Il molosso. La leggenda del cane

IL MOLOSSO. LA LEGGENDA DEL CANE *

Siamo ripartiti e bisogna stare attenti perché tra lance, rostri, frecce e spade è come camminare in una grande bocca piena di zanne anche nel palato e sulla lingua, una bocca che avanza e si agita di continuo e se sbagli direzione o inciampi vieni sventrato e fatto a pezzi. Ci sono lame e becchi appuntiti dappertutto.

Alcuni, quelli che ce la fanno, marciano con scarpe di ferro tagliente.

Io sto nella terza fila e reggo una lancia di sette metri. Possiamo avanzare su ogni tipo di terreno. Qualsiasi cosa accada, la falange non si rompe, si riassesta, è capace di qualsiasi movimento. Sfonda qualsiasi schieramento.

«Levati», mi urla il bambino.

Mi scanso. Ero finito troppo vicino a un cane da combattimento con due torce ritte sulla schiena. Sui fianchi ha i serbatoi di resina che alimentano la fiamma. Porta un collare pieno di punte affilate. Ha il pelo arruffato e lungo, perché viene dalle piogge e dalle tempeste. È bianco, irsuto, come un cane da pastore, forse un tempo lo è stato. Noi per lui siamo il gregge. Gli altri i lupi.

Sono ancora forte, ma senza il bambino sarei già finito. Ripenso a quando l’abbiamo preso, suo padre e sua madre non volevano, non capivano il nostro destino di gloria e di conquista, erano uno dietro l’altro, furono trapassati dalla stessa lancia. Lui non può ricordarlo.

«Stai andando bravo», mi urla.

Quasi non ci vedo, per il bagliore bellissimo delle armature e degli scudi.

Enzo Fileno Carabba

* Estratto da Il molosso. La leggenda del cane (Zona, NOVEVOLT, 2010): un intrico di storie fantareali, attorno alla figura leggendaria del molosso: un cane da combattimento e da caccia, una feroce arma vivente, un progenitore sceso dal Tibet, un fedele compagno dai poteri telecinetici, una bestia mitica proveniente dalla culla martoriata della civiltà. Carabba ci accompagna con la sua immaginazione vertiginosa in una Italia distopica, abitata da pastori e solcata dagli F16, mostrandoci visioni alternative del nostro futuro. Enzo Fileno Carabba ha scritto, tra gli altri, Jakob Pesciolini, vincitore del Premio Calvino, La regola del silenzio, La foresta finale (tutti pubblicati da Einaudi), Pessimi segnali (Marsilio, 2004) e Le colline oscure (Barbera, 2008). È stato tradotto da Gallimard in Francia.

Inoltre Scrittori precari segnala giovedì 1 aprile 2010, alle ore 18.00, presso la Feltrinelli international, in via Cavour 12r presentazione dei primi libri della collana NOVEVOLT, Il molosso. La leggenda del cane di Enzo Fileno Carabba e Un viaggio con Francis Bacon di Franz Krauspenhaar. Saranno presenti, oltre agli autori: Vanni Santoni, Jacopo Nacci, il curatore della collana Alessandro Raveggi e l’editore Piero Cademartori. Reading a fine presentazione.

Un viaggio con Francis Bacon

UN VIAGGIO CON FRANCIS BACON *

“Di notte teste esplose mi vengono a bombardare mente e stomaco mentre tento di dormire. Ho preso due pastiglie di Minias, un sonnifero non forte che mi permette di addormentarmi quando l’insonnia mi si accanisce contro, ma quelle teste mi perseguitano. Più di tutte, quella di John Kennedy sull’auto presidenziale, a Dallas. In effetti non scoppiò, ho visto come tutti quel filmato decine di volte, ma la mia distorsione me la fa vedere esplosa. È sempre Bacon che mi perseguita, le sue teste, le fauci umane, lo spalancarsi dell’abisso.

L’uomo baconiano è tutti e nessuno, ora l’ho capito. È il venditore in Mercedes incontrato a fine inverno davanti al tabaccaio, ma è anche John Kennedy nel pieno della sua morte violenta. È il ragazzo del Vietnam vittima di uno scontro a fuoco. È addirittura la testa pelata del colonnello Kurtz impersonato da Marlon Brando in Apocalypse now. La filosofia di Kurtz, esplicata nel suo monologo, è una filosofia dell’accettazione della morte e soprattutto dell’assassinio senza riguardo che non è nemmeno immorale, è semplicemente lineare, fino a raggiungere proprio una non sottile linea di straordinaria purezza.

Ecco, il dolore e il male rappresentato da Bacon mi sembrano alla fine coinvolti in una strana purezza naturale. È come se l’uomo baconiano, afflitto, sconfitto, frustrato, sia preda di un male naturale che è puro, perché inevitabilmente intricato con la natura. Una natura che non ha riguardi nel nascere e nel morire, che si fa largo sulla nostra terra tramite la brutale selezione della specie. L’uomo baconiano è arrivato al termine di questa selezione, ma da sconfitto.”

Franz Krauspenhaar

* Estratto da Un viaggio con Francis Bacon (Zona, NOVEVOLT, 2010): Francis Bacon nella vita di uno scrittore. Un libro ibrido, che mischia strutture narrative e stili letterari, e che traccia indelebilmente i contorni del mondo della contemporaneità. Un piccolo grande viaggio pop, tra cinema, musica e poesia. Viaggiare assieme a Francis Bacon, in questo libro, significa sporgersi dalla balaustra del traghetto, e guardare all’orizzonte il vuoto, in un dialogo con la crudele e tagliente scrittura di Franz Krauspenhaar, già autore di Avanzi di balera (Addictions), Le cose come stanno e Cattivo sangue (Baldini Castoldi Dalai), Era mio padre (Fazi), Franzwolf. Un’autobiografia in versi (Manifatturatorinopoesia) e L’inquieto vivere segreto (Transeuropa), nonché ex redattore di Nazione Indiana e uno dei principali animatori dei dibattiti culturali in rete.

Inoltre Scrittori precari segnala giovedì 1 aprile 2010, alle ore 18.00, presso la Feltrinelli international, in via Cavour 12r presentazione dei primi libri della collana NOVEVOLT, Il molosso. La leggenda del cane di Enzo Fileno Carabba e Un viaggio con Francis Bacon di Franz Krauspenhaar. Saranno presenti, oltre agli autori: Vanni Santoni, Jacopo Nacci, il curatore della collana Alessandro Raveggi e l’editore Piero Cademartori. Reading a fine presentazione.

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 23

[Segue da qui]

Per quanto gli animali si dannassero nel rifornire con celerità i loro compagni, fu chiaro fin dall’inizio che quel diversivo avrebbe avuto vita breve. Le forze dell’ordine esibirono in fatti il loro corredo di scudi in plexiglas, col quale ripararono anche i politici e i giornalisti, che da dietro quel bel paravento tuonarono altre minacce condite con frasi di convenienza.

In un momento di pausa – ché d’altronde gli artisti, tra alcool e fumo, di fiato ne tenevano ben poco – dallo schieramento uscirono un paio di ardimentosi volontari, imbottiti di tutto punto e muniti di tenaglie, con le quali si apprestarono a rompere i catenacci che tenevano chiuso il colorato cancello della Repubblica indipendente.

Il nemico avanzava, spronato anche dalle parole del Presidente, che dal megafono lanciava la promessa di detassare gli straordinari per incentivare l’iniziativa dei suoi soldati. Più l’azione si faceva serrata e più le sparate aumentavano di calibro: si parlò di abbattere l’ici sulle seconde case di tutti i familiari di primo e secondo grado appartenenti all’arma, mentre ai giornalisti, per tenerseli buoni, venne fatta solenne promessa di ristabilire la libertà d’informazione. Addirittura, pare venne persino ventilata l’ipotesi di sconfiggere alcune tra le più gravi malattie che da decenni flagellano il corpo umano.

Insomma, tutti, dagli operai agl’imprenditori, si strinsero intorno al proprio governo nella caccia agli spietati parolieri, che non possedevano la necessaria e cieca fede per risollevare le sorti del mondo. Grazie alla magia del montaggio e all’arte dell’inquadratura, le televisioni seppero poi fare il resto: quella trasmessa in diretta sembrò ai più una vera e propria azione di guerra, necessaria per sventare la minaccia di una nuova terribile banda di terroristi.

Messi alle strette, con tutto il popolo contro, gli scrittori si decisero a usare quella che da sempre è la loro arma migliore, l’unica che avrebbe potuto ancora salvarli: la parola.

A tal proposito, il vegliardo intellettuale teneva in serbo un’arma segreta, di cui nessuno, neanche la fidata compagna, era a conoscenza. Egli raccontò ai suoi compagni che nascondeva in una stanza un grosso baule, dove erano stipate centinaia di copie di libri insulsi, ch’egli andava sequestrando in giro. In pratica, l’uomo aveva passato diversi anni a convincere le persone che uscivano dalle librerie con in mano un’opera, a suo dire indegna, ad accettare il cambio che proponeva loro: un altro libro, la cui lettura avrebbe cambiato per sempre la loro vita, purché avessero acconsentito a consegnargli la porcheria che avevano appena acquistato, attratti più dalla pubblicità che dal vero contenuto dell’opera.

“Finalmente”, esordì l’artefice della Repubblica indipendente, “è giunta l’ora di dare un senso a tutta questa robaccia!”.

Insomma, il piccolo battaglione si sbizzarrì non poco nel rendere utili quei libri. Di alcuni strapparono le pagine, intrise di pessimo romanticismo e retorica da quattro soldi, per farne delle grosse palle di carta a cui dar fuoco. Di altri usarono invece i dorsi, che con i loro spigoli erano armi contundenti alquanto dolorose.

Mentre si provvedeva al lancio di palle infuocate e di copertine rigide, il canuto autore di satira si lasciò andare a teneri ricordi: “Non avete idea, voi altri, di quanti Bianciardi, Gadda e Landolfi sia riuscito a far leggere con questa semplice tecnica pedagogica…”.

Simone Ghelli

Come avrete intuito, questa storia non finisce qua, ma l’autore si riserva d’infliggervi quella giusta punizione chiamata attesa, che renderà ancora più gradita la lettura quando i pezzi della vicenda saranno stati rimontati a dovere, come si conviene a ogni finzione che si rispetti. Nel frattempo, tutto questo potrebbe essere accaduto davvero…

Poesia precaria (selezionata da L. Piccolino) – 22

Ci ho messo un po’ a metabolizzare l’ultima opera di Gioia Lomasti. Questo sia per l’effettiva lunghezza (108 poesie), ma soprattutto perché ho ritenuto necessario soffermarmi un poco sull’aspetto di ciò che avevo innanzi.

Dolce al soffio di De Andrè (Rupe Mutevole Edizioni) è un libro che presenta varie sembianze e differenti punti di osservazione. Un omaggio ma soprattutto un dono dettato dalla musica, che ha portato l’autrice a rielaborare i testi del cantautore genovese. Più di cento componimenti in rima che sono, come Gioia stessa ama ripetere, una poesia dedicata alla sua poesia.

Il risultato è sfaccettato. Questo libro, rotolando e danzando, ha il potere di trasportare il lettore lungo una strada profumata di letteratura e dita che pizzicano le corde.

Rendere giustizia a Dolce al soffio è una faccenda complicata che vale la pena di dirimere tenendo il libro in mano con curiosità, interesse e stupore:

Un gioco di complicata delicatezza, una dolce-amara prosa dall’incalzante melodia e dalla raffinata maestria nell’uso della versificazione che, intrisa di autobiografismo al viaggio musicale “In Direzione Ostinata e Contraria”, vuole essere un sentito e accorato omaggio al più grande cantautorpoeta italiano.

In questo libro non c’è testo che valga di essere pubblicato a dispetto di un altro. Perciò ho fatto di testa mia, affidandomi alla canzone di De Andrè che preferisco. E non credo di aver fatto male.

Buona lettura

Luca Piccolino

GIUGNO ’73

Anno che ne sospese

l’addio di ciò che d’oro

perse la sua radice

e in lei perì l’assolo

scelte che ne convinsi

al suo stornar d’addio

note che a te dipinsi

stonarono di mio

se stancamente resta

l’eco di lei che intacca

come la triste vetta

da cui trasparì di macchia

anelli che d’incrociarne

e del saldar di un cuore

in roccia sbriciolarne

la fine di un amore.

Gioia Lomasti

Gioia Lomasti nasce nel luglio di trentasei anni fa a Ravenna, dove attualmente vive e lavora. Riversa nella scrittura la sua più grande passione, attraverso la composizione di opere in poesia-prosa che ricevono numerosi riconoscimenti da parte della critica, grazie alla partecipazione a concorsi ed eventi culturali della regione Emilia Romagna.

Passaggio (Edizioni Il Filo, 2008) è la sua prima raccolta edita.

Nel giugno 2009 crea la collana Poesia e Vita, edita da Rupe Mutevole Edizioni, curandone personalmente struttura e stile.

Accabadora

Accabadora (Einaudi, 2009)

di Michela Murgia

Un dono. Questo romanzo è un piccolo capolavoro che riesce a raccontare una storia e una terra, di cui si conoscono di più solo gli aspetti vacanzieri, senza perdersi in finti omaggi alla narrativa italiana e senza fronzoli di alcun genere. Un libro in cui c’è solo la storia di una vita raccontata dalla vita.

Soreni è un paese della Sardegna dove si fa fatica a capire le cose. Dove le persone sono strette come fasci di erba alle loro vite quotidiane. Le chiacchiere che passano di sguardo in sguardo, mentre le mani camuffano le intenzioni delle bocche, sono vento che spesso porta odore di terra bruciata. Un paese che fa parte di una tradizione antica quanto la lingua stessa e dove italiano, sardo, storia e latino si uniscono a creare famiglie, amori e legami. Qui il passato non resta mai tale e fa fatica ad essere sepolto.

Maria vive a Soreni, è una bambina di troppo in una famiglia che ha poco. Una bambina che diventa figlia di anima di Tzia Bonaria Urrai, la sarta del paese. Una donna rispettata e rispettosa. Una di quelle antiche immagini di cui non era facile capire quanti anni avesse perché “[…] erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse paziente di essere raggiunta dal tempo in ritardo”.

La povertà e il menefreghismo della madre di Maria e la sterilità di Bonaria, creano un legame in cui i grandi silenzi, gli spazi lasciati inesplorati e le parole che raschiano il sole diventano ogni giorno più forti. Una famiglia non di sangue che vive in mezzo alle stoffe della sarta e allo sguardo di Maria che, giovane, ascolta la voce di Tzia Bonaria anche se spesso non ne capisce il senso, ma ascolta consapevole che “[…] non tutte le cose si ascoltano per capirle subito”.

Tutto sembra scorrere, tutto va nella direzione degli sguardi che seguono la coppia mentre cammina per le strade del paese. Occhi che puntano e giudicano. Occhi che però sanno qualcosa che sfugge alla piccola Maria, ancora incapace di cogliere i particolari che si nascondono nella pelle tesa degli adulti.

Una notte serve a far porre domande. Una notte soltanto, in cui il sonno è meno divertente delle ombre proiettate nella stanza. Un inverno del 1955 quando la piccola aveva otto anni e mezzo.

Sentire rumori e vedere Tzia uscire nell’oscurità accanto ad un uomo alto, nero in volto e sentirsi subito ammonire dalla figura della “madre”: “Torna in camera tua”. Obbedire e addormentarsi tra pensieri e silenzio. Silenzio e innocenza.

Da questo punto in poi accade qualcosa, qualcosa di silenzioso, di strisciante, che non intacca il rapporto di amore tra le due, che fa andare avanti la spinta dell’anziana a far studiare la sua protetta, a farla applicare. Accade qualcosa di più subdolo. Più complicato. Accade che la vita mette di fronte ai fatti e le campane a morto che si sono sentite dopo l’uscita notturna di quell’inverno non smettono più di riecheggiare.

Cosa aveva fatto e cosa faceva Tzia Bonaria? Perché si alludeva sempre a lei con timore reverenziale nelle chiacchiere di paese e tra amici?

I giorni di Bonaria Urrai si fondono così con quelli di Maria Listru, insieme a molte delle cose che accadranno, che altro non sono che parodia delle cose pensate. In una rincorsa verso il mare, tra i campi, gli amori segreti, le facce arse dal sudore e dal sole, verità e innocenza svelata, scivola “Accabadora”. La storia di una donna che è voce di due donne. Accabadora che in sardo significa “Colei che finisce”. L’ultima madre di molti che è la prima vera madre di Maria.

Alex Pietrogiacomi

Frigidaire!

Scrittori precari segnala l’uscita del n. 223 di Frigolandia inedizione popolare d’élite. Il giornale uscirà, inserito nelle pagine centrali del quotidiano Liberazione, come i precedenti, sabato 27 marzo.

Maggiori info qui.

Cinema e Buchi

È cominciato tutto da Fino all’ultimo respiro.

Io mi ero appena trasferita a Roma, in un quartiere brulicante di fermenti giovanili, sconquassato da notti alcoliche e albe rissose, inconsapevole raccoglitore di cocci di vetro e vomito notturno. Non conoscevo nessuno e mi sentivo come una maschera al Carnevale di Venezia: vedi attorno a te migliaia di persone ebbre, ipnotizzate da febbrili danze convulse, le puoi osservare attraverso le fessure del tuo travestimento, ma rimani sempre una cornice della città. Ti potresti mettere di fronte ad un negozio di artigianato locale, immobile, a farti immortalare dagli scatti dei turisti.

La soluzione alla malinconia di quelle serate solitarie mi era sembrata uno sparuto videonoleggio, proprio di fronte al mio palazzo, che cercava di farsi largo tra un salone di bellezza e un’officina; ero stata sedotta dal viso di Robert Redford de La stangata, dalle fattezze stilizzate, inedito Diabolik del cinema, stampato sulla vetrina del negozio.

Appena entrata, mi ritrovai in una magico Eden cinematografico: tutti, ma proprio tutti i film, anche quelli più inimmaginabili, quelli cercati inutilmente nelle videoteche di tutta Italia, quelli provati a scaricare da internet con tutti i tipi di mezzi, leciti ed illeciti e “che cazzo, il download si interrompe sempre al 78%!”… beh, insomma, TUTTI, stavano in quel buco di negozio, ordinati per categoria, bramosi di essere guardati.

Io, come una drogata in crisi d’astinenza, mi ero precitata nella sezione cinema francese, leggendo con cupidigia il retro di A bout de souffle, quando, dietro alla schiena, sentii una strana presenza. Eri tu, sbucato silenziosamente alle mie spalle, mi stavi dicendo che quello era il tuo film preferito. Forse perché ti sentivi come Michel, anarchico personaggio, mito di se stesso, a caccia di un’ingenua Patricia da abbindolare. Mentre parlavi mi accarezzavi con l’indice la cintura dei pantaloni, infastidendomi. Scappai velocemente, mi sembravi un personaggio dei fumetti in cerca di rapide avventure sessuali.

Purtroppo l’amore per il cinema, qualche giorno più tardi, mi spinse di nuovo verso quel buco, e verso te, incastonato tra i dvd, vicino alla cassa. Con L’erba di Grace abbiamo sorriso ripensando ai nostri viaggi ad Amsterdam, tra biciclette, funghi allucinogeni e le pazzie di Van Gogh; Control mi ha svelato che sei anche un musicista, convinto detrattore di tutta la New Wave… Sì, perché tu oscilli tra lo psichedelico e il glam, come David Bowie degli anni Settanta tante volte aleggiante nel negozio, e potresti benissimo far parte delle guerre tra spacciatori di City of Joy, in giubbino di pelle, camicia con il bavero a punta e jeans a zampa di elefante. L’insaziabile appetito che ci aveva provocato Primo amore era dettato dall’ansia dell’annientamento per l’altro, talmente potente da non farti nemmeno finire di leggere Il cacciatore di anoressiche.

Così, grazie all’amore selvaggio e distruttivo de La sposa turca, quella sera, dopo la chiusura del negozio, mi ritrovai scaraventata contro uno dei muri di dvd. Mentre la tua lingua procedeva lenta ma inesorabile dall’attaccatura della mia spalla fin dietro il mio orecchio, io vedevo precipitare vertiginosamente da sopra la testa e dai lati del mio corpo, uno ad uno, I quattrocento colpi, Il cielo sopra Berlino, Roma città aperta, Donne sull’orlo di una crisi di nervi….

Ad un certo punto chiusi gli occhi; non capivo più in quale film eravamo finiti, sentivo solo la tua voce che mi sussurrava qualcosa, e i nostri corpi attanagliati in un insieme di sussulti meccanici, la mia schiena premuta sui dvd che, cadendo, emettevano un ticchettio metallico.

“Ora toccami.. Così…sì…Tira fuori la lingua.. Brava…Tira fuori la lingua ho detto!”.

Sempre più furioso, sempre più ansimante… Ormai seminuda, immaginavo la penetrazione del cinema dentro di me, l’orgasmo che mi avrebbe provocato la mia più grande passione facendosi strada fra le mie gambe, rabbiosa, divoratrice. La mia vagina molle era come un bocciolo al mattino, in attesa famelica di nutrimento, linfa, sole, calore…

“Oh cazzo!”.

Silenzio.

Più nessun fremito, nessuno spasimo. I dvd immobili ai loro posti. Dopo qualche secondo riaprii gli occhi.

“Scusa!”.

Come scusa?????!! Non ci potevo credere, il film non era stato interrotto, non era nemmeno iniziato…

Tu tenevi gli occhi bassi, mortificato, tirandoti su i pantaloni.

“Non so che mi è preso… un quindicenne!”.

Io non sapevo che dire, non avevo nemmeno visto il trailer del film per poter dare un giudizio…

“Sono cose che succedono a tutti, magari la prossima volta…”.

Sul pavimento spiccava fra tutti i dvd un doloroso Requiem for a dream

Non c’è più stata una prossima volta.

Probabilmente la cinepresa aveva subito un danno irreparabile, o forse nessuno dei due ha più cercato di farla sistemare… Di tanto in tanto torno a noleggiare dvd, tu sei sempre lì, ma non sei più una sceneggiatura da scrivere, sei unicamente un imbarazzante flop.

È come quando passo davanti al negozio… Non è più il Paradiso dei cinefili, ma semplicemente una triste eiaculazione precoce.

Nadia Turrin

Resti

Il diavolo telefonò alle tre e diciassette del mattino,

ma non avevo niente da dirgli,

così riattaccai.

Fuori pioveva, come da contratto.

Travestita di buio, nella camera da letto,

la mia ragazza urla “NO!”, nel sonno.

È spaventata, ma non si sveglia.

Fuori pioveva, come da contratto.

E nessun nano canterino a tenderci la mano,

né principi esiliati a farci compagnia.

Nessuno sguattero di stato, scrivani abbronzati, casalinghe appagate, risparmiatori fidelizzati,

nessun cerchio tracciato nella polvere, amorevolmente costruito intorno a noi,

a proteggerci dal terrore di una scelta previdenziale fatta male.

Niente batteri nascosti nel cesso, né merendine tumorali energizzanti in offerta.

Nessuna frana e nessun collasso sistemico dell’economia mondiale.

Niente terremoti, niente emergenze, niente collette para statali a fin di male.

Niente scuola, niente informazione, niente lavoro. Niente soldi.

Niente musica.

Niente sigarette.

Niente vino.

Niente sorrisi felici macchiati di fluoro.

A parte tutto:

niente.

Fuori pioveva, come da contratto.

Così niente,

a parte la merda di cane sui marciapiedi,

le scuse da inventarsi,

le ascelle da lavare,

i peperoni muffiti da buttare,

le cicche da riutilizzare,

le parole da cercare,

il cesso da lavare,

il lavoro da cambiare,

i conti da pagare,

il gas da respirare,

la fortuna da grattare,

il pusher da chiamare,

la macchina da aggiustare,

e una intera vita da spiegare.

Il diavolo telefonò alle tre e diciassette del mattino,

ma non avevo niente da dirgli,

così riattaccai.

Ma adesso,

dopo un paio di litri di caffè arabico,

pochi grammi d’erba ben dosata,

e qualche boccia di nero d’ Avola a temperatura ambiente,

adesso spero che il diavolo richiami.

E quando lo farà dirò semplicemente:

hai preso tu il mio accendino?

Perché è questo quello che resta alla mia generazione.

Gianni Cusumano