Comunicazioni varie

Allora, prendete l’agenda, una penna, e non prendete appuntamenti per il 26, 27 e 28 novembre. Scrivetelo e segnalatelo dappertutto, ditelo ai vostri amici, e pure, perché no, a chi vi sta antipatico (gli date l’appuntamento per una delle tre date e voi venite all’altra).

Siamo lieti di annunciarvi che, a grande, ma che dico grande, a grandissima richiesta Scrittori precari torna in scena nella performance TRAUMA CRONICO, regia di Dimitri Chimenti. Dove? A San Lorenzo, al teatro Abarico, in via dei Sabelli 116. Il 26, 27 e 28 novembre. L’avete scritto? Ecco, bravi. Nelle prossime settimane info e dettagli (e forse anche una piccola sorpresa).

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Inoltre, per quanto riguarda la blogosfera, vi presentiamo i nuovissimi blog dei precari Coffami, Ghelli e Liguori:

Quotidiano di cultura e cazzate varie, a cura di Andrea Coffami. Arte, cultura, informazione, letteratura, tutto questo non lo troverete mai nel mio blog. (Angelo Zabaglio)

Una sorta di diario di appunti, di frammenti di un discorso articolato lungo gli anni, che riemergono in maniera casuale dai file che affollano il mio pc (con l’eccezione della serie dedicata al signor Palletico, un uomo qualunque che ha il vizio di giudicare la politica dal microuniverso di un bar). S/G è lo spazio ridotto in cui disarticolare le trame del mio Io. (Simone Ghelli)

Il blog che accompagnerà il lavoro di revisione del mio nuovo romanzo. Pensieri, scritti, qualche canzone, di tanto in tanto, che m’ispira delle parole, e poi, presto, una rubrica sui scrittori/blogger italiani, e ancora estratti, anticipazioni e il resto lo scoprirete passando, ogni due tre giorni, da lì. (Gianluca Liguori)

Buone letture

La critica letteraria spiegata ai giovani

«Noi giovani vogliamo leggere i libri giusti contro il sistema».

Allora fatevi consigliare dai rockettari, che notoriamente hanno ottimi gusti letterari, di solito orientati verso il fantasy e l’horror. Almeno, i rockettari seri. Poi ci sono i rockettari melodici, e poi, in fondo ma proprio in fondo alla lista ci sono i rockettari melodici italiani, per intenderci i fan di Ligabue o di quell’altro lì, che fa i video con gli elicotteri fregando le canzoni ai gruppi inglesi e americani per devastarle, o ammucchia palate di miliardi cantando della droga e della figa, o nel delirio di onnipotenza si veste come Bono.
Poi succede che ammucchiati i miliardi parlando di fighe, e nel frattempo ridottosi il paese allo sfascio (non certo per colpa sua), quel rocker melodico vuole devolvere dei soldi a una causa. Come causa da difendere sceglie lo sfascio della cultura, mica pizza e fichi. Così facendo, il benefattore delle patrie lettere si compra anche la stima di chi lo disprezza da sempre.

«Eh, ma io ascolto i Linkin Park».

Fai bene. Mentre gli ultimi elementi architettonici che decorano le facciate delle nostre illustri università crollano sulla testa di voi studenti, e si evacuano le aule perché i pavimenti sono pericolanti, e le folle di vostri docenti a contratto si portano i termos di caffè da casa perché con 300€ a modulo col cazzo che ci scappa al bar, succede che l’esercizio della critica letteraria – come molte altre discipline – si trovi lievemente in difficoltà.
Così il giovane… ehm… il critico letterario si esaspera di avere come interlocutori dei celebrolesi centenari che trovano molto onorevole resistere all’impatto dell’intonaco sulla testa e urlano il loro dolore nel girotondo, e se ne fugge in Rete. In Rete trova molti transfughi come lui, nascono alleanze, si fanno riviste, si parla molto e si fa anche un sacco di slalom fra i lettori medi che non vogliono accademici fra i coglioni, molto giustamente peraltro. La Rete diventa la striscia di Gaza. Poi Zuckerberg ha un’idea geniale: facciamo un coso dove la gente incontra i vecchi amici e se ne fa di nuovi, ci mettiamo anche le tazze di caffè e tè virtuali, così il critico a 300€ al semestre risparmia anche sul termos. Il resto purtroppo è storia.

«Guarda che io facebook lo uso per le cause».

Non discuto. In Italia abbiamo molti motivi per essere tristi, però ne abbiamo uno per essere veramente orgogliosi, e non lo dico con ironia: abbiamo alcuni (pochi) scrittori molto talentuosi, che un tempo il critico avrebbe definito “viventi”, ma ora si dicono giovani, anche se hanno fra i quaranta e i cinquanta anni. Questo perché in Italia l’alternativa è o giovani o morti. Solo a pochissimi è riservato il privilegio di essere morti viventi dotati non di diritto bensì aihmé di dovere di parola, come Napolitano. Non ditemi che offendo le Istituzioni, perché sono le Istituzioni che offendono me ogni giorno, quando non posso fare il mio lavoro, o voi quando entrate a scuola o all’università.

«Appunto, allora dimmi chi devo leggere per essere contro il sistema».

Aspè che ci arrivo. Anche i nostri scrittori davvero giovani, cioè quelli poco più che trentenni sono molto bravi, ma qua inizia la seconda parte della storia.
In Italia, come ovunque nel mondo, ci sono l’editoria e il mercato. Funziona così, in ogni parte del mondo: le grosse case editrici creano il best-seller e con gli introiti finanziano le opere di valore. Ovunque questo sistema funziona benissimo, e mette chiunque con qualsiasi retroterra culturale in grado di esercitare la pratica della lettura, che non fa mai male. A questa affermazione si sente spesso obiettare che piuttosto che leggere spazzatura è meglio non leggere affatto. Non sono d’accordo, forse perché ultimamente frequento dodicenni, e noto che sono in grado di articolare un discorso con senso compiuto solo quelli che si sono letti la saga di Harry Potter per intero, invece di guardare la televisione. C’è una cosa nella lingua che si chiama vocabolario, e lo si rafforza solo leggendo, non ci sono cazzi. Benvengano quindi i best-seller se permettono anche a chi non ha strumenti culturali di imparare qualche parola in più, e di dare libero sfogo all’immaginario avvilito dalla quotidianità. Qua chiudo l’elogio del best-seller e apro la nota dolente.
In Italia, diversamente dal resto del mondo, esistono i premi letterari colonizzati dalle case editrici che se li accaparrano a turno. Siccome per l’italiano è fondamentale la marca, che è sinonimo di qualità, anche i libri devono essere di marca, ovvero avere vinto il Campiello o lo Strega. Senza il bollino d.o.c. un libro non è un libro. Uno scrittore senza bollino non è nemmeno uno scrittore, è come il finto Parma o il finto Grana. Sarà forse un insegnante sfigato e povero con ambizioni letterarie, perché uno scrittore vero vive della sua arte, e quindi deve avere il bollino, altrimenti è un fallito. Inoltre, è fondamentale che uno scrittore sia in grado di mantenere un livello di vita alto, perché il vero scrittore veste bene, con abiti di qualità, e quindi non può essere povero, sennò come fa a trombarsi le fighe dell’editoria? Se non fa palate di soldi con la scrittura, deve essere ricco di famiglia. Tutto ciò farebbe ridere se non fosse vero e quindi tragico, e spiega anche perché le scrittrici non hanno tempo da perdere nei dibattiti letterari, visto che lo passano a correggere a titolo gratuito le bozze di scrittori aspiranti al bollino, e se aspirano loro stesse al bollino, il loro tempo lo devono impiegare in altri esercizi con gli scrittori d.o.c. o meglio ancora coi piani alti dell’industria del best-seller, ché uno: si fa prima e due: si fa una buona azione, perché la grossa casa editrice con i loro best-seller finanzia le opere di valore.

«Tutto bello, ma noi giovani vogliamo sapere quali sono i libri da leggere contro il sistema».

Ok, ci arrivo, però metti via quel cazzo di I-phone. Siccome il libro non arriva ad avere il bollino se non è stato recensito da chi conta, allora è fondamentale che lo scrittore povero – cioè più o meno qualsiasi scrittore in questo paese – attiri l’attenzione del recensore. Nel campo della cultura di massa, in Italia nessuno ha più potere di chi è messo nella condizione di scrivere recensioni su quotidiani e riviste. E siccome il critico letterario, cioè chi ha seguito un percorso di studi che gli permette di esercitare l’analisi del testo…

«La che?»

…il critico insomma, come abbiamo visto è impegnato a schivare l’intonaco e i baroni mammuth nel mondo reale e i troll in quella virtuale, lo si può dare tranquillamente per estinto. Allora il recensore, cioè quello che anche senza percorso di studi e spessissimo senza sintassi adeguata è messo nella condizione di elargire consigli di lettura, è scambiato per l’invisibile critico letterario. In tutto ciò, la parola “filologo” è diventata un insulto: un ente senziente anomalo che si occupa di catabasi e non certifica i libri in vista del bollino d.o.c. è inutile.
È abbastanza noto che questo particolare periodo della storia d’Italia conta come caratteristiche principali il predominio politico dei finti fascio-secessionisti e del loro capo supremo, che si è fatto plastificare in vita in modo da durare più a lungo possibile. Non è molto noto invece il modo in cui questo predominio è stato raggiunto, quindi vale la pena ricordarlo. Nell’arco dell’ultimo ventennio si è smantellato il sistema educativo e lo si è rimpiazzato con quello televisivo, sicché voi ventenni vi siete formati al magistero di Mediaset. Le case farmaceutiche godono, gli psichiatri anche: vanno a ruba gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e il Ritalin. Nei blog letterari si discute da anni della funzione dello scrittore senza giungere ad alcuna soluzione condivisa. Si dice che è scrittore chi scrive qualsiasi cosa e pubblica i propri testi ovunque, su carta o Rete, non fa differenza. Si può concordare, ma ci sarebbe un’altra funzione dimenticata, cioè quella intellettuale, che consisterebbe nell’esercitare una critica serrata al sistema. Solo che gli scrittori sono così impegnati ad ottenere certificazioni d.o.c. che alla funzione intellettuale hanno sostituito la piaggeria più misera verso i recensori sponsorizzati dalla società dello spettacolo, e quindi spettacolarizzati a loro volta. Alla critica al sistema preferiscono il sex-appeal, di modo che i recensori possano suggerire a voi ventenni formati al magistero di Mediaset quali scrittori leggere.

«Hei, ma è tutto una merda. Vabbè tanto adesso inizia South Park e domani vado a Berlino».

Claudia Boscolo

Hey brother, welcome to hell

Certo che c’ero anch’io là sotto a cantare «Suan, non ti vogliamo». L’avevo lette, le interviste, cosa credete? Stavano per fare una cazzata, tutto qua. «Credo di esser pronto, il calcio può abbattere le barriere,» aveva detto quello zozzo muezzin. «Se ci fosse un giocatore arabo tanto bravo da meritarsi una chiamata, non vedo perché no,» aveva rincarato la dose Ossie Ardiles. Gringo di merda. Non l’hai capito, Osvaldino? Noialtri, qua, gli arabi non ce li vogliamo. E tu, Abass, abbasso Abass, che pure quando ti vedo con la maglia azzurra della nazionale mi viene un nervoso, che anche davanti alla televisione ti sputo contro «non ci rappresenti, Abbass Swan, tornatene affanculo nello stadio che t’hanno pagato gl’emiri,» cosa cazzo credevi? Che il calcio abbatta davvero le barriere? Che sia uno strumento di pace?

Noi la pace non la vogliamo. Noi vogliamo la guerra. Capito, Swan?

Mi chiamo Itzik e sono un tifoso del Betar. Tutto il resto è merda.

A Gerusalemme di squadre ce ne sono tre: c’è l’Hapoel, “lavoratore”, significa in israeliano, è la squadra dei comunisti, degli operai, del partito laburista. Falliti. C’è il Maccabi, polli cagasotto. E poi ci siamo noi.

E poi, poi. Ci siamo noi, punto e basta.

Noi siamo quelli con le maglie gialle e nere. Quelli con la menorah nello stemma.

Noi siamo Gerusalemme. Noi siamo Israele. Solo noi, noi e basta. Guarda il leader del nostro gruppo di Ultrà, ci chiamiamo La Familia, siamo tutti fratelli e non ci sono mogli che contino. Il capo si chiama Guy. Guy è un tosto, e di cognome fa Israel, non a caso. S’è pure lasciato con la moglie, Guy, per stare sempre insieme a noi a seguire in casa ed in trasferta i gialloneri, «questa è la mia casa, la mia vita, tutto quello che ho,» ha detto.

Siamo i più forti, gli altri sono merde. Corrono, scappano quando ci sentono arrivare. Dovreste vederli, quelli del Maccabi quando gli sfoderiamo contro la nostra rabbia: come galline, scappano.

Prima che nascesse La Familia io stavo coi Tradition Keepers. Facevamo quello: salvaguardavamo la tradizione. Perché poi coi governi laburisti, coi governi sinistroidi, noialtri eravamo la squadra dei reietti, dei rinnegati, noi, capite?, noi che Israele l’abbiamo voluta prima degli altri, l’abbiamo fatta prima degli altri.

La sapete la storia del Betar, no?

Continua in libreria


La camera oscura

Una stanza. Al buio. Su una parete un foro, poco più grande d’un pollice, a un metro e mezzo da terra, suppergiù.

Due uomini si svegliano, indolenziti per la posa scomoda tenuta dormendo sul pavimento liscio e freddo.

La stanza si compone di quattro pareti nude, un pavimento come unica gettata di cemento e un soffitto alto, invisibile all’occhio umano. Oltre al foro. E l’oscurità.

È profonda, la prima voce che echeggia nella stanza. Decisa.

Senti un po’, ma quell’idea che hai esposto al consiglio comunale, l’ultimo, due mesi fa se non sbaglio, l’hai poi realizzata?

Quale dici?

Be’ non si va molto lontano. Hai già eliminato l’assessorato alla cultura. Hai tagliato i fondi fino ad azzerarli, l’ultimo festival patrocinato dal comune te lo ricordi? Quello con gli artisti per strada…

Si chiamano Buskers.

Proprio loro. Già quasi a costo zero, se escludiamo i contributi dei negozianti.

Il comune promuoverà alcuni corsi e attività fisiche, ginnastica, nuoto, cose così, già dal prossimo anno se non ci sono nuovi intoppi.

Sì, certo, certo, ma fammi finire. Dov’ero rimasto? Ah sì. Nessun assessore, nessuna iniziativa, zero fondi. Mi ricordo che dicesti, in quel famoso consiglio, che restava un ultimo passo. L’hai poi fatto?

Perché non avrei dovuto? Era in programma, andava realizzato prima possibile. I cittadini devono abituarsi a considerare il superfluo. E devono toccare con mano l’impegno politico contro gli sprechi.

Sì, certo, certo, conosco la campagna elettorale.

Allora cosa vuoi sapere?

Come hai fatto.

Direi nel modo più semplice, con una tassa sui libri in prestito.

Ma la biblioteca è ancora pubblica?

Certo. È un servizio fornito ai cittadini.

A pagamento.

Appunto. Come ti dicevo prima, si tratta di mostrare risultati contro gli sprechi.

Per ogni tipo di libro, c’è una tassa sul prestito? Da quelli per ragazzi ai testi universitari? Favole e romanzi? Poesie e poemi? Saggi e trattati? Fumetti e atlanti?

Tutto ciò che è superfluo si paga, caro amico. Questa è la crisi. Chi se lo può permettere, legge. Diversamente, si fa dell’altro. Non è difficile.

Hai ragione. Non è difficile.

Si zittiscono.

Restano così diverse ore.

Immobili. Al buio.

Uno dei due uomini, quello più basso dalla voce profonda, infila il dito dentro il buco nel muro. L’altro se ne accorge appena, chiude gli occhi e risponde rimanendo seduto a terra, braccia incrociate al petto.

E dei tagli all’Università che mi dici?

Niente. Andava fatto. Gli sprechi sono sprechi anche tra le menti più illustri.

Certo. Ma lo sono ovunque allo stesso modo, secondo te?

Non è questo il punto. Si tratta di semplificare e agire in fretta. La crisi c’è, la gente la sente, la politica non può esimersi dall’intervenire. I servizi essenziali devono essere garantiti sempre e comunque. Sanità, assistenza, scuola, sicurezza…

Fermati un attimo: scuola non è anche università?

Ovviamente. L’università però è un tipo di formazione volontaria. E come tale deve essere trattata. Se ti puoi permettere di laurearti, paghi e lo fai. Altrimenti no. Poi, anche all’interno degli atenei in parte sovvenzionati dalle tasse, in parte dai diretti interventi pubblici, si devono evitare abusi e sprechi.

Ad esempio?

Troppo personale. Troppi ricercatori, assistenti, precari che gravano sull’istituzione. Troppe spese da sostenere.

Ma agli studenti che insegna? Poi, come si insegna?

Non è questo il punto. Si tratta di abbattere gli sprechi e riconsiderare il superfluo, te l’ho già detto. Ti accorgi che mi fai ripetere sempre le stesse cose?

L’uomo più basso inspira ed espira rumorosamente. Si muove per la stanza nascondendo direzioni e gesti tra il buio persistente. Appena i rumori, lo tradiscono. I piedi a sfregare sul cemento. Quando riprende a parlare ha infilato di nuovo un dito nel muro, tra le rotondità del foro.

La cultura è superflua?

Non l’ho deciso io. Si tagliano i fondi, si ordinano riduzioni, eliminazioni, rinunce. Noi eseguiamo.

Ma le attività sportive semi private…

Che c’entra? Son cose per il corpo. Crisi o non crisi la gente ancora respira.

E gli stipendi dei politici? Gli appalti per edifici poi inutilizzati? Le sostituzioni di piazze e vie con ciottolati costosi…

Non confondere i piani emotivi con quelli prioritari. Ci sono delle gerarchie da rispettare, è semplice te l’ho detto. Prevede questo tagliare il superfluo. Poi senti, ci sono un sacco di giovani o meno giovani che si parcheggiano fuori corso e perdono anni di lavoro stando comodamente sulle spalle di chi provvede a loro. Poi magari neanche si laureano. E c’è un sacco di gente che di festival, rappresentazioni teatrali ed eventi culturali non sa niente, e sapendolo non andrebbe comunque. Per non parlare delle biblioteche, dai.

Sì, certo, certo. Magari anche sì però. A me sembra la solita generalizzazione di comodo. Tua figlia poi che fa?

Ha appena iniziato lettere moderne a Bologna.

E?

Niente, le solite cose. Tasse, libri, abbonamenti ai mezzi pubblici, mense. Fra cinque anni al massimo sarà tutto finito.

In sostanza investi sul suo futuro.

Ovviamente. Vedi quant’è democratico? Pagherò anche i libri in prestito, se mia figlia andrà in biblioteca. Nessuno spreco. E il superfluo a chi può.

Dal buco nel muro, che nel frattempo si è liberato del dito dell’uomo basso, entra una luce vagamente più chiara, filamenti a spezzare l’oscurità.

I filamenti raggiungono la parete opposta. Si fanno consistenti. La stanza assume contorni precisi. I due uomini si sbirciano, immediatamente consapevoli di corpi e proporzioni, sebbene ancora sfocati.

L’uomo rimasto seduto si alza in fretta, quasi trafelato.

Si avvicina al muro raggiunto dal pulviscolo luminoso passato attraverso il buco.

Non si capisce, cosa c’è scritto. Sembrano capovolte, le lettere.

Lo potrai chiedere a tua figlia, fra qualche anno.

E perché, scusa?

Io non lo so, tu nemmeno.

L’uomo rimasto seduto avvicina il naso al muro, alcune schegge di luce gli invadono la punta dell’orecchio, creano scintille passando attraverso le ciocche di riccioli color nocciola.

Non è una scritta. Forse è un’immagine.

Sarà il mondo fuori di qui.

Anche per quello dovremo aspettare.

La fine del Medio Evo?

Come dici?

L’uomo più basso ride sempre più forte. Duramente.

Niente. Continua a fissarlo. Forse c’è un’eclissi.

Perché dovrebbe?

Aristotele ci guardò un’eclissi. Iniziò così, in un certo senso. Dentro una camera oscura.

L’uomo rimasto seduto aspetta alcuni secondi. Rinuncia a un paio di risposte risalite dall’esofago direttamente in gola, poi finite erose da saliva e succhi gastrici. Probabilmente rispondere non serve, pensa. Basta aspettare dopo aver agito. Gli uomini parlano in continuazione, ragiona tra sé. Parlano, teorizzano, schiamazzano, criticano. Poi? Solo i fatti lasciano tracce. L’uomo rimasto seduto non ha dubbi, sa esattamente cos’è stato fatto e cosa ancora c’è da fare (in Italia, entro il primo decennio del nuovo secolo: è un sottinteso che lo sfiora appena, è di questo che si occupa l’uomo rimasto seduto).

Il passato non c’entra. È del presente che si occupano i vivi, conclude l’uomo rimasto seduto, ma non accenna a voler staccare gli occhi dal fascio di luce proiettato sul muro. In quello sfilacciamento dell’aria ci infila un dito. Tocca la parete. L’immagine gli lambisce la pelle. Ha un suo fascino, nota. Gli sembra di poterci entrare, di riuscire – anche nell’inversione – a vedere.

Da dentro la camera oscura.

Il buio tenuto fuori.

Fa meno paura?

Anche l’uomo più basso si avvicina al muro parzialmente illuminato.

Il fascio di luce respira. Si nutre dell’aria nera.

Le mani dell’uomo più basso si aprono, si fanno largo tra l’aria nera e le briciole luminose riunite nel fascio.

Non è difficile, ha detto l’uomo rimasto seduto, riconsiderare il superfluo. L’uomo più basso ricorda le parole sentite. Ha un moto di stizza che trattiene in corpo. Lo spazio sembra rimpicciolirsi attorno a lui.

Le mani carezzano l’aria, che non ha colore, in realtà.

È solo chiusa, respira a fatica, rantola.

Mentre le dita nodose si distendono, seguendone l’immobilità.

 

Dal 2009 in diversi comuni dell’Emilia Romagna con la rielezione del sindaco la figura dell’assessore alla cultura non è stata definita. In alcuni casi si è ripiegato facendo leva su ruoli assimilabili non ufficiali. Contestualmente, già dai primi mesi del 2010 i drastici tagli progressivi hanno imposto limitazioni evidenti alle feste paesane, le iniziative locali di tipo artistico in senso ampio, dalle semplici presentazioni letterarie fino alle rassegne cinematografiche e le sperimentazioni teatrali. Perfino i comuni dell’hinterland bolognese, rinomati per l’invettiva e le diverse iniziative culturali, sono stati costretti ad abbandonare festival, promozioni artistiche, scambi interculturali ed eventi vari laddove non sono intervenute decise sponsorizzazioni private. L’idea di fissare una tassa o dinamica affine sul prestito dei libri nelle biblioteche pubbliche non è finzione narrativa, bensì proposta che tutt’ora aleggia in talune amministrazioni comunali emiliane. Alcuni paesi compresi nel triangolo Modena-Bologna-Ferrara hanno già annunciato per il 2011 la non partecipazioni ad eventi provinciali consolidati come mostre, rassegne e concerti.

Ottobre 2010, mese statisticamente favorevole all’Alma Mater Studiorum del capoluogo emiliano – romagnolo (la hit parade delle migliori università colloca l’Ateneo di Bologna come la prima facoltà italiana al 174° posto, e nella QS World University Rankings 2010 le discipline umanistiche bolognesi si posizionano al 46° posto), è anche periodo complesso dove prosegue in tutt’Italia la c.d. ‘protesta dei ricercatori’.

Barbara Gozzi

Un’eterna tonica

C’è un mio amico che suona il didjeridoo. Il didjeridoo si pronuncia digiridù, che è come lo scriveremo da ora in poi. Il digiridù è uno strumento a fiato australiano, credo sia lo strumento nazionale australiano. Il fatto che l’Australia sia anche in un certo senso un continente rende il digiridù lo strumento continentale australiano. Il fatto che “continentale” sia l’aggettivo con cui gli isolani sardi si riferiscono ai peninsulari italiani trasforma l’aggettivo “continentale” in un allegro paradosso che contiene un’isola, una penisola e un continente, tutti dentro al digiridù. Spazio ce n’è: il digiridù, l’avrete visto sicuramente, è un tubo di legno lungo un paio di metri, il legno viene da un albero australiano che probabilmente è l’eucalipto, ma non sempre (dice il mio amico che ci sono digiridù in vetroresina, per dire) (probabilmente un digiridù in vetroresina è una bestemmia, come un pianoforte di plastica o un piatto di maccheroni di plastica).

Il digiridù è uno strumento che fa una nota sola, bassa e continua. La nota bassa e continua si chiama bordone. Il digiridù si suona con la respirazione circolare, una tecnica che consiste nel soffiare continuamente. Come fai a soffiare continuamente? Prendi aria dal naso. Sì, ma come fai a prendere aria dal naso mentre contemporaneamente la stai soffiando fuori dalla bocca? È impossibile. No, non è vero: si fa. Il trucco è sfruttare l’elasticità delle guance: soffi fuori l’aria tenendo le guance a pesce palla e poi quando ti accorgi che il fiato ti sta per finire sgonfi piano le guance e fai in modo che l’aria dalla bocca ti esca per pressione, come un mantice, come un palloncino, come un pesce palloncino, e mentre la pressione delle tue guance elastiche ti sgonfia la bocca hai tutto il tempo di immagazzinare altra aria dal naso. È più facile da fare che da spiegare. Cioè, non è facilissimo da fare, ci vuole un po’ di pratica, ma si fa, questo mio amico la fa.

Questo mio amico che suona il digiridù una volta mi ha visto suonare il clarinetto e gli è venuta un’idea un po’ continentale: facciamo un duetto clarinetto e digiridù, mi ha detto. Una di quelle cose che fanno impazzire le ragazze, gli ho detto io. Ha riso. Va bene, gli ho detto, sarà uno spasso per noi e una noia mortale per gli ascoltatori, chi ce lo impedisce. Vai tranquillo, mi ha detto, secondo me ci divertiamo. No, ma quello di sicuro, ho detto io, è solo che non so fare tanto bene a suonare il clarinetto, io so già cosa succederà: noi ci mettiamo lì e tu suoni un bordone di un quarto d’ora e io devo improvvisare su un bordone e improvvisare su un bordone è difficilissimo.

Improvvisare su un bordone è una metafora di qualcosa che non ho ancora capito, ma sarà una metafora sicuramente: invece di averci un giro armonico con tutta la sua economia interna di tonica – allontanamento dalla tonica – ritorno alla tonica, il bordone rimane sempre lì, parte da lì e non si allontana mai da lì e alla fine è ancora lì. Un’eterna tonica. Come si fa? È come scrivere sul nero.

Allora il mio amico mi ha detto: fai finta che siamo in Australia. Siamo in Australia su un treno che parte da Sydney e arriva a Perth, coast to coast dall’Oceano Pacifico all’Oceano Indiano, parte da Sydney piano piano, uno di quei treni lenti che attraversano foreste e deserti e si fermano nei paesini in cui c’è solo la stazione e poi ripartono, piano piano, ogni tanto c’è un koala, un canguro, un cammello – sì, in Australia ci sono anche i cammelli – poi un altro paesino in cui c’è solo la stazione e un tizio senza denti che guarda passare i treni e poi il treno riparte, piano piano, e alla fine arriva a Perth, Oceano Indiano, i delfini, le balene. Capito? Capito. Ecco, adesso suona.

Poi il mio amico ha iniziato a soffiare nel digiridù e faceva tutti i giochini ritmici che puoi fare quando hai solo una nota a disposizione: note lunghe, note corte, staccati, ritmi pari, ritmi dispari, galleggiamenti, riprese, rumorini, ciuf ciuf, e io giuro che vedevo i cammelli e le montagne e le gengive del tizio che guarda passare i treni in mezzo all’Australia. Poi mi sono messo in bocca il clarinetto e ho suonato e mentre suonavo sapevo cosa stavo suonando, anche se non l’avevo mai suonato prima: si vede che il treno è più facile del bordone, che ne so. Certe cose se te le spiegano non le capisci mica, poi qualcuno te le suona e tu capisci. Mi sa che è una metafora anche questa.

Simone Rossi

Fiume di Tenebra

È la notte di un giovedì quando, venuto a Roma per un reading di Scrittori precari, mi ritrovo a casa del subcomandante Liguori, in attesa dell’Intercity delle 4:28 che da Roma Tiburtina mi avrebbe riportato a Firenze.

Evidentemente non pago di quanto bevuto durante la serata, il subcomandante sfodera una bottiglia di calvados. Dico che non importa, che sono troppo stanco per bere. Lui versa. Mi faccio un bicchiere, poi un altro. Poi un altro.

Aggrappato al tavolo, cerco di posticipare il torpore, che è ottimo per affrontare l’Intercity delle 4:28 (non c’è mai posto e allora se sei bello stanco ti schianti nel corridoio, la borsa come cuscino, e tanti saluti), ma prima devi arrivarci, al treno.

Sto per desistere e chiudere la serata addormentandomi al tavolo con la testa sulle braccia, come a scuola, quando lui attacca a leggere qualcosa:

Nel settembre del 1919…

Visto il periodo e i gusti del subcomandante, penso che possa essere Rilke, il che non mi smuove. Forse, sballando di nove anni, bofonchio un “li leggerò, i quaderni, lo giuro…”, ma lui va avanti:

…arditi, sbandati, artisti di mezza tacca, orge in mezzo alle strade, donne che si davano a chiunque, e gli uomini pure con gli uomini; e la popolazione che veniva nutrita fantasiosamente a cocaina. Ma questo sarebbe ancora un metodo come un altro per vivere, perché il grave era che…

Io alzo gli occhi, troppo sonno e troppo calvados per capire di cosa parli il brano che sta leggendo, ma la buona prosa, insomma, quella uno la riconosce in qualunque condizione. Lui continua:

… aveva ribattezzato la marina militare fiumana con il nome degli antichi pirati dell’Adriatico, gli uscocchi, e l’aveva mandata a derubare le navi degli altri, al grido di eia eia alalà. A Fiume si campava con la pirateria, sebbene si dicesse che,

oltre che sulla provvidenza piratesca, D’Annunzio dovesse fare conto sull’aiuto di qualche banchiere: ma molti troveranno la differenza troppo sottile. E non finisce mica qui, perché si diceva anche che a Fiume erano peggio dei bolscevichi, e che Lenin in persona avesse approvato tutta la questione: Carli e Marinetti, con le bombe a mano nella giacca, a Fiume si presero una bella ubriacatura comunista. Insomma: un puttanaio: un immenso puttanaio.

Mi ritrovo improvvisamente rivitalizzato. E quindi parla di Fiume, questo brano! La storia della Reggenza Italiana del Carnaro l’avevo scoperta già da ragazzino, leggendo “TAZ” di Hakim Bey, e da lì avevo sempre sospettato che questo D’Annunzio qualcosa di buono lo avesse, se nelle sue vene scorreva almeno un po’ d’anarchia, e metteva l’Oroboros sulla bandiera. Mi entusiasmo, gli chiedo di leggermi qualche altra pagina. Lui va avanti, ma ben presto l’orologio sulla parete mi chiama al treno. Raccolgo i miei coccini e chiedo come si chiama quel libro, che lo voglio cercare.

A sentire che è un libro in lavorazione, un libro-italiano-contemporaneo e non un testo ripescato chissà dove, ci rimango secco. Il subcomandante mi promette che appena esce me lo farà avere. Preso il treno, mi addormento nel corridoio lercio

vagheggiando imprese da “disertore in avanti”.

E qualche mese dopo mi arriva davvero, il libro. Bello anche a vedersi, seppiato come uno lo immagina, con la faccetta del Vate in un cammeo. Fiume di Tenebra, si chiama. Di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, Castelvecchi editore 2010.

Leggo di Serra, di Keller, Comisso e Ada, di generali per cui il frustino non è solo una decorazione, di una estate dell’amore (un autunno-inverno, a voler esser precisi) in anticipo di quarantasette anni e di un piccolo D’Annunzio tutto nervi e sogno. Sono piaceri.

Vanni Santoni



Fiume di tenebra – L’ultimo volo di Gabriele D’Annunzio (Castelvecchi, 2010)

di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino

 

[Leggi qui il prologo]

[Leggi qui il capitolo “Aspettando il tenente Keller”]

Perfino al bar del Jean Bellino dicevan ch’era un Mago (mica un baccalà: un mago)

Capello Capello Peirò, Capello Capello Peirò.

Guardatelo Gigio, guardatelo com’è contento, ripete ad libitum la sua filastrocca stupida, Capello Capello Peirò, una canzoncina che vien facile perché Peirò è proprio una parola da fine canzoncina, rotonda e giubilante come l’amour fou. È la primavera del millenovecentosessantanove e l’aèsseroma alza al cielo la Coppa Italia, finale contro il Foggia, a segno ci vanno loro, Capello, Capello Peirò, tre a uno ed un po’ di gioia, finalmente, foss’anche per qualche istante, se la concede pure Gigio.

Perché poi Gigio gli frega mica niente, a lui, di cambiare il mondo come i coetanei suoi, quelli di lot-ta, dura, sen-za paura, che per essere incazzati sembrano fin troppo contenti, lui pure è arrabbiato ma mica ride canta e s’abbraccia con gl’altri, anche se l’immaginazione al potere ce la manda tutti i santi giorni, quando pensa a Diana che sta con Furio. E se li vedesse pure Furio, quei sogni ad occhi aperti là, nove su dieci che diventerebbe una furia: senti amico, gli direbbe, era lei che voleva me, io non c’entro nulla, si scuserebbe Gigio, Furio capirebbe, metterebbero daccapo Era lei degl’Equipe 84 e la storia finirebbe lì.

Più che altro, pensa Gigio, più che altro, che tonno sono a credermi ‘ste ròbe qua. Quello m’ammazza.

Ed allora Capello Capello Peirò torna ad apparirgli per quello che è, una canzoncina da pesci rossi, da ragazzini, mica da uomini fatti e formati, ci vuole da esser squali per rubare la donna d’altri. Gigio si siede a tavola e non mangia; mammà gli prepara un po’ di pane con le banane, il parmigiano, lo zafferano, la mozzarella e la cannella, la frutta cotta, la ricotta, pasta al pesto, pollo arrosto, ma lui niente, non mangerà (con grande scuorno di Nino Ferrer, vieppiù).

Che baccalà!, gl’urla dietro lei, tonno che non sei altro, tonno!

 

Non è che ci fossero, nel sessantanove, carpe e polpi che ti suggerivano le mosse giuste da fare: all’occorrenza Gigio avrebbe potuto immergere nella vasca due tagliandini, glielo dico a Diana e non glielo dico a Diana, sollevandosi dalla responsabilità di traghettare il suo destino. E magari gli sarebbe pure venuto il coraggio di esser realista, e chiedere l’impossibile.

Helenio Herrera, il Mago, una volta disse: la differenza tra le cose difficili e le cose impossibili è che per le cose impossibili ci vuole più tempo.

In tema di frasi epiche diceva pure chi dorme non piglia pesci, e lo sapeva pure Gigio, che di provare a confessare la struggente passione sua, a Diana, ci pensava mica poco, con le gambe tremanti.

Chi dorme non piglia pesci.

 

Paradossalmente, chi piglia i pesci, di mestiere voglio dire, neppure quello dorme.

I pescatori di merluzzi del Golfo di Biscaglia indossano grand’incerate arancioni, quando è luna piena son felici perché si vede financo riva, e quando galleggi al largo sei sempre il primo, a sapere le cose: ti aspettano al tuo rientro, la mattina, in porto, e tu racconti quello che hai visto. Spesso son parole che si riflettono sulle squame argentee dei merluzzi.

È il millenovecentoventicinque, due pescatori son lì che ritirano le reti e gl’appare un merluzzone tutt’impigliato nelle maglie che sembra un salame di latta. Madame Cuissard li paga bene, i pesci grossi, dice al facchino di caricarseli e se li porta al suo magazzino, dal quale a loro volta pigliano il largo destinati ai migliori ristoranti di Francia.

A Madame Cuissard, un bel giorno, viene pensato di fondare un’associazione sportiva, la Marée sportive, le piace quel nome, la Marea sportiva, giochiamo un po’ con le parole, dice ai pescatori, non statevene lì come pesci lessi. La squadra di calcio, l’anno dopo avrebbe preso il nome di FC Lorientais, ha le maglie a scacchi, come i salami. Arancione e nera.

 

Lorient è in Bretagna, s’affaccia sul Mar Celtico, e durante gl’anni della Seconda Guerra Mondiale era uno dei più importanti avamposti nazisti, base degli U-Boot.

Una fredda notte di gennaio i pescatori rientrarono in fretta e furia in porto: guardate che si stanno preparando per bombardarci, gridavano, vogliono farli tutti secchi, i crucchi, e noi con loro.

Tutta la città era al corrente dell’epilogo prossimo. Eppure, solo in pochi scapparono.

Tra quelli che rimasero c’era Madame Cuissard. Faceva delle grandi telefonate, in quei giorni, la Cuissard. E certe volte si parlava, lungo il filo, di calcio; cert’altre di pesce.

 

Il Mago – che ancora non era un Mago – uno dei primi giorni del 1943 entrò con Madame Cuissard nel Bar di Jean Bellino: avrebbe potuto fare il calciatore-allenatore, gli aveva proposto lei, uno stipendio discreto, l’aria di mare, che c’entra, siamo una base nazista, ma non si può mica stare a sottolinearlo ogni volta, veda lei.

 

Come si fa a prendere certe decisioni? Ci fossero stati il polpo Paul o la carpa Gina, tutto sarebbe stato molto più semplice.

E i Merluzzi sussurravano: resta con noi.

E i pescatori di merluzzi intimavano: vattene, finché sei in tempo.

Quando il 16 gennaio i bombardieri della RAF rasero al suolo Lorient, il porto illuminato dalla luce della luna piena, le basi missilistiche naziste, nel carnaio finirono pure Madame Cuissard, tutta la rosa della squadra della città, lo stadio. Rien ne va plus.

Ma il Mago era stato così Mago da prendere la decisione giusta: infatti laggiù a Lorient c’era mica, il Mago.

 

Chi dorme non piglia pesci; anche chi piglia pesci non dorme, e chi non dorme ne sa sempre una in più di noi.

Ha una saggezza innata, il pescatore, e allora sai che c’è?, c’è che Gigio dovrebbe farsi una passeggiata giù al porto, attendere l’alba, placcare il primo cianciòlo di ritorno, implorarlo di fargli sapere se è il caso di provarci, con Diana, oppure se non sia meglio lasciar stare, che tanto è impossibile che lei ci caschi.

 

Impossibile, poi: niente è impossibile.

Com’è che diceva, Helenio Herrera, il Mago?

La sola differenza tra le cose difficili e le cose impossibili è che per le cose impossibili ci vuole più tempo.

 

[Il Lorient ha vinto il suo unico trofeo, una Coppa di Francia, nel duemiladue, settantasette anni dopo la sua fondazione, quando tutti credevano impossibile che il Lorient potesse mai alzare al cielo una coppa. Sul palco d’onore, a stringere la mano al presidente Chirac, salì pure Remi Gaillard. Ma questa è un’altra storia]

Fabrizio Gabrielli

Tom Waits goes to “Karl Marx Barber’s shop”

La merce è prima di tutto un oggetto esterno, una cosa che per mezzo delle sue proprietà soddisfa bisogni umani di qualunque specie…

(Karl Marx, IL CAPITALE)

ascolta http://www.youtube.com/watch?v=GuwNpB-lrKk

La pubblicità è l’anima del commercio, recita uno slogan; e ciò è quanto di più autoreferenziale possa immaginarsi…
La pubblicità è la ruota del capitalismo.
La pubblicità ha trainato l’America, dentro e fuori la guerra. Le guerre.
In America (Stati Uniti è un eufemismo, sa tanto di Franklin e poco di Nixon), il capitalismo è giunto ad un tale livello di perfezione, o di imperfezione (è più o meno la stessa cosa, esteticamente parlando) da consentire alla ruota di generare Ricchezza, Squilibrio, Iniquità. E Arte.
E così davanti agli occhi del piccolo Tom Waits da Pomona, in ginocchio sul sedile posteriore della macchina del padre, le mani già affusolate e la voce non ancora sottoposta al volontario processo di affumicamento che mirava a renderla simile a quella di suo Zio Vernon, in pellegrinaggio sull’Arizona Route, si snodava una sfilata di 5 cartelli rossi con scritte bianche, 5 puntate, una ogni tot miglia, a comporre una frase e il 6° con la scritta BURMA SHAVE.
Burma Shave diventa per Tommy il paese di Oz, e quando la voce raggiunge finalmente la giusta cottura decide di farci sopra una canzone (o se preferite, una storia, una piece, una preghiera).
Per lui Burma Shave resta il paese dove atterra Dorothy dopo il tornado, anche se Tom ormai sa che oltre l’arcobaleno c’era soltanto l’idea di un ragazzo che durante la Grande Depressione tentava di evitare il fallimento della ditta di crema da barba del padre, inventandosi il primo serial della storia e lo spot del secolo.
Le stampe e l’iconografia ufficiale testimoniano che Marx non ha mai usato Burma Shave, né altre creme da barba. Di qualunque specie…

DomenicoCaringella EnnioCanallegri