Una canzone per l’estate

Scelta da Gianluca Liguori e Luca Piccolino.

A settembre.

Buona estate da Scrittori precari

Appunti per un racconto di (max.) cinquemila battute

Mi hanno dato cinquemila battute per scrivere un racconto e quindi ho cinquemila battute – massimo! – per parlare di una donna che si chiama Ludovica, trentadue anni, scrittrice e giornalista di Marie Claire – “una rivista che parla di tutto, anche di te”, come recita lo slogan dell’imponente campagna pubblicitaria, quella campagna che ha puntato sulla donna media e sulla precaria sicurezza interiore della donna media, una donna che Aristotele definirebbe “astratta” – e questa Ludovica, in effetti, oltre che essere astratta, oltre che essere giornalista, dev’essere una scrittrice che non si prende (mai) troppo sul serio, perché il giornalismo è un affare impegnativo, dice, ma la scrittura, no, così ha scritto un libro la cui stesura è durata un mese – ventisette giorni, come testimoniano le croci sul calendario della Cassa di Risparmio SpA – e il suddetto libro (357 pag., rilegato) è riuscito ad aggiudicarsi un importante premio nazionale – tra l’altro, è in corsa per vincerne degli altri: ennesimi riconoscimenti che fanno curriculum, altre premiazioni dove guardi la prima fila e ti chiedi chi siano, questi vecchi col catetere che votano e, intanto, si proteggono dal sole romano con cappelli che aderiscono a vecchie mode recessive – ma il premio più importante, appunto, Ludovica l’ha già vinto e Rosalba, la madre cinquantacinquenne, è stata contentissima, tanto che ha organizzato una festa a casa sua (sua, della madre) e ha invitato tutte le sue amiche (sue, della madre) per pubblicizzare la notizia e prendersi quei meriti cromosomici (fonte d’ispirazione: la tara ereditaria di Zola) che son riusciti a impressionare le amiche e le amiche delle amiche, rendendole gelose e un poco ciniche, caustiche al punto da sottolineare, con tono polemico, che alla festa della figlia mancava qualcuno d’importante, ossia la figlia, e la madre, allora, non sapendo quale scusa inventare, aveva elaborato una tragedia in due atti che, nel primo atto, introduceva Ludovica e un treno Eurostar Frecciarossa, e poi, nel secondo atto, si focalizzava sull’educata rabbia di Ludovica e sulla rottura del treno, che giaceva immobile nel mezzo della campagna senese – “Siena è una città stupenda, piena di monumenti”, aveva detto alle amiche – e questa divagazione le aveva permesso di narrare una considerevole porzione del suo viaggio di nozze, aneddoti matrimoniali che, grazie a una certa abilità espositiva, erano riusciti a oscurare il precedente filone narrativo, facendolo scivolare nell’oblio (possibile domanda: la tara ereditaria esiste davvero?) e insomma, durante la festa, Ludovica era uscita con un letterato che aveva apprezzato il suo libro (possibile sviluppo: definire le caratteristiche di un letterato) e adesso, a distanza di qualche giorno, il letterato le scrive lunghe e-mail in cui profetizza il ruolo che Ludovica [correzione: “l’incredibile libro di Ludovica”] potrebbe ritagliarsi nel panorama letterario italiano, e ognuna di queste e-mail si chiude con un saluto d’amor cortese che potrebbe fare colpo, chissà, magari il letterato riuscirà a sedurre Ludovica, portandosela a letto, sfoderando certi addominali da modello-d’intimo-maschile, o forse no, chissà, comunque, dato che i soli appunti stanno per raggiungere le cinquemila battute, son costretto a fermarmi qui.

Iacopo Barison

La falsa vera storia dell’Olandese Volante e del suo capitano Giovanni Vanderdecker detto Giò

Giovanni, si chiama il capitano, Giovanni Vanderdecker. O era Vanderbroncker?
Nessuno lo sa con precisione.
Per questo la ciurma lo chiamava Giò, semplicemente Giò, Giò al mattino quando il mare è di bonaccia, Giò a poppa col libeccio a scompigliargli il ciuffo corvino, Giò quando colpisce la palla di stracci sul ponte della nave da quaranta metri insaccandola nella rete a prua, certe sere freddissime al tramonto, mentre si naviga spediti verso l’isola di Giava.

Sembra che Vanderdecker Giovanni detto Giò, con le Molucche, abbia un conto in sospeso. Molacca è la madre, alle Molucche andava il padre, che di quelle terre amava clima, cibo e fighe; molacca, in un certo qual senso, è pure la figlia della sorella: eggià, è molacca pure quella, che ci si creda o no.

Giò, per raggiungere l’isola di Giava, impiega poco tempo: sessantatré ore, per la precisione. Due giorni e mezzo, più o meno. L’equivalente di sette partite di pallone.
Come se ti piazzi sui seggiolini della Rotterdam Arena e ti sorbisci le ultime sette giornate dell’Eredivisie, Feyenoord-ADO Den Haag, Feyenoord-RKC Walwijk, Ajax-Feyenoord, Feyenoord-PSV, Feyenoord-Twente, Feyenoord-FC Utrecht, Feyenoord-VVV Venlo. Al triplice fischio, Giò è arrivato alle Molucche. Dove l’attende l’oro, e la gloria.

Non che sia mai stato meno che periglioso, il viaggio per arrivare alle Molucche.
Aveva provato, una volta, a passare per l’Atlantico virando verso le Americhe.
Avrebbe dovuto fare scalo tecnico a Buenos Aires e doppiare Capo Horn.
Era il millenovecentosettantotto, e il mozzo Johann, stomaco troppo debole, aveva detto no, guarda, non vengo.
Col cadzo che ce l’avevano fatta, a doppiare Capo Horn.
Giù bestemmie.
Giò era ferratissimo, nelle bestemmie, ne sapeva anche qualcuna in molacco.

Trent’anni dopo, si tratta di doppiare il Capo di Buona Speranza.
Ci sono buone speranze di riuscita.
L’ammiraglio Wesley traccia certe rotte sulle mappe verdi che férmati.
Il capitano di vascello Dirk, brutto come l’invidia, dà le capocciate alle razze che si frappongono sul cammino. E dopo esulta pure.
Lo sembran dire anche i gabbiani: forse è l’anno giusto per issare il gonfalone arancio sulla sommità del mondo.

Ed invece.
Invece capita che al largo di Cape Town, coi brilli iridescenti di Johannesburg a baluginare in lontananza, il cielo cominci a tingersi di rosso.
Le attrezzature di bordo s’inceppano. Un Nettuno dall’insolita glabra mise, arbitro incontestabile di chi va per mare in cerca di gloria, non ti va a sguinzagliare tutta la sua perfidia?
E allora è nervosismo, e bestemmie, giù con le bestemmie di Giò che in confronto ogni sciò di Remo Remotti meriterebbe il palcoscenico della Cappella Sistina.

Un’ora e mezza in balia delle onde.
E non finisce lì.
C’è da patire ancora mezz’ora almeno.
Che te pòssino cecàtte, urla Giò all’Altissimo, vedi tu che ti succede se non ci fai uscire vittoriosi almeno stavolta. Ci farai mica navigare in eterno, porco d’un cane!
Braafheid, fido marinaio ch’a squadrarlo da lontano sembra Candyman, implora perdono segnandosi la croce sul corpo.
Il resto della storia la sapete, non sto qua io a raccontarvela.
Mica son state esaudite, quelle suppliche là.

Insomma, tutto questo amba aradam per dirvi che vi capitasse, che so, tra quattro anni, d’essere in navigazione al largo di Rio de Janeiro piuttosto che non di Salvador de Bahia, e d’incrociare una nave fantasma ch’emana una luce spettrale materializzandosi da un banco di nebbia, credeteci mica a chi vi dice ch’è solo una fata morgana, una semplice illusione ottica, un farfalicchio.

È l’Olandese Volante.
A bordo del quale le anime di Giò, di Frankie De Boer, di Johan Neeskens e di Ruud Krol vagano senza pace, legate da un perfido sortilegio al sempiterno destino di non riuscire a portarsela a casa mai, una dannata Coppa del Mondo.

Fabrizio Gabrielli

La Corea del Nord ai Mondiali di Calcio

Pagliuca, miracolo!”

(Bruno Pizzul – Usa ’94)

«Capo, siamo nella merda» il luogotenente Xiao Ping aveva la fronte piena di goccioline di sudore, gli occhi a palla e la camicia militare tutta fuori dai pantaloni.

«Che cazzo di un Buddha succede?» il Leader nordcoreano, Maxioi XII, si sradicò il sigaro da bocca «È per via di questi cazzo di Mondiali di calcio, vero?» tonò.

Xiao Ping fece rimbalzare il faccino giallognolo, le mani erano diventate due Black&Decker fuori controllo. «La squadra ha perso col Brasile».

«Quanto?» ribatté nervoso Maxioi.

«Due a uno»

«Troppo. Che umiliazione! Al ritorno in patria, dateli in pasto alle scrofe»

«Sissignore, sarà fatto!»

«Bene. Ora pensiamo a cosa dire alla Nazione…».

Il Leader Maxioi XII si grattò le chiappe, poi decise che avrebbe parlato al popolo in diretta televisiva dopo il telegiornale delle 20. Anzi, avrebbe fatto ancora di più. Avrebbe condotto lui stesso il telegiornale delle 20. E forse, dopo, si sarebbe nominato Super Leader, una carica nuova per dare più lustro al Paese, bisognoso di maggiore lustro secondo le sue ultime ricerche statistiche.

«Allestite lo studio delle conferenze, si va in scena, Buddha incatramato!» strillò, poi si diresse verso la sala trucco.

Ore 20, nello studio delle conferenze.

«Cari compatrioti, chi vi parla è il vostro Leader Maxioi XII, figlio del fuoco e di Maxioi XI l’impavido, creatore del mondo, del frigorifero e della scaltrezza» Maxioi XII fece una pausa molto teatrale e si inumidì le labbra carnose «La nostra nazionale di calcio, la nostra gloriosa nazionale di calcio!, come ben sapete si trova in Sudafrica per giocare i Campionati del Mondo. Un drappello di eroi che onorerà il nostro Paese e che ha già battuto la nazionale dei giocolieri brasiliani per una rete a zero! Viva la Corea!» partì un fragoroso applauso preregistrato «Al via le immagini dell’impresa».

Sul video apparvero gli highlights della partita, commentate dal Pizzul nordcoreano: Pal Xo Pai, l’unico cronista sportivo del paese, che oltre a commentare le partite della nazionale, tutte quelle del campionato maggiore e firmare ogni pezzo di ogni edizione giornaliera della Gazzetta dello Sport coreana, era anche il genero di Maxioi XII.

Pal Xo Pai sembrava un tarantolato, mitragliava parole più velocemente del Paolo Bonolis coreano e grugniva di gioia per ogni contrasto vinto dalla squadra in maglia rossa. Le azioni salienti erano state sapientemente montate per garantire al pubblico la visione della netta supremazia coreana, tramutando la sconfitta nel più clamoroso dei successi.

«Ehhh, molto beeella questa vittoria contro il Brasileeeh!» concluse il Pizzul coreano, prima di ridare la linea allo studio.

La prima era fatta, la nazione doveva essere in delirio, pensò Maxioi XII mentre congedava i telespettatori prima del coprifuoco delle 21, quando la corrente elettrica sarebbe stata staccata a tutta la Corea del Nord.

Cinque giorni dopo.

«Sette pere, capo. Sette» il luogotenente Xiao Ping era più mortificato di un chierichetto alla seconda sega della giornata.

«No grazie, ho già mangiato la frutta oggi» rispose Maxioi XII con uno stuzzicadenti infilato tra le labbra.

Xiao Ping si strinse nelle spalle «Capo, ne abbiamo presi sette dal Portogallo. Abbiamo perso sette a zero…».

Un urlo disumano invase ogni angolo del palazzo reale.

Se per rimediare alla figuraccia col Brasile bastava montare le immagini eclissando le reti verdeoro, stavolta serviva un vero miracolo per non far cadere nell’angoscia l’intera popolazione. Serviva un colpo di genio, pochi cazzi. E Maxioi XII non si smentì neanche quella volta.

«Ascolta… tu… coso…» il Leader prese a schioccare le dita in direzione del suo luogotenente di fiducia «tu… ma come cazzo ti chiami, tu?»

«Leader, io sarei Xiao Ping, la servo con onore da otto anni…»

«Davvero? Un tempo eri più alto, forse anche più bello. Ad ogni modo il tuo nome non mi piace, Xiao Ping, e che è? Una marca di assorbenti? Da oggi ti chiamerai Choi Son Chai, che è come avrei sempre voluto chiamare un’iguana, se mai ne avessi avuta una. Ma siccome non l’ho avuta, ci chiamerò te. Occhei?»

Choi Son Chai acconsentì senza aprire bocca.

«Oooh, bene. Allora, veniamo a noi. Ho avuto un’idea» Maxioi XII si alzò da tavola e si diresse pensoso verso l’enorme scacchiera vivente che alloggiava nel suo salone regale «Noi prendiamo la torre…» e afferrò per un polso un uomo con una sagoma di cartone a forma di torre sulla testa «…E la scaraventiamo dalla finestraaaaaa!» e trascinò l’individuo verso l’enorme balcone che dava sui giardini, fino a scagliarlo di sotto. In tutta la sala echeggiò il gridolino di terrore degli altri figuranti.

Choi Son Chai sgranò gli occhi «Leader, ma perché l’avete buttato di sotto? Stavamo parlando della partita… o sbaglio?»

«L’ho buttato di sotto perché erano settimane che mi spiava. E poi io faccio il cazzo che mi pare, sono il Leader!».

Il luogotenente si strinse ancora nelle spalle. Meglio farsi i cazzi suoi, si disse.

«Dicevamo…» Maxioi XII riprese le fila del discorso fregandosi le mani «Abbiamo perso sette a zero col Portogallo. Bene. Cioè, male. Prima di tutto, ricordi il mio precedente ordine? Quello di darli in pasto alle scrofe?»

Choi Son Chai acconsentì.

«Bene, dimenticatelo. Appena tornano in patria, incendiali vivi, cremali, con le maglie di calcio indosso»

«Sarà fatto»

«Bene, Choi Son Chai tu farai carriera, lo sai?. Ti promuovo a luogotenente spaziale, ora il tuo potere è esteso anche allo spazio aperto. Se mai dovessimo trovarci a regnare su Giove, o Venere, sappi che il tuo ruolo sarà ancora valido. In più hai diritto a ottocento grammi di riso in più all’anno. Gioiscine».

Il luogotenente spaziale spalancò un sorrisone, poi chinò il capo in segno di ringraziamento.

«Perfetto, allora, la partita. È facilissimo, mandate in onda le immagini di quella col Brasile e dite che il Portogallo è il Brasile, fate cambiare il commento a quella mezza sega di Pal Xo Pai e il gioco è fatto»

«Genio, genio!»

«Lo so, non è che si diventa Leader così, mangiando bottoni».

Altri cinque giorni dopo.

L’idea di Maxioi XII era stata un successone, il popolo nordcoreano era in brodo di giuggiole per il bottino pieno nelle prime due partite al Mondiale. L’indice di gradimento verso il Leader era salito del 3% (arrivando ad un clamoroso 103%) e, per festeggiare, il governo aveva permesso l’accesso ad una versione interna di Google, dove, però, si potevano cercare solo immagini di Maxioi XII a bassa/media risoluzione. In poche ore furono registrati tremila accessi. Insomma, la vita in Corea del Nord era decisamente migliorata grazie alla trionfale avventura della Coppa del Mondo in Sudafrica.

«Capo» Choi Son Chai si mise sull’attenti di fronte al trono reale «Brutte nuove…»

«Non me lo dire» Maxioi XII arrestò il suo luogotenente spaziale con un cenno della mano «È sfiatata l’atomica!»

«No, in realtà…»

«Lo sapevo! Lo sapevo! Idioti, incompetenti!»

«Signore, non è questo…»

«Quei maledetti scienziati pazzi! Loro e la smania di rispetto per la vita umana! Cazzoni!» il Leader scattò in piedi, prendendo a roteare le mani nell’aria «E questo non si può fare! E duecentomila persone non possiamo arrostirle coi lanciafiamme! E pippì e puppupù!»

«Signore, abbiamo perso la terza partita del girone… siamo stati eliminati dai Mondiali… volevo dirle questo…»

«Perché non me l’hai detto subito, inetto?»

«Stavo provando ma…»

«Ti avevo promosso luogotenente spaziale, vero?»

«Sì»

«Beh, sei degradato a stalliere maleodorante».

Lo stalliere maleodorante chinò il capo in segno di accettazione, una lacrima gli solcava la guancia sinistra. Dopo tutta quella fatica per diventare luogotenente spaziale… E poi si era fatto da solo, lui. Che jella.

«Va bene, signore» squittì.

«Quanto abbiamo perso?» Maxioi XII riprese posto sul trono in pelle di cervo albino.

«Tre a zero, con la Costa d’Avorio» Choi Son Chai si fece piccolo piccolo.

«Contro dei negri!»

«Tecnicamente sì…»

«Tecnicamente stocazzo! Che umiliazione… Non possiamo farci vedere deboli davanti ai sudditi! Soprattutto contro dei negri!»

«Si direbbe neri, Signore…».

Maxioi XII si voltò di scatto, gli occhi di ghiaccio fissavano dritti il suo interlocutore. Non disse niente, estrasse la 44 Magnum dalla fondina ascellare e sparò dritto in mezzo agli occhi allo stalliere maleodorante Choi Son Chai. Un solo colpo. Steso, dritto.

«L’Ispettore Callaghan è arrivato in città, baby» chiosò, soffiando nella canna fumante del revolver.

Il sovversivo era eliminato, ma ora come poteva risolvere il problema?

Ancora una volta, la sua mente brillante gli venne in soccorso.

«Ma certo!» esclamò, battendosi una mano aperta sulla fronte «Come ho fatto a non pensarci prima!» e, riposta la pistola nella fondina, prese a trottare verso l’enorme portone della sala reale.

Il giorno dopo.

Il telegiornale della sera irruppe così nelle casette dei nordcoreani:

«Clamoroso! Dopo il nove a zero rifilato ai negri della Costa d’Avorio, tutte le altre nazionali di calcio iscritte al torneo mondiale si sono ritirate per manifesta superiorità della nostra gloriosa squadra! È un giorno di giubilo per la Corea del Nord! Siamo Campioni del Mondo! A seguire, le immagini del rientro in patria degli eroi, accolti all’aeroporto dal grande Leader Maxioi XII!»

Sul video apparve un aereo in fase di atterraggio. Poi, le immagini commentate dal solito Pal Xo Pai, descrivevano passo per passo l’evento.

Il portellone del veivolo che si spalancava, il capitano che usciva mostrando la Coppa del Mondo, Maxioi XII che lo abbracciava una volta toccato il suolo nordcoreano. Le lacrime di tutti, anche quelle delle hostess, ad accompagnare il miracolo sportivo più incredibile della storia del calcio.

La Corea del Nord era Campione del Mondo per la sesta volta. Il record del Brasile pentacampione era spazzato via una volta per tutte.

Marco Marsullo

Io, lui e il calcio

«Allora Alessandro, che ne dici? Ti alleni con noi?»

«A me il calcio fa schifo! »

« … »

Lo dissi alla tenera età ( non ho mai capito perché si usi dire così anche se nel mio caso, vista la pingue forma, ci stava tutto) di sei anni.

Papà Erio portava il suo unico. Figlio. Maschio. A vedere il calcio.

Adesso… il “calcio”! Era la società sportiva del paese in cui ho vissuto fino a quando non hanno ceduto i miei nervi ormonali e adolescentEmozionali. Romano io!? No. Io sono ciociaro. E ai romani i ciociari non piacciono. Siamo burini.

Comunque sto divagando. Al tempo del fattaccio mi toccarono 90 minuti di partita, più allenamento, più pippone pre-visione su quanto il calcio sia lo sport più praticato al mondo.

Ricordo ancora il freddo degli spalti fatti di comodissimo cemento grigio, il freddo della giornata novembrina e il freddo che tormentava le mie chiappette annoiate.

E poi mio padre.

«Guarda come si divertono! Guarda quanto movimento! Guarda quanto è bravo quello! Guarda…»

«Guarda l’orologio che vorrei sapere quanto manca per andare via», avrei pensato, ma so che in qualche modo lo feci, se avessi avuto la mia linguaccia di ora guardando il sapiens con fare sfottuto.

Io sorridevo invece, cortese, che al tempo lo ero, sorridevo compiaciuto di tanto amore e passione del mio babbo romanista nell’anima, nel sangue, nelle parole, opere e omissioni.

Il buon uomo voleva quello che vorrebbero tutti i padri prima (o dopo!?) della laurea e un’istruzione: vedere il loro figlio maschio far volteggiare la sfera, infilare goal spettacolari e correre facendo l’aeroplanino o qualsiasi cazzata gli passi per la mente o si sia preparato per l’occasione.

Alla fine dell’allenamento, mentre il mio culotto tentava di riconciliarsi con la forma che aveva avuto prima di arrivare in quel campo umido, mi ritrovai davanti all’allenatore separato soltanto da una leggera rete metallica verde bottiglia.

Io. Il Mister. Erio.

Mister. «Allora Alessandro, che ne dici? Ti alleni con noi? »

Io. Sguardo verso papà sorridente, imbonitore, compiaciuto, sguardo al Mister.

Sguardo verso papà super sorridente, super imbonitore, super compiaciuto, sguardo al Mister.

«A me il calcio fa schifo! ».

Ecco. Come si può commentare il gelo che scende in una situazione del genere? Era Glaciale? Inverno Post Atomico? Atmosfera di Plutone!? Fate un po’ voi.

Papà non rideva più, non imboniva più, non si compiaceva più.

Il Mister. si fece una gran bella risata e disse «Alla faccia della sincerità! Erio, niente da fare…».

«Grazie Enzo».

Ci avviammo verso l’automobile, sul viale pieno di ghiaia e sassolini, con il rumore ritmico e sonoro tipico di quelle passeggiate, presi la mano enorme (mio padre è ancora oggi un gigantesco ammasso di tenerezza, ossa e muscoli da non fare incazzare please) che mi penzolava vicino alla faccia e buoni buoni entrammo in macchina.

Accese il riscaldamento e prima di mettere in moto mi disse «Vabbè, Alessà che sport vuoi fare?».

Risposi quello di più ovvio per un giovanottino di sei anni «Il karate! ».

«Il karate… il karate!? IL KARATEEE!? » lo so che mio padre ebbe un attacco tipo Bruce Banner quando sta diventando Hulk dentro la sua testa, ma quello strano embolo rimase circoscritto alla vena sulla sua tempia e non si palesò. Io per quanto mi riguarda, segnai il mio destino fatto di più di 25 anni di sudore, lacrime e mazzate nei pesi massimi.

Però non mi sono mai fatto male come chi gioca a calcio!

Il calcio per me è sempre legato a mio padre. A Erio.

Erio. Vigile urbano motociclista. Un armadio quattro stagioni con spazio anche per i piumoni, amava (e ama) il calcio: lo mangiava a colazione per strada, a pranzo a casa, nel bar il pomeriggio e a cena davanti al camino. Non c’era sonno perso che non valesse una partita. (Adesso che è in pensione vorrebbe Skydecoderdigitaleterrestreeancheextraterrestreportamivia per vedersi tutte le partite, ma con mamma abbiamo optato per un unanime «No! » Arginando con qualche canaletto dove l’ho pescato a vedere partite tipo Burundi vs Burkina Faso… ma si può!?).

Lui ha sempre saputo tutto del pallone, nomi e cognomi, soprannomi e altezze e misure e che mutande portano, abitudini alimentari, sessuali, un CSI del campionato. A casa c’era sempre una copia del Corriere dello Sport e quando andavo dal nostro giornalaio di fiducia e chiedevo il Corriere dovevo subito riconsegnare il quotidiano sportivo e precisare «Della Sera. Grazzzie».

E la casa risuonava letteralmente delle voci di Galeazzi, Mosca e Biscardi e la sigla bellissima di 90° Minuto e gli applausi mentre io passavo per il salotto.

Fumetto in mano.

Libro in mano.

Spartiti in mano.

Rivista di musica in mano.

Quotidiano in mano.

Erio, mi guardava cagnone allora, mi puntava dal salone e si faceva un po’ più in là sul divano mentre con un occhio (roba da diventare ciechi o strabici) guardava la moviola e mi faceva pat pat sul cuscino accanto a lui.

Io passavo. Prendevo il tè e tornavo in stanza. Mentre alle mie spalle il televisore White Westinghouse vomitava «Tiro!Fallo!Rigore! L’ammonizione non c’era! ». il buon genitore tornava allora alla sua posa: mano protesa verso la tivvù e una smorfia di disgusto verso tutto quello che accadeva.

Ci ho provato a capire il calcio giuro! Non mi viene proprio… Mi piace guardare quello inglese, bello deciso e incazzoso, ma non è che sto lì a cercarmelo tra i programmi o a leggere i palinsesti televisivi per capire quando poterlo vedere. Avevo Clive Barker, Sam Raimi, il primo grande Dream Team, il Banco del Mutuo Soccorso, i Genesis, Poe, Lovecraft, alcuni classici. Ahò! C’avevo da fa!

Andai a fare anche delle partitelle con gli amici che giustamente, visti anche i piedi abbastanza a banana e i miei trascorsi sportivi (aggiungete al karate, football americano e basket), mi sbattevano in porta dove ero una specie di grosso Cerbero che mordeva chi entrava in area. Non andava bene per niente. Per me. Per gli attaccanti. Per la squadra.

Puntuale nella vita arrivò la consapevolezza del rito del Mondiale e di come affrontarlo.

Ci sono addirittura fotografie che mi ritraggono esultante con il tricolore.

Non sono fotomontaggi. Da ragazzino mi facevo travolgere dall’ondata entusiasta del tifo casalingo, a cui si aggiungeva la mia pepata mamma che in quei momenti tirava fuori di tutto dalla bocca e dai gesti e io ero lì che guardavo.

Era un modo per gridare per strada, per urlare libero e sentire mio padre che strombazzava con il clacson mentre un tizio con un altoparlante montato chissà come sul tettuccio della sua Fiat 124 faceva sentire un commentatore noto (a me misconosciuto ancora oggi) recitare, sì recitare, la formazione del mondiale dell’ ’82 e ripetere all’annullamento (come i mantra buddisti) la frase “Campioni del mondo!”

Facevo casino ed era bellissimo.

Poi divenne un modo per stare con gli altri amici, che mi guardavano sempre storto quando dicevo che non mi piaceva il calcio, e ci si vedeva a casa per radunarsi e osservare religiosamente la partita, io però non capendo una cippa avevo ben poche opzioni durante i novanta e passa minuti.

a- Esultare al goal

b- Stringere i denti ad un goal quasi fatto o quasi subito

c- Allungare il mio “Nooooooo” all’inverosimile quando entrava il pallone nella nostra rete.

Per il resto ero spettatore degli spettatori.

Ma quanto mi costava il mondiale? A che consapevolezza sono arrivato?

A me sto’ grande circo non costa nulla, viene ogni quattro anni (se non sbaglio) ed è un delirio d’azzurro vestito che arriva prende la principessa e se ne va, o con un’erezione tanta o con le pive nel sacco!

Soprattutto quanto mi costava vederlo con Erio? Niente. Ho chiaramente parlato delle mie motivazioni, ma poi l’età un po’ di senno lo porta e mi sono accorto di come mio padre si entusiasmava al parossismo quando eravamo insieme, quando con il sedere a 3 centimetri dal divano e il corpo proteso come su uno starter dei 100 mt mi diceva «Guarda che azione! Prendi il pane e prosciutto! No! Aspetta! Va che roba! Dai che mangiamo! La birraaaa! Oddio ferma tutto! Attentiiii!».

E io ridevo e facevo avanti e indietro tra le sue parole e le azioni che mi gridava, sospeso tra fare e ascoltare.

Da tanto non guardo un mondiale con papà, la vita mi ha portato a Milano, poi a Roma e tra mille cose è difficile che me ne torni al paesello a vedere il mondiale, anzi spesso sono addirittura fuori in quei giorni così evito l’orchite acuta davanti alla tv. Sarà dai 90 che non guardo le partite con Erio che non sento tutte le sue eventuali strategie, le scelte di giocatori che avrebbe fatto, le sue lamentele e quella buonanotte che suonava come un «A domani soldato! Vedrai che vinceremo!».

A me non continuava e non continua a fregarmene del calcio, i mondiali sono soltanto un grande party dove si dismettono i panni dello juventino, del laziale, del romanista e si mettono quelli dell’italiano, e facendolo si può UNITI coglionare un’altra nazione che ha perso contro di noi, non ci sono discorsi sull’unità d’Italia o sul senso della nazione. That’s it!

Eppure quest’anno voglio andare a casa, almeno per una partita. Portare birra e wurstel e maionese, tirare fuori l’hooligan frustrato che avrei voluto essere e dare grandi pacche a Erio, brindare con lui, strozzarci per un’azione sghemba, davanti a quel televisore (lo stesso White Westinghouse) da tanti anni litigato tra mani in cerca del potere del canale e far sentire mio padre il capitano della nostra squadra, sostenuto dal suo attaccante preferito, perché io e Erio non abbiamo molte cose in comune o passioni di cui poter parlare e il mondiale è una livella che ci fa stare vicini più di quanto si possa pensare e alla fine dei novanta sudatissimi minuti, so che io parlerò di calcio e lui di libri. E se c’è una magia in questo diavolo di sport per me è soltanto questa.

Alex Pietrogiacomi

Tempi supplementari

Scrittori precari ringrazia (in ordine di apparizione) gli autori “scesi in campo” ne Il mondiale dei palloni gonfiati:

Christian Frascella, Fabrizio Gabrielli, Enrico Piscitelli, Antonio Romano, Sofia Assirelli, Alessandro Boni, Marco Montanaro, Gianfranco Franchi, Massimiliano Di Mino, Roberto Mandracchia, Dario Morgante, Alessandro Busi, Pasquale Bruno Di Marco, Gordiano Lupi, Vanni Santoni, Matteo Salimbeni, Gianluca Morozzi, Franz Krauspenhaar, Lorenzo Orlandini e Collettivomensa.

E poi, soprattutto, VOI, i tantissimi lettori, che ogni giorno passate a trovarci. Grazie a tutti.

Quanto a noi, il blog sarà attivo per altri quattro giorni, poi chiudiamo e ritorniamo a settembre. Vi proporremo ancora tre racconti a sfondo calcistico, del nostro Alex Pietrogiacomi, di Marco Marsullo e, per concludere, del “goleador” Fabrizio Gabrielli, e un racconto inedito del giovanissimo Iacopo Barison.

Il 15 luglio saremo a Travagliato, in provincia di Brescia, alla festa de L’Unità, con lo spettacolo TRAUMA CRONICO. Appunti per un film in terra straniera di Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani, con Scrittori precari.

Il 21 luglio, alle ore 18, saremo al Circolo degli Artisti dove, insieme a tanti altri  autori, leggeremo alcuni estratti da COMPAGNIA K di William March.

Il 18 settembre saremo a… ve lo diremo a settembre 😉

Buona estate

Scrittori precari

P.S. Per chi l’avesse persa, qui, la simpatica intervista di Daniela Primerano per la nuova rivista online Les Flaneurs.

P.P.S. Ah, per chi non lo sapesse, domani, questo blog compie un anno

I senatori sono persone in gamba e per vincere bisogna starli a sentire

Pino Scannamonaca giocò quattro Mondiali e ne vinse uno. Tre volte arrivò secondo, poi si ritirò, lasciando spazio ai giovani.

Il mondo era piccolo e molti di loro il mare non l’avevano nemmanco visto, ma tanti cazzi: il mare è una roba che te ne innamori a sedici anni, quando ci hai il cervello in pappa dai culi dalle femmine. Prima no, il mare non ti serve. Prima, è calcio e basta. La dimensione striminzita del globo non era luogo comune: il mondo intorno a Montegrano era piccolo davvero, e contava otto paesi di montagna. Otto sputi di pietre, collegati tra loro da una sola strada per le macchine, e dalle scorciatoie, che ci potevi andare solo in bici o a piedi, ma allora raggiungevi l’orizzonte in ancora meno tempo. E il mondo, a Pino e a i suoi, per colpa pure delle scorciatoie, gli finiva sotto i piedi sempre prima.

Montegrano era il più brutto degli otto paesi, ma a differenza degli altri aveva il campetto di pietre, e per questo ogni estate da migliaia di anni vi si disputavano i mondiali di calcio – e avere i mondiali in casa tutti gli anni non è cosa da poco, perché gli altri dei sette paesi del mondo vengono a giocare in bicicletta e arrivano spompati dopo la salita. Ma la fortuna calcistica del Montegrano non era soltanto il fattore campo. Lungimirante e saggio infatti, il paese più brutto ma forte del mondo ci aveva la canteira, cioè il vivaio: guaglioni cresciuti calcisticamente a tiri in porta senza porta, per dire a tiri in faccia, dai fascismi dei padri e dei ragazzi grandi, coi polmoni d’acciaio temprati dalle stecche di MS e per scappare dai cani rabbiosi – i cani da preparazione atletica. Velocità e sopportazione della fatica, i giovini montegranesi crescevano e promettevano bene, loro, i figli della decennale tradizione di campioni infanti, meteore destinate a bruciarsi nel giro di cinque anni al massimo per via delle stramaledette femmine – tranne per i cepponi chiaro, quelli che a nove anni ci hanno i baffi e per loro non c’è pericolo perché le femmine non gli si avvicinano ma uno su un milione di quelli, solitamente alti e con le tette e gli occhiali, ci sa giocare a pallone.

Pino nel 1995, a nove anni, era il megliogenito della canteira e in quell’anno, sotto la calandra appenninica, esordì al suo primo mondiale – l’unico che gli regalò nella quadriennale carriera il gusto di una vittoria. All’esordio dunque alzò la coppa – sponsorizzata dall’Autorimessa Pangaro – roba che manco quella pippa di Barone dodici anni dopo. Come per tutti i fuoriclasse italiani che hanno meno di trent’anni, la convocazione di Pino nel Montegrano fu faccenda discussa che spaccò l’opinione pubblica. Successe che Toni Frutta, il mediano titolare – al secolo conosciuto come Antonio Frutta, – fu richiamato alla leva del padre, imprenditore dell’asparago, per caricare la mattina presto l’ortofrutta nei posti di pianura, visto che i negri non ci volevano più lavorare in quella landa deserta e reclamavano le fabbriche e i diritti, e nella valle, che pure ci aveva di tutto – ci aveva per dire anche il centro commericale – queste cose qua invece non ce le aveva, e allora i negri immigrarono ancora più a nord lasciando sguarnita la lussureggiante economia dell’asparago. Toni Frutta di fatto non era un gran che, ci aveva le mani grosse e i piedi piccoli come i mafiosi che si vedevano alla tivvù, ma era amico dei senatori grandi, quelli di tredici anni col culo incollato al sellino regio dei motorini appalettati, e quindi a lui la convocazione era garantita.

Nella saletta coi videogiochi sopra il bar della piazza per una buona mezzoretta non si parlò d’altro, poi la squadra – la figura del mister era cosa prettamente istituzionale – dicise e sentenziò che il degno sostituto dell’impossibilitato Toni Frutta sarebbe stato Pino, ma “mi raccomando Pinù non ti muovere dal centrocampo” gli avevano detto e lui lo capiva, certo, che era ancora un mediano coi piedi marci e quindi in quella sorta di catenaccio a cazzo doveva coprire e non spingere, ma per farglielo capire gli avevano disegnato un quadrato nella sabbia da non attraversare a rischio pugni nelle costole – quelli che ti levano l’aria e pensi di morire ma poi mica muori davvero, – quindi Pino quell’estate giocò di fatto il suo primo mondiale fermo in un quadrato nella sabbia, dannandosi a fottere palloni e gambe ai bambini della valle e niente di più, mentre la vecchia guardia gli spegneva il fuoco vivo addosso ma tant’è, questo ruolo di merda lo accettava poi per fede, perché i grandi, i senatori, hanno sempre ragione e vanno rispettati.

Così pure quell’estate le amiche dei senatori – pancabbestie coi pantaloni stretti e le scarpe a gommone – per una notte avrebbero lasciato i quarantenni spacciatori della villa e sarebbero andate a festeggiare con i senatori nella casetta abbandonata sotto il campetto, perché era così che si trattavano i campioni, mentre gli altri al massimo avrebbero potuto sbirciare dalla finestrella del bagno, anche se la maggior parte alla fine se ne saliva in paese perché quando il Montegrano vinceva poi al bar ti offrivano la gassosa e la gassosa ci ha le bollicine che salgono diritte nel centro come lo champagne che bevevano nei filme e per questo anche Pino dopo aver alzato la coppa per ultimo, andò a sedersi ai tavolini della piazzetta, quelli con le sedie rosse e il marchio bianco Avena. Quella notte Pino vide gli alberi che gli tendevano i rami in alto insieme ai pali dei lampioni mezzi fulminati, mentre correva a gran velocità verso casa per il viale largo, quello della festa del patrono e dei funerali, e le luci lo seguivano ad ogni passo tant’è che a Pino sembrava di stare passando attraverso le luci della ribalta, e che gli alberi stessero innalzando le braccia per osannarlo. A nove anni il giovane Pino Scannamonaca aveva vinto il mondiale.

A Toni Frutta invece le cose andarono diversamente, la naja estiva gli fu prolungata a vita quando anche il padre si immigrò al nord in cerca di soldi e fica, perché nemmanco queste cose qua ce le avevano nella valle, così gli asparagi che pure dovevano arrivare nei fruttivendoli trovarono un nuovo imprenditore in diretta discendenza e Pino, che le regole le aveva rispettate, fu richiamato altre tre volte. Ma senza fortuna, perché il Montenegro non vinse più, disonorando una lunga tradizione che lo collocava sulle vette dell’invincibilità e in paese tutti già sussurravano che era colpa della maledizione, che l’invidia tanto fa che poi qualcuno lassù l’ascolta e manda la maledizione e poi nessuno ci può scappare. Neanche l’armata montenegrese e infatti nella squadra tutti presero a ricoprirsi di oggetti scaramantici e pure Pino se l’era procurato: una maglietta tutta rossa, come il lenzuolo dei toreri, che se lo agiti davanti alle bestie loro se ne innamorano e sarebbero disposte a rincorrerlo per sempre, infatti se poi glielo levi da sotto i baffi loro si intestardiscono e non mollano e tu lì le devi pugnalare, quando sono accecate dal desiderio, come Marcelo Salas, che Pino ci aveva pure la figurina in casa incorniciata nel soggiorno grande proprio sopra la tivvù. Pure i paesani ci avevano creduto e durante i giorni dei mondiali chiudevano le imposte e sul davanzale buttavano il sale perché il demonio arriva strisciando e c’ha palato fine lui, ma non servì a nulla – tant’è che al bar, dove pure non era concesso parlare di alta strategia, spuntò quella parola che nessuno capiva bene che voleva dire: rinnovamento, e tutti sembravano d’accordo, “la casta dei senatori ha frenato la squadra, bisogna tornare alla canteira, perché solo i guaglioni c’hanno ancora la cazzimma nelle vene”, dicevano, ma il direttivo scuoteva la testa e si trincerava dietro al fatto che i campioni non si toccano mai, altrimenti che ci deventi a fare campione se poi non ci hai l’impunità, e allora in paese se ne convinsero perché tutto gli mancava tranne che la fede. Sì, quei tredicenni fenomeni al loro ultimo mondiale – contestati dall’opinione pubblica che inneggiava a sto cazzo di rinnovamento “ma fenomeni in giro non se ne vedono” – avevano portato la gloria a Montegrano, che se la squadra esiste è merito loro, e se adesso tutti vivono nel rispetto dei ragazzi degli altri sette paesi della montagna era grazie anche alle loro tre vittorie di fila al mondiale. Ma nonostante le polemiche faziose il mondiale, il quarto mondiale di Pino, iniziò.

Il dito al cielo di Marcelo Salas, abbracciato dal compagno Zamorano in divisa rossa cilena, gli aveva dato la carica giusta per spaccargli il culo, a quelli. Il culo e gli stinchi, perché a undici anni il parastinco è roba da buffone, che se te li metti per giocare i mondiali nel campetto di pietre le caviglie te le spaccano per davvero, perché è giusto così, e quelli della valle – il paesino dei commercianti sul fiume in secca – ci avevano le divise, verdi e bianche e i pantaloncini a corredo coi calzettoni, e sotto i parastinchi. Ridicoli.
Pino, indossò quell’ultima volta la sua casacca rossa – che non era la divisa della sua squadra perché divisa nella squadra pluricampione del mondo non esisteva, per scelta politica – sopra la maglietta della salute, bianca con la scritta a pennarello “A Gesù e a Ivan Zamorano”, da esibire a fine partita, quando avrebbe annunciato l’addio ad un calcio che lo vedeva portatore di vecchi ideali ormai dismessi. Che lo faceva sentire vecchio.
Per la terza volta di fila, nel 1998, il Montegrano si piazzò al posto d’onore e Pino fu umiliato in finale dai finocchi con le divise e i parastinchi – uno squarcio che nemmanco la morte ti ricuciva – dando l’anima ma giocando di merda: ancora una volta la disciplina e le mazzate avevano avuto la meglio, in questo calcio fighetto, con tante immagini e poche storie da ricordare.

Tornando a casa in quel giorno triste di fine estate Pino si consolò pensando che i bambini si dividono in due categorie: quelli grandi di età e quelli piccoli. I grandi ci hanno sempre ragione, perché sono più alti dei piccoli e perché ti lasciano un’eredità che non puoi dilapidare – o meglio puoi, ma se lo fai sei uno stronzo. I piccoli invece, hanno il compito di crederci, di sacrificare le costole per la vittoria, sperando un giorno di diventare grandi e lasciare il patrimonio ai giovani, ma poi forse non ne vale neanche la pena, perché alla fine arrivano sempre le femmine e finisce tutto a puttane.

Collettivomensa

Passaggi in orizzontale ovvero perché l’Italia ha perso

Fu calciando in alto un pallone

che sentii di poter bucare il cielo

E. Vendrame

Il vecchino con il cappello stinto recante scritte che reclamizzano materiali da imbianchino o elettricista fa parte dell’arredamento di qualunque bar di provincia, al pari della Gazzetta poggiata sul frigo dei gelati e l’espositore di Chupa Chups sul banco vicino alla zuccheriera. Quando al bar la discussione decolla, tale vecchino assume immancabilmente un ruolo centrale. A volte la conduce, da regista avanzato, mostrando opinioni forti e competenza in materia, e articolando ragionamenti lunghi che il barista ascolta ghignando appoggiato alla macchina del caffé; a volte la segue con aria di sufficienza, fa parlare gli altri, e poi punge con interventi rapidi ma definitivi, da centravanti sornione, ragionamenti che si aprono e si chiudono nel giro di un paio di frasi. In entrambi i casi, le sue posizioni non sono né intelligenti né originali, salvo quando virano (e succede più spesso di quanto sarebbe lecito aspettarsi da un vecchino) verso il complottismo più irresponsabile. Nonostante questo, il vecchino è dialetticamente invincibile, e sottolinea la propria superiorità disseminando le proprie affermazioni di espressioni quali “a me non me la danno a bere” e “non state dietro ai discorsi”.

Le occasioni che più infallibilmente stanano il vecchino sono scandali politici nazionali, decisioni controverse delle amministrazioni locali (modifiche alla circolazione stradale, ristrutturazioni di edifici pubblici, in generale qualunque tipo di cambiamento), e le clamorose sconfitte della Nazionale. Se sei al corrente di questo, sai anche cosa ti succede se ti fermi al bar per un caffè pochi giorni dopo Slovacchia-Italia.

Entro che si sta cercando di appurare ordini e gradi di responsabilità nelle disfatta azzurra in Sud Africa. Qualcuno sta dicendo male di Camoranesi, un altro maledice l’infortunio di Pirlo e la schiena di Buffon, quando una voce dal fondo della sala invita gli astanti a “non dare retta ai discorsi”. L’assenza del cappellino con le marche di materiali edili potrà ingannare gli avventori meno esperti, ma non certo me: è lui, il vecchino.

Un ragazzo, in piedi al bancone vicino a me, tenta una rivoluzione copernicana nella discussione, maledicendo tutte le persone della Santissima Trinità e affermando che a Firenze c’è solo un colore che è il viola, che la sua Nazionale è la Fiorentina e che bisognerebbe andare a Coverciano e dare foho a quel covo di mafiosi della Lega Italiana. Viene ignorato da tutti, come il tizio in giacca e cravatta che smarcandosi dall’insistenza del vecchino prova a dire la sua ricordando ai detrattori di Di Natale che il suddetto si è laureato capocannoniere nel campionato appena trascorso con oltre 20 reti.

Il vecchino, però, porta palla e fa melina. Sostiene che è tutto un fatto di motivazioni, che i giocatori oltre a essere vecchi non avevano più voglia, e trova una spalla ideale nel barista che ribatte al volo dando voce al più banale buonsenso (con tutti i soldi che prendono, gli mancano le motivazioni? Eccetera) ed aprendo così il campo ai facili argomenti sulla mollezza dei costumi di miliardari che hanno tutto. Tutti annuiscono in silenzio, compreso il fiero antitaliano alla mia sinistra e il fan di Di Natale poco più in là. Eh sì, commentano, le motivazioni dei miliardari.

Cazzo. Le motivazioni. L’età media. I giocatori strapagati. Tutti discorsi che si sono sentiti persino a Notti Mondiali. Persino Costanzo, squagliandosi sulla sedia, ha sottolineato che i vecchi dovrebbero lasciare spazio ai giovani (lui, un piduista di oltre settant’anni che ha ormai perso per sempre la propria battaglia con le consonanti sibilanti e che è in RAI dal 1963).

Il vecchino, che evidentemente sente di avere la vittoria in pugno, si concede una finta apertura al dissenso, con un retorico “O no?” a suggello del proprio successo.

Questo è il momento. Devo farlo. Il vecchino sta gigioneggiando, devo colpire in contropiede. All’Italiana.

L’ultimo sorso di caffé mi trova lucido e pronto. Lui si aspetta che dica che la colpa è di Lippi. Le convocazioni, Cassano, Marchisio all’ala, Gilardino da solo lassù. Ma io dall’inizio del mondiale so che il problema è un altro. Il problema è che non c’era in squadra uno come Ezio Vendrame.

Ezio Vendrame era un calciatore degli anni Settanta, straordinario talento, centrocampista d’attacco dal destro fatato e anarchico idealista. Capellone, hippie, poeta. Prima delle gare, scappava dal ritiro per andare a donne e ubriacarsi. Ezio Vendrame, una volta, vendette una partita; ma a metà gara se ne pentì. Andò a battere un angolo, si soffiò il naso alla bandierina, si rivolse al pubblico avversario per anticipare che avrebbe segnato direttamente da lì. Poi lasciò partire una parabola che si infilò alle spalle del portiere. Fece doppietta. Invece dei 7 milioni pattuiti con gli avversari, intascò il premio partita di 44.000 lire. «Ma vuoi mettere la soddisfazione», ebbe poi a dichiarare. Ezio Vendrame era amico fraterno di Piero Ciampi. Una volta, a Padova, durante una partita Vedrame vide Ciampi in tribuna e si fermò nel mezzo di un’azione per andare a salutarlo. «Ho fatto della mia vita un capolavoro e continuo a farlo perché ho sempre fatto il cazzo che ho voluto», spiegò una volta Vendrame, uno spirito libero a metà tra Oscar Wilde e Charles Bukowski – se Wilde e Bukowski avessero saputo mettere la palla dove volevano. Ai tifosi del Vicenza che lo osannavano, Vendrame disse candidamente: «E che cosa saranno mai queste partite di calcio. Inventatevi delle alternative domenicali!». Vendrame ora scrive poesie e allena i ragazzini della San Vitese, in Friuli. Li fa giocare sempre tutti, anche quelli brocchi. I genitori ce l’hanno con lui perché li incoraggia a chiudersi in bagno coi giornalini porno invece di stare alla Playstation.

Penso agli undici di Johannesburg che non hanno il carisma di fare mezzo tiro da fuori area, che passano palla in orizzontale, rasoterra. E mi immagino Vedrame, capellone in Sudafrica, che si soffia il naso con la bandierina in mondovisione, insacca da calcio d’angolo ed esulta con Piero Ciampi. Poi vince la Coppa del Mondo, e in conferenza stampa invita tutti a trovarsi delle alternative domenicali. Mancava in Nazionale uno come Vendrame, uno sfacciato che se ne strafotte di Lippi, del pubblico, di Costanzo e Galeazzi, che tira da calcio d’angolo e va a ubriacarsi in un bordello di Johannesburg.

«Non è questione di motivazione» vorrei dire «è che in squadra non c’era uno come Ezio Vendrame». Lo lascerei sorpreso, il vecchino, come Baresi a San Siro scavalcato dal sombrero di Batistuta durante la finale di Supercoppa nel 1996. Gli vedrei negli occhi il terrore di una vecchia volpe dell’area di rigore che non trova più il pallone a 9 metri dalla porta. Dovrei dirlo a lui, che ci manca Vendrame, dovrei dirlo al barista, a Costanzo, a Galeazzi, a Mazzocchi e a Napolitano, a Bersani, Veltroni e a Paola Ferrari.

Ma come posso recriminare sulla non convocazione di un misconosciuto ex-calciatore con zero presenze in Nazionale? Come posso io zittire il vecchino, che lì da anni ogni giorno vince le sue battaglie dialettiche con chiunque? Posso pensare di entrare in questo bar e dettare legge?

Sto zitto. Annuisco.

Vendrame invece l’avrebbe detta, la sua. Vendrame l’avrebbe fatto. Avrebbe fatto sparire il pallone, avrebbe tirato da calcio d’angolo, una palla alta, un calcio da capellone, a bucare il cielo. Non ne nascono più di Vendrame, in Italia.

Pago e sorrido, e me ne vado.

Lorenzo Orlandini