SQUAQQUERONIA, IL PAESE SEMPRE UGUALE A SE STESSO

Squaqqueronìa si chiamava diversamente, una volta, ma stai a vedere che se lo ricorda mica nessuno come.

Piuttosto vivida è invece la memoria di quando, ormai col cervello marmellatizzato, i cittadini con un moto spontaneo di coscienzioso reprimenda decisero di sposare quel nome ripugnante che suonava come un male pernicioso, significante significativamente malformato, molto circo Barnum, molto eccezionalità, con tutte quelle q.

A Squaqqueronia si tosavano le pecore e si tentavano le scalate con le Opa, si andava al mare e s’indossavano sandaletti di plastica col pellicciotto all’interno.

E poi si giuocava al calcio, a Squaqqueronia, come un po’ ovunque.

E c’erano i giornali: quotidiani, mensili e settimanali. Quasi tutti parlavano di calcio.

A Squaqqueronia, il giorno delle partite, ventidue calciatori zompettavano sul pratino verde, mentre sugli spalti si cantava, ci si scaccolava, si guardava il culo alle hostess e piaceva fumare sigaretti. Anche bere caffè Borghetti.

A Squaqqueronia quelli che andavano allo stadio non li leggevano, i giornali, nemmeno i libri, neppure le etichette del caffè Borghetti. A che serve, leggere?

Ciononostante, a Squaqqueronia i due quotidiani principali una volta s’erano sfidati a colpi di reportaggio: uno aveva intitolato il suo esclusivo servizio d’approfondimento “Un paese nel pallone”.

L’altro, di titolo, dell’altro, di giornale, era “Un paese in panne”, e si concentrava sulle preferenze squaqqueròniche sul gelato: creme o frutta? Una questione annosa, in buona sostanza. (e comunque chi faceva quel giornale se ne fregava del gelato, ed in prima pagina sbatteva i tortellini) (e comunque non quelli spessi) (e comunque poi lo faceva discretamente spesso, di criticare il tortellìnàro).

Un paese, se è nel pallone o in panne, non ti puoi mica sbagliare più di troppo: non se la passa granché bene.

A Squaqqueronia nulla importava più del giuoco del calcio: la metà dei squaqqueronìni si sentiva autorizzato ad ostentare la sua smodata fede fottendosene di preti, gesuccristi, presdelconz e padroni: contava solo la squadra (del giuoco del calcio) del quore (a Squaqqueronia una volta andavano di moda le k, ora era la stagione delle q).

Squaqqueronia urbe d’ultras era sempre stata mica per ischerzo.

Dove politica, religione e sindacati avevano visto naufragare ogni mira ecumenistica, era riuscito il tifo.

Tifare era l’unico modus operandi riconosciuto, in ogni campo: un collante sociale, etico, morale fatto di cori da stadio ed invettive.

Era una colla strana, quella. Appiccicosa come l’odio.

C’era una squadra, a Squaqqueronia, che da sempre rappresentava ed incarnava le contraddizioni irrisolvibili del paese. Si chiamava Giobbe, o qualcosa del genere, anche noialtri scrittori di Squaqqueronia ad un tratto ci siam tutti squaqqueronati, non voletecene.

Giobbe era il club del padrone, ma era amato dai servi. Di domenica. Perché poi dal lunedì al sabato i servi lo odiavano, il padrone. Che però era pure il padrone della squadra. E la squadra mica si smetteva d’amarla, il lunedì.

Non so se ho già detto che Squaqqueronia si srotolava come una lingua di vomito sull’asfalto, longitudinalmente.

La squadra Giobbe era al capo della slavina terricola, a pochi chilometri dalla città di Gorgonzola, che pure aveva due clubs: Gorgonzola Dolce e Gorgonzola Piccante.

Gorgonzola Dolce aveva, per presidente, quella zuccherina persona amica del dolcissimo presidente del partito che conosceva molto bene pure lo stucchevole presidente d’un’emittente televisiva.

Gorgonzola Piccante, al contrario, era amata dai fondamentalisti del gorgonzola, gente che guai a parlargli di ròbe senza muffa e senza nebbia, non sia mai, anche se poi, a conti fatti, nelle stanze di maturazione c’andavano a lavorare tutti maghrebini o africani, ma che importa, ciò che conta è tenere alto il nome del Gorgonzola e lontani i puzzolenti caciocavallo.

Caciocavallo era come veniva generalmente chiamato il cittadino della Squaqqueronia meridionale, mi sembra di ricordare. Cert’altre volte lo dicevano Torrone, perché era duro ed indigesto eppure dolcissimo, con quelle spiagge di zucchero filato ed il sole di arancia candita.

Il caciocavallo, nonostante l’odio profondo professato nei suoi confronti, non voleva altro che sentirsi un po’ gorgonzola pure lui.

Ed allora gridava, certe volte, quando poteva, Gor-gon-zo-la mentre dagli spalti facevano buuu caciocavallo.

Noialtri, a Squaqqueronia, poi c’è stato un giorno che abbiamo toccato il fondo.

Però ancora deve venire, quel giorno

Lo sai che faceva, el mulero Pedro Lago, attaccante del Peñarol negl’anni Quaranta? Cancellava coi piedi le tracce della sua giocata, così gli avversari non l’avrebbero mai compresa, o copiata.

Noialtri questa furbata del cancellare le tracce l’abbiamo ancora mica capita, ed ogni giorno è tutto un ripetere a memoria gli schemi che c’hanno insegnato..

Come volete che venga, la copia di una copia di una copia di una copia?

Sbiadita.

Magari un giorno la smetteremo con gl’impianti metaforici, tutti uguali l’uno all’altro: che poi le allegorie che mescolano calcio, vita e politica, a voler fare una ròba diversa, vengon bene pure coi formaggi, dopotutto.

[La Repubblica ha incaricato Demos di compiere questo studio qua. Che non ci spiega nulla delle preferenze calcistiche, eppure fotografa appieno il nostro bel paese. Ch’è pure il nome d’un formaggio, infatti).

Fabrizio Gabrielli

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