debuttò in un teatro vero con un suo “recital” poetico, a metà strada tra reading e spettacolo teatrale. I testi di Barbara Pinchi sono testi di carne, di ossa, sono viscere, sono passione. E quando è in scena il tutto fa contrasto con il suo corpo esile e ci si chiede da dove provenga tanta tempesta.

Assaporatela qui.

Andrea Coffami

LORO IN BOCCA

Oggi ho il cuore che mi si riempie

strano.

Ode a te mio pallido amore.

Ave oh mattina che hai loro in bocca.

Mio istrice pungente,

pungimi,

altrimenti che mi dici

che non tutti i mali vengono a pungermi.

E loro in bocca… loro tengono un termine

che se porgo un’altra guancia me ne rimane

una

sola.

Mio pallido amore, finché notte non ci separi.

OGGI / HO IL CUORE / CHE MI

SI RIEMPIE

STRANO.

Barbara Pinchi

CONCUOCE

Se/ non avendo questa tagliola tra le gambe. Se/ in

sproporzione di labbra. Se/ dopo lagrimanti voglie non

inducendomi sempre in abbandoni. In perseveranze mie,

senza più rigido dire, maldestro e malsinistro emisfero che

cuoce e concuoce in sibili. Se anche questo cuore

anchesenzafrettanchesenzassenza fosse più un forse che

un mai. Saprei in “concediti il tempo” grattare via la

sagoma del pensiero? Mi saprei più impunita e d’altronde

orgogliosa di me.

Barbara Pinchi

Trauma cronico – Saluti e baci

Eccoci giunti all’ultimo appuntamento dell’anno con Trauma cronico, la rubrica va in vacanza per tornare domenica 3 gennaio 2010; segnatelo sul calendario nuovo di zecca, programmate la sveglia del cellulare, scrivetelo sui muri.

Sono un po’ stanco, la rete sfianca, devo disintossicarmi per qualche giorno del web. Negli ultimi mesi ho lavorato tanto per questo blog, appuntamento quotidiano per un numero sempre maggiore di lettori, voi, che ci date la forza di continuare a ricercare contenuti sempre nuovi. Colgo l’occasione anche per ringraziare a nome mio e di tutto il collettivo i tanti amici, scrittori ma non solo, a cui chiediamo di contribuire alla causa.

Per il nuovo anno speriamo di portarvi nuovi autori, giovani promettenti e firme già riconosciute nel panorama letterario nazionale. C’è qualcuno che sta già lavorando per noi, e per voi.

Il blog continuerà ad essere aggiornato ancora per qualche giorno, poi si prendrà un po’ di vacanza. Mertitata? Ditelo voi…

Domani c’è il consueto appuntamento del lunedì con la “Poesia precaria”, la rubrica di Andrea Coffami e Luca Piccolino. Vi anticipo solamente che ospiteremo una poetessa bravissima che ha letto ad un paio di reading insieme a noi. Avete capito? Scopritelo domani.

Martedì pubblichiamo la seconda parte del racconto diviso in tre di Daniele Vergni, L’inferno (il terzo sarà online il 5 gennaio).

Mercoledì infine chiudiamo i battenti rinnovando l’appuntamento per sabato 2 gennaio 2010 con l’undicesimo episodio del feuilleton politico surreale e grottesco di Simone Ghelli, La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia.

Per concludere ho piacere di segnalarvi qualche titolo di autori italiani usciti nell’ultimo biennio che ho letto quest’anno e che vi consiglio assolutamente. Purtroppo ne dimenticherò qualcuno, di quelli letti, e tanti, di quelli che ancora non sono riuscito a leggere. Ma credo di potervi dare ottimi suggerimenti. Leggete, e fatemi sapere.

Ecco a voi la mia piccola lista in ordine sparso:

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Giuseppe Genna, Italia de profundis

Vanni Santoni, Gli interessi in comune

Claudio Morici, La terra vista dalla luna

Peppe Fiore, La futura classe dirigente

Cristiano Cavina, I frutti dimenticati

Luca Moretti, Cani da rapina

Ed infine, perché no, Il cagnolino rise, l’omaggio a John Fante di vari autori, tra cui i precari Ghelli, Zabaglio e il sottoscritto.

Buone letture e fate i bravi.

Gianluca Liguori

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 10

[Segue da qui]

Ci sono diverse teorie sulle attitudini politiche del quintetto, tutte ben argomentate, ma smontate dal fatto che in ognuna di quelle teste la visione del mondo era bacata in un modo diverso. Non v’era cioè uno sguardo d’insieme sulla realtà, ma semmai un’accozzaglia d’idee – o, per esser più precisi, di principi d’idee – che rimanevano abbozzi, e che di tanto in tanto rispuntavano dal terreno per poi ricader subito per terra al primo alito di vento. In verità, i più – ad eccezione dei pochi facinorosi rimasti a piede libero nel nostro beneamato paese – concordano sul fatto che le tendenze eversive del gruppo nascessero da un eccessivo bisogno di comparire, nonostante tutti i proclami contro la società dello spettacolo e via discorrendo.

Questa loro necessità di trasformare la parola in azione era insomma il risultato di un lento logorio dell’anima, la quale ambiva a trovare un riscontro della propria esistenza in mezzo agli altri, al di fuori di quelle poche righe scritte, perlopiù non reperibili dal grande pubblico. Per chiamare le cose con il loro nome e non fare il gioco di questi scrittori, così bravi a ribaltare il senso e a colpir di metafora, si può dire che il vero motivo di tal furore poetico fosse un male assai ricorrente e banale pei nostri tempi: la frustrazione. Nonostante gli alti ideali, risorgimentali o rinascimentali che fossero, costoro erano in tutto e per tutto figli della nostra epoca, in cui l’occhio precede gli altri organi, e perciò incapaci di condurre quella vita isolata e anonima che apparteneva ai grandi scrittori di una volta. Forse questi novelli scrittori non avevano così tanta fiducia nella loro parola, e allora dovevan batter di gran cassa, buttarla insomma in caciara, e per farlo non trovarono di meglio che mirare al bersaglio grosso della politica, ché tanto quello fa sempre rumore.

Gli è che questi cinque affabulatori si sentivano posseduti dalla voce del popolo; un popolo, a dire il vero, che non rispecchiava certo la maggioranza degli italiani, ché ormai alla precarietà c’aveva fatto il callo da tempo e che non si riempiva di certo la panza con la cultura. Essi identificavano però il popolo in quel manipolo di spettatori che nel bene o nel male continuavano a seguirli, senza considerare problemi di ordine statistico – ché i letterati non si abbassano a certe cose – dai quali avrebbero subito dedotto che trenta persone, per quanto siano risultato più che dignitoso per una lettura, sono una minoranza della minoranza in una penisola abitata da milioni d’individui. E invece le loro gole s’incendiarono per qualche applauso di convenienza, che scambiarono per fermento culturale – e qua ci sarebbe da incolparne quelli che non capiscono quanto fragili siano le menti di certi soggetti portati al romanticismo, e che anziché spegnerne preventivamente i bollenti spiriti, si divertono nel gettar benzina sul fuoco delle loro passioni.

A volte, come il caso in questione dimostra, è da certi errori di valutazione che nascono poi i peggiori mostri, che di qualche idea strampalata finiscono per farne un manifesto, o addirittura un piano che prevede il sovvertimento della retorica dominante e il sabotaggio del linguaggio del potere; che da qui a scambiare una visione personale del mondo – oltretutto insana, aggiungo io – per la realtà delle cose, il passo è breve. Anzi, brevissimo.

Insomma, se il virtuale altro non è che un potenziale reale – qualcosa che attende di essere messo in pratica – allora la colpa di tutto quanto è primariamente di quei lettori che non s’avvidero della pericolosità soggiacente tra le righe, e ancora più di chi non legge, perché è come chi si tappi gli occhi davanti all’orrore per non esser costretto a guardarlo in faccia. Se questi cinque modesti scribacchini avessero goduto di un pubblico più ampio, probabilmente non starei qui a raccontarvi questa storia, perché nella massa sarebbe balzato agli occhi, anche ad una sola persona, l’aberrante disegno che si andava delineando. Ma forse, a pensarci bene, in tali condizioni non si sarebbe neanche sviluppato quel senso di frustrazione che vedo all’origine del tutto, e che dimostra che il male si annida sempre laddove non vi sia del bello. Un sentimento, mi pare ormai chiaro, a cui non potevano certo aspirare i cinque bruti di cui stiamo qua trattando.

Simone Ghelli

Il silenzio perfetto

«Tuo nonno aveva la patente ma non ha mai guidato» dice Vera, sedendosi in cucina.

«Si è sempre vergognato di ammetterlo, ma girava solo in taxi e in monopattino.»

«È per questo che ebbe quell’incidente sbattendo contro il cartellone pubblicitario del mobilificio Fichera?» le chiedo, perdendo improvvisamente interesse per la maschera purificante all’argilla che sto mescolando nel vaso finto Ming, regalo dello zio Aristide.

«No, quello fu perché si era messo in testa di provare lo skateboard. Ma non aveva capito come svoltare a destra. A sinistra sì, però.»

«Lasciamo perdere. Non capisco perché tu debba tirare fuori questi ricordi dolorosi proprio adesso, lo sai che mi sconvolgono e poi non riesco più a ricordare se lo smalto per unghie color prugna californiana si abbini meglio al risotto ai quattro formaggi o alla trapunta in vera piuma d’oca.»

«Sei una povera pazza» sbuffa lei, aggiustandosi i capelli con la punta di un ombrello «lo sanno tutti che lo smalto non si usa più: molto meglio l’Alka Seltzer.»

«Vallo a dire a Thomas Stearns Eliot.»

«E’ stato tuo professore?»

«No, però è lui che ha detto che aprile è il più crudele dei mesi.»

«Sai che scoperta. Il tuo parrucchiere è nato ad aprile.»

«Anche tu, se non sbaglio.»

«Può essere. L’importante è che tu non vada a dire in giro l’anno, comunque.»

«Quando tu mi parli di anniversari, Vera, mi viene sempre in mente un’altra citazione: Sei come una stucchevole torta di compleanno; una torta di cui tutti, però, hanno assaggiato almeno una fetta.»

«Sarebbe riferita a me?» domanda lei incuriosita.

«Ma noooo, alla moglie del portinaio» rispondo, spalmandomi la maschera sul viso e gettando il vaso dalla finestra.

«Quella donna orribile! È sempre vestita come se fosse appena uscita dal cassonetto della raccolta indifferenziata» esclama Vera.

«Il marito poi sembra Danny De Vito, però più grasso.»

«Se è per questo, il figlio somiglia a Pete Doherty, però più fatto» conclude lei.

Poi si sistema una teiera in testa e se ne va, non senza aver prima dato un po’ di acido muriatico alle piante rampicanti del terrazzo.

Nel dormiveglia mi resi conto che, a mia memoria, quella era la prima volta che sognavo mia madre. Probabilmente non era un caso che il sogno non avesse avuto alcun senso logico, pensai, mentre mi riassopivo.

Ilaria Mazzeo

Estratto dal romanzo Il silenzio perfetto (Intermezzi editore)