La critica tra comunità e consorterie

Queste riflessioni nascono a margine dell’articolo intitolato “Per la critica”, firmato da Fausto Curi e pubblicato sul numero 2 della rivista Alfabeta2.

Nonostante si parli costantemente di crisi (intesa come penuria) della critica e della cultura, il nostro paese riesce lo stesso da anni ad alimentare un sottobosco ricchissimo di stimoli e di esperienze diverse, che con l’avvento di internet ha visto moltiplicarsi i canali attraverso i quali raggiungere non soltanto il proprio pubblico, ma anche chi opera negli stessi contesti, con la possibilità di articolare dei percorsi fino a pochi anni fa impensabili. Eppure, ciclicamente, nel nostro paese si sprecano i discorsi apocalittici sulla morte della letteratura o del cinema, tanto per fare un esempio, salvo poi verificare che queste parole vengono da chi, forse, non fa fino in fondo il proprio dovere, e si limita a scorgere una superficie (per quanto materia importantissima, visto che è quella che muove il mercato e che dunque non può certo sfuggire all’analisi degli addetti ai lavori) usata spesso come esempio per giustificare il predominio della quantità sulla qualità. E allora, se non sono i critici a scovare la “novità” (che, come vedremo, Fausto Curi, elenca tra i criteri senza i quali non si dà vera attività critica), il compito passa agli scrittori stessi, che proprio in rete hanno trovato un nuovo canale per far circolare i propri lavori – molto spesso attraverso forme paratestuali, che accompagnano e prolungano l’opera, aprendola al confronto diretto con i propri lettori (ancora più precisamente, quindi, tramite la proliferazione di epitesti autoriali, e a maggior ragione con l’avvento dei social network).

Fatte queste dovute precisazioni, mi pare di poter concordare con alcune premesse contenute nell’articolo di Fausto Curi, dove si parla appunto di una crisi della critica come effetto di una crisi della società (nella fattispecie quella italiana, è ovvio) e in cui si precisa

  1. che “non è il critico che conta, è la critica importante”;
  2. che “senza distinzione non si dà critica”;
  3. che “la critica è sempre di parte e soggettiva”;
  4. che è “la novità ciò di cui la critica deve andare in cerca”, ma sempre tenendo conto che “nelle arti la tradizione conta sempre, anche quando là si respinge, anche quando si crede di ignorarla”.

A lasciarmi perplesso, invece, sono piuttosto le conclusioni indicate nello stesso articolo.

Per Fausto Curi la critica si sarebbe spenta perché è venuta meno quella “battaglia letteraria” che ha caratterizzato “la cultura militante italiana negli anni Cinquanta e Sessanta”, ovvero perché è venuto a mancare “un dinamico rapporto fra la letteratura e la società”. Eppure, a giudicare dagli ultimi dibattiti (penso ad esempio al “caso Saviano” o al “caso Mondadori”, per non parlare del fiume d’interventi scatenato dall’uscita del saggio New Italian Epic di Wu Ming, o degli articoli seguiti alle proiezioni del documentario Senza scrittori di Andrea Cortellessa), sembrerebbe che a tutt’oggi non si possa parlare di una mancanza di partigianeria, anzi. Il problema della critica (non di tutta, ma di gran parte) mi sembra che consista piuttosto nella sforzo di evitare una “giusta misura”, nel vizio di prendere delle scorciatoie che hanno più a che vedere col sistema delle consorterie che col criterio di soggettività.

Tanto per cominciare, direi che si possono distinguere due tipi di critici che vanno per la maggiore: quello che per farsi notare stronca un’opera per principio, e quello che per non farsi nemici parla bene indistintamente di tutti gli autori (e questa regola direi che è valida in generale, non soltanto per l’ambito letterario a cui si riferisce Fausto Curi). Sono due modi speculari di farsi pubblicità, di rimanere per così dire “in vista” in una giungla intricata qual è quella del mondo editoriale, dove spesso l’opera diventa un presupposto per parlare di se stessi. Entrambi questi tipi di critici tendono di conseguenza a fare sempre i soliti nomi, quelli che ad attaccarli o a difenderli ne viene sempre qualcosa, per se stessi e per la consorteria alla quale essi appartengono. Si potrebbe definirla una critica a rotazione rapida, al pari dei libri sugli scaffali dei megastore, dietro ai quali si affretta a correre proseguendo per generalizzazioni. Se infatti andiamo a verificare, nella disamina della situazione letteraria si procede volentieri in astratto, anche quando abbiamo a che fare con quella critica che si autodefinisce più engagé. D’altronde, è lo stesso Curi a darcene un buon esempio quando c’informa che “cresce paurosamente il numero di coloro che scrivono versi” e che “la poesia abita ormai le piazze, non in senso metaforico, giacché non si contano le manifestazioni in cui poeti diversissimi l’uno dall’altro, di fatto uniformi, recitano in piazza i loro versi”. Ma a quali manifestazioni e a quali autori qui ci si riferisca, non ci è dato saperlo, né vengono fatti esempi dei tanti tentativi di portare la poesia e la letteratura in generale nelle piazze o in altri luoghi diversi dalle librerie: poiché qua c’è sì in gioco da una parte il rischio di ridurre il pubblico a una massa indistinta, ma dall’altra c’è il tentativo di conquistare degli spazi strategici, dove far vivere la parola scritta attraverso il confronto fra chi scrive e chi, ascoltando, viene magari invogliato anche a leggere – e qua gli esempi da fare, diversissimi per intenti e modalità dalle grandi manifestazioni a cui si riferisce con ogni probabilità Fausto Curi, sarebbero tantissimi.

Fatte salve queste precisazioni, mi sembra di poter dire che la critica più viva si ritrovi oggi proprio sul web, un mezzo che chi scrive su riviste e quotidiani vari ha snobbato per anni, per poi affrettarsi nel tentativo di colonizzarlo, ma senza sforzarsi di cambiare le proprie strategie e i propri regimi discorsivi. La rete, se si evita la dicotomia fittizia virtuale/reale, è un modello in grado di attivare un circolo virtuoso, le cui dinamiche funzionano tanto sul web quanto al suo esterno, e la cui finalità è in primo luogo quella di fare comunità. Non a caso, ai tempi di internet gli scrittori hanno ritrovato non soltanto un rapporto più diretto con il loro pubblico (che prende corpo, con modalità diverse, nei blog e negli incontri pubblici) ma anche un terreno di confronto tra loro stessi, chiamati di conseguenza a svolgere anche quella funzione critica che per Fausto Curi è “radicata in un obbligo sociale”, quello “di non lasciare soli, o, peggio, in preda al mercato, che ha tutto l’interesse a conservare quella solitudine, migliaia di lettori e di ascoltatori”. È in questa intersezione tra scrittori e lettori, mi pare, che si possano appunto ritrovare quei significati che appartengono alla radice comune di crisi e di critica, intese come movimento votato alla trasformazione. Una trasformazione, in ultima analisi, che la critica più tradizionale sembra rifiutarsi di voler vedere, e che è causa della sua stessa crisi, della sua incapacità di riflettere su se stessa e di darsi un programma, presa com’è nello sforzo di difendere con le unghie i propri territori, sempre più iperuranici, dai quali parlare e pontificare.

Simone Ghelli

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19 Responses to La critica tra comunità e consorterie

  1. flaviopintarelli says:

    Condivido in pieno la riflessione che mi sembra centrare quello che è un punto cruciale del rapporto tra società e tecnologie, rapporto che è centrale in ogni fase storica di trasformazione. Ricostruire l’idea di comunità (che sia sociale, artistica o politica poco cambia) dovrebbe essere l’obiettivo di una classe di lavoratori della conoscenza che si è formata con la rete, laddove esperienze e pratiche comunitarie sono state ampiamente sperimentate.
    Penso tu colga nel segno quando sottolinei la necessità, per chi si muove in rete, di riflettere sui propri linguaggi. La critica è anche, sempre, metalinguaggio, se questo livello di riflessione manca, ogni operazione è destinata a fallire. In Italia, a mio avviso, siamo ancora abbastanza indietro da questo punto di vista, in quanto nei confronti dei mezzi di comunicazione l’atteggiamento degli intellettuali è ancora abbastanza ambiguo, oscillante tra la condanna sistematica e l’adesione fin troppo entusiastica.

  2. pier paolo di mino says:

    hai aperto un bel lavoro, che, spero, svilupperai. Mi dai queste suggestioni da prima colazione, che ti butto là non so perché:
    mi piacerebbe, dopo il terzo caffè, una riflessione sul fatto che non parleremmo di consorterie lì dove degli int…ellettuali si riuniscano attorno a un’idea o uno spirito per elaborarlo, giocarci, difenderlo, promuoverlo. Purtroppo l’arte è sentita come una forma di auto-espressione che confina con un bisogno psico-patologico; la sua realizzazione è un’affermazione di potere. Le consorterie sono partiti in cui ognuno cerca di emergere. Una volta uno scrittore sapeva che “un grande poema lo fa un grande lettore”; il critico serviva per fare il grande lettore. Scrittore, lettore e critico erano gli oggetti interinali che passavano attorno all’opera per farla esistere. vado a prendere il terzo caffè.

  3. @Flavio: sì, sembra strano a dirsi ancora oggi, ma ogni volta che appare un nuovo medium si creano subito le fazioni pro e contro, che anziché riflettere seriamente sul funzionamento e le potenzialità dello stesso, si arroccano su discorsi viziati a monte dall’ideologia…

  4. @Pier Paolo: condivido in pieno, e la cosa paradossale è che si vede la pagliuzza e non l’occhio… i lettori ci sarebbero, ma il problema è che non sono come li si vorrebbero, già belli che pronti ad accogliere le nostre idee, e allora si tenta di dipingerli come in balia di se stessi… comunque sì, mi piacerebbe continuare a sviluppare il discorso 😉

  5. flaviopintarelli says:

    @simone: interessante quello che dici. Bisognerebbe allora chiedersi a partire da quali strumenti teorici ed interpretativi si forma questo atteggiamento di chiusura, in base a cui ci si crea un’idea di pubblico preformata, distante dalla realtà.

  6. Antonio Romano says:

    il problema (che mi piacerebbe tu allargassi, caro simone) è anche che la critica fungeva, prima, da filtro in un mondo fortemente diviso (classi, partiti, etiche, etc.). consigliava ai membri di una certa tribù incastonata in una certa società a che fonte abbeverarsi.

    ma oggi, in un mondo liquido dove siamo tutti organismi del fluido della globalità, il filtro a cosa dovrebbe servire? e dove dovrebbe essere?

    ho l’impressione che, se ieri i critici erano gli aspirapolvere che lasciavano il salotto pulito, oggi siano aspirapolvere a zonzo sulla spiaggia.

  7. @Antonio: secondo me oggi il filtro lo fa direttamente il marketing… volando più basso, la critica potrebbe ancora svolgere una funzione per così dire pedagogica, fornendoci degli strumenti per leggere l’opera, ma per fare questo dovrebbe mettersi in testa di ripartire dall’abc, di essere rendersi comprensibile ai più senza diventare “facile”…

  8. @Flavio: penso innanzitutto che un pubblico “preconfezionato” faccia comodo a molti, poiché giustifica a priori le teorie che si vogliono dimostrare. Anche qui, la differenza tra scrittore e critico sta nel fatto che il primo fa leggere veramente il proprio lavoro per ricevere dei feedback (durante la stesura e dopo) mentre il secondo mi sembra che finisca spesso per fabbricarsene una tipologia ad hoc, che magari ha conosciuto in una determinata situazione, e che applica all’insieme… non so se mi sono spiegato..

  9. Luca Giudici says:

    Mi interessa molto, e trovo assolutamente aderente al vero, la concezione di un pubblico preformato. Il rapporto tra editore/scrittore/lettore è analogo a quello esistente tra spettatore/medium televisivo, dove l’annientamento di ogni intensità, di ogni profondità ha impedito un uso radicale, che invece è assolutamente possibile. Un processo analogo lo si vede nell’editoria: che riempie gli autogrill d’italia con colline dell’ultimo romanzo di Ken Follet, o di chi per lui. Il pubblico principalmente si adegua, e legge ciò che trova al supermercato. la rete in questo senso – come ben sappiamo – offre gli strumenti per raggiungere numeri di utenti/potenziali lettori che altrimenti sarebbero impossibili da ottenere. Sono convinto che questa sia solo la prima fase di una transizione epocale, dove avrà un ruolo decisivo e-book. Immmagino che in tempi molto brevi avremo un I-Tunes letterario, con i capitoli a 99 cent.
    Twitter, gli sms, aforismi, epitaffi della letteratura. Tutto scivola, senza affondare mai. Si resta a galla. Inquietante.

  10. flaviopintarelli says:

    @simone: magari mi sbaglio, ma la mia impressione è che “preconfezionare” un pubblico faccia comodo per poter mantenere una posizione di potere. Il critico che agisce in questo modo oblitera le pratiche reali per potersi proporre come garante unico di una supposta qualità artistica (letterarietà, cinematograficità, artisticità, ecc.). Ma così facendo la critica come pratica di lettura del mondo perde completamente di senso, perché si allontana proprio dal mondo di cui dovrebbe restituire la fisionomia a partire dalla riflessione sul testo e la sua fruizione.

  11. @Flavio: è esattamente come dici tu, ma ogni volta che emerge questa perplessità, si ricorre al criterio della “soggettività”, che è senz’altro una caratteristica della critica, ma che ne sarebbe se ad esempio grazie a internet si passasse invece a una comunità di soggetti? Esattamente che alcune “soggettività” perderebbero parte del proprio potere…

  12. @Luca: penso anch’io che ci troviamo agli albori di una rivoluzione epocale, ed è naturale che istintivamente si tenda ad aggrapparci a ciò che già conosciamo, a ciò che ci dà sicurezza… nella nostra epoca, che in questo senso è di transizione (libro ed ebook convivranno insieme per anni), possiamo solo azzardare previsioni su come si modificheranno le abitudini di scrittori, lettori e critici… e sicuramente la rete avrà un ruolo da protagonista in tutto ciò…

  13. flaviopintarelli says:

    Quoto luca: “Il rapporto tra editore/scrittore/lettore è analogo a quello esistente tra spettatore/medium televisivo, dove l’annientamento di ogni intensità, di ogni profondità ha impedito un uso radicale, che invece è assolutamente possibile.”
    Credo che lo sia solo in parte, nel senso che in ambito letterario vi sono libertà molto più ampie di sperimentazione linguistica e possibilità di fruizione, mentre quello televisivo è un dispositivo molto più “coercitivo” in entrambi i sensi. Per dirla alla deleuziana, il dispositivo letterario presenta molte più linee di fuga rispetto a quello televisivo. Certo è che si assiste ad una convergenza tra i due dispositivi le cui conseguenze sono quelle che che Luca tratteggia (omologazione, preformazione, “palinsestizzazione”).

  14. @Flavio: il dispositivo letterario ha senz’altro più “falle” di quello televisivo, e prima dell’avvento di internet spettava sicuramente al critico il compito di allargarle. Oggi questo compito può invece essere portato avanti anche dallo scrittore stesso, e non solo… anche da un pubblico molto variegato e con competenze diverse che svolge direttamente funzioni che prima competevano esclusivamente alla critica.
    Di questa cosa ne ha parlato anche Gianluigi Ricuperati sul Sole 24 ore, ripreso sul blog di Minima & Moralia oggi: http://www.minimaetmoralia.it/?p=2984

  15. flaviopintarelli says:

    Si tratta, sintetizzando brutalmente, di riconoscere un valore “all’intelligenza collettiva” espressa dai singoli soggetti, mentre troppo spesso la si tratta da “ignoranza collettiva” e si finisce col buttare via il bambino con l’acqua sporca.

  16. sì flavio, credo sia più facile buttare via direttamente l’acqua con tutto quanto ci sta dentro…

  17. Luca Giudici says:

    ” il dispositivo letterario presenta molte più linee di fuga rispetto a quello televisivo”. Questo vale se pensi alla letteratura cosidetta ‘alta’, che in realtà però è un oggetto che non è mai esistito, perchè anche i grandi testi sono nati come letteratura popolare, o a fini ludici, o di esaltazione di quel potente o quell’altro. La letteratura nata con fini ‘letterari’ come sappiamo è molto rara, e secondo me solo in quei casi si aprono quelle linee di fuga di cui parli. Altrimenti secondo me non siamo lontani dal medium visivo in quanto trasmissione di contenuti.

  18. @Luca: io non credo che sia il fine del medium a determinarne la maggiore o minore “coercizione”. Ogni mezzo può essere reazionario o rivoluzionario, ma è dagli sviluppi, dalle pieghe che prende che possiamo calcolarne l’attitudine ad essere più o meno “piegato”… Oggi, ad esempio, si può davvero ancora parlare di una dicotomia tra letteratura “alta” e “bassa”? Se pensiamo alle possibilità di fruizione, che sono aumentate notevolmente, direi che la letteratura si è “abbassata” in generale, mentre se parliamo del numero degli scrittori (diciamo quelli in grado di scrivere un buon romanzo, non dico un capolavoro) potremmo affermare che invece si è “alzata” in generale…

  19. Massimo Vaj says:

    Da quando ho smesso di criticare il Padreterno ho scoperto che la critica è funzionale al tentativo di ovviare alle proprie mancanze. Siamo tutti dei critici perché ognuno di noi è imperfetto, e il criticare lo sottolinea.
    In questo annaspare dell’umanità, nel flusso di forze che la spinge verso un abisso dove tutto sarà ricomposto, a casaccio e per gravità, nessuno dovrebbe ignorare che solo l’essere santi e saggi esime dal dover criticare gli altri, eppure… eppure io, con questo commento, sto criticando non volendolo. Che fregatura essere santi senza volerlo.

    Che senso ha esprimere critiche quando si sta dalla parte sbagliata di un fucile?
    Il fucile è la consapevolezza.
    Consapevolezza di che?
    Dei princìpi universali che legiferano il tutto.

    Un matematico potrebbe chiamarsi tale senza conoscere il valore, qualitativo e simbolico e, perché no, anche quantitativo dei numeri?
    Potrebbe risolvere calcoli senza la consapevolezza dei princìpi del calcolo?
    Sarebbe in grado di criticare i calcoli errati altrui senza sapere risolvere i propri?
    Ecco risolto l’arcano: conoscere i princìpi universali consente di criticare chi, pur non conoscendone la natura, calcola.
    Calcola e critica.
    Così come la paura di sbagliare irrigidisce e crea condizioni che favoriscono l’errore, il criticare senza conoscere porterà disgrazie a chi pensa che la consapevolezza non sia una possibilità spirituale dell’umano essere.

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