L’uomo che non aveva nulla da dire (parte prima)

Omaggio ad Achille Campanile

 

Il rapido di mezzogiorno per Napoli sarebbe partito con estremo ritardo. Questa volta, però, il disguido non era dovuto ai consueti guasti tecnici o ai più rari ma non meno drammatici suicidi sui binari; il capotreno, infatti, si era persuaso a dover attendere ancora dodici ore per la partenza, dato che il suo orologio segnava ostinatamente la mezzanotte, contrariamente a quanto indicavano gli altri orologi dislocati in lungo e in largo nella stazione.

I passeggeri iniziarono vivamente a protestare con quel buffo omino in verde il quale, dopo un violento alterco con alcuni signori dall’accento marcatamente settentrionale, abbassò la fronte madida di sudore e ammise: «Signori, forse avete ragione, ma questo orologio è aziendale. Se non seguo gli orari che indica posso esser licenziato. Io ho famiglia, capite… Voi che fareste al posto mio?»

A quel punto i viaggiatori compresero le ragioni dell’inopinata sudorazione del macchinista e non proseguirono oltre coi reclami, ma giacché erano giunti in stazione pensarono bene di trascorrere l’attesa nel treno rallegrandosi del fatto che il ritardo avrebbe concesso loro di intrattenere brillanti e piacevoli conversazioni, diversamente da come accade di solito in questi convogli superveloci, che non danno il tempo ai passeggeri di rompere il ghiaccio e conoscersi un poco. Tuttavia il disagio della partenza posticipata convinse i viaggiatori ad inscenare una sacrosanta protesta: di comune accordo tutti decisero di andare in barba all’obbligo di occupare i posti precedentemente prenotati e si accomodarono esclusivamente nelle carrozze cinque e sei, cosicché i restanti vagoni rimasero interamente vuoti mentre al centro il treno appariva oltremodo sovraccarico, con gli stessi passeggeri pressati nei corridoi e negli scompartimenti intenti a scambiarsi cordiali saluti e sonori ceffoni per farsi largo.

Ma veniamo, cari lettori, al protagonista di questa storia. Appena effettuate le suddette operazioni di salita sul treno, un giovine di bell’aspetto giunse correndo verso il binario: «Aspettate! Aspettate» gridò sventolando in aria il biglietto mentre si faceva largo alla bene e meglio fra la folla variopinta che solitamente colora le grandi stazioni. Per dir la verità, quel giorno la stazione era semideserta in quanto i sindacati nazionali avevano indetto lo sciopero generale delle folle, raccogliendo un inaspettato consenso e un’adesione fra i lavoratori di quel settore che sfiorava, secondo i notiziari del giorno, l’ottanta percento. Il giovine, dunque, non incontrava nessun reale impedimento nel raggiungere il binario e tuttavia così dava a intendere la sua affannosa e alquanto sgraziata corsa.

Salito sulla carrozza cinque, il ragazzo di nome Alfredo (si chiamava in realtà Alvaro, ma vi pare che Alvaro possa essere nome degno di un racconto?), dopo aver educatamente assestato diverse pedate nell’intento di avanzare fra i passeggeri, scorse uno scompartimento insolitamente ordinato, in cui sedevano soltanto tre persone. Con un guizzo davvero ammirevole, vi si infilò occupando il quarto sedile ancora vuoto: «È libero?» chiese agli altri passeggeri, i quali si guardarono con fare interrogativo fra di loro per poi annuire al nuovo arrivato.

«Bene, benissimo; sono stato fortunato a trovare questo posto».

«Già, » fece l’anziano e distinto signore che gli sedeva accanto, dal lato del finestrino.

Il giovinotto sorrise e intanto guardava gli altri compagni di scompartimento. Di fronte a lui c’era un ragazzotto sulla trentina con lo sguardo abbassato e pensieroso che teneva al fianco una voluminosa e attempata borsa a tracolla. Accanto al ragazzo era seduta una giovane donna con dei lunghissimi capelli biondi tirati indietro e legati; era vestita da cavallerizza con tanto di stivali di cuoio e frustino sotto il braccio.

«Permettete?» fece Alfredo, «mi chiamo Alfredo de Robertis e di professione mi occupo di intavolare discussioni con sconosciuti in quelli che un celebre filosofo francese ha definito “non luoghi”, ovvero sale d’attesa di studi medici, ascensori, mezzi di trasporto pubblici, ecc Non appena ho saputo del ritardo biblico di questo treno mi sono precipitato per adempiere al mio dovere, ed eccomi qui a parlare con voi».

«E chi la paga per un simile mestiere?» disse il vecchio al suo fianco.

«Oh, le persone che intrattengo se gradiscono la conversazione,» rispose Alfredo

«Le do un milione per stare zitto!»

«Mi spiace signore ma non posso accettare».

«E perché?»

«Perché è contro la deontologia professionale di noi conversatori. Siamo gente seria, noi, cosa crede?!»

«Piuttosto lei mi sembra un imbecille».

«Ne ho visti a bizzeffe di scettici e burberi come lei in tanti anni di servizio… Che ne dice di presentarsi invece di offendere, dato che ne deve passare di tempo prima di partire!»

«In effetti…» disse il vecchio abbandonando il suo cipiglio diffidente: «Va bene… Piacere, io sono Cosimo Furbetti, faccio l’imprenditore».

«Ottimo,» esultò Alfredo stringendo la mano al signore, «e in che settore opera?»

«Beh, vede, è un po’ complicato,» fece Cosimo grattandosi i capelli grigi sotto la tuba, «le mie aziende realizzano… contenitori! Non so se mi spiego»

«Che tipo di contenitori?» chiese il giovane mostrando una professionalissima curiosità.

«Di tutti i tipi. Contenitori per cibi, bevande, oggetti di tutte le dimensioni, perfino contenitori per mezzi di trasporto…»

«Addirittura?!»

«Certo! Io stesso ho brevettato una custodia per automobili, comoda per proteggere la propria vettura durante i viaggi. Ma ne abbiamo anche di più grandi, per i treni o le navi, senza contare che gli aeroporti ci commissionano ogni anno decine di contenitori per i loro hangar… Le dirò di più, anche se non dovrei per non fornire vantaggi alla concorrenza… il governo ci ha commissionato un contenitore per il Colosseo, mentre il comune di New York ci ha chiesto dei contenitori su misura per coprire i loro grattacieli più rinomati».

«Davvero?!» fece Alfredo seriamente impressionato: «Mi sembra di capire che il vostro è un settore che non conosce crisi!»

«Beh, la crisi c’è eccome!» arguì il vecchio affilandosi i baffi grigi, «Ma noi siamo imprenditori intelligenti, sappiamo inventare nuovi prodotti appetibili per il mercato. Ma non mi faccia dire oltre…»

«La prego, si sbilanci! Con me può parlare; noi conversatori siamo vincolati al segreto professionale e non possiamo spifferare in giro le confessioni dei nostri clienti!»

«Ah, non lo sapevo,» fece Cosimo, «scusi la diffidenza ma noi dobbiamo guardarci dai pericoli dello spionaggio industriale. D’altra parte abbiamo investito milioni nella progettazione e ideazione di questo nuovo importante prodotto che ci rilancerà a livello internazionale…»

«Ossia?»

«Stiamo per immettere sul mercato… scusi l’emozione, ma è davvero una cosa di cui essere orgogliosi…»

«Ma si figuri. Allora?»

«Stiamo per lanciare un prodotto rivoluzionario: il contenitore di contenitori!»

«Wow!» fece Alfredo seriamente sbigottito «Ma è assolutamente geniale».

«Già!» rispose il vecchio senza alcuna modestia. «Non ci ha ancora pensato nessuno… ne venderemo a iosa e faremo un bel po’ di quattrini, può starne certo!»

«Lo credo bene! Beh, che dire? Congratulazioni».

 

Leonardo Battisti

La seconda parte di questo racconto verrà pubblicata sabato 19 febbraio.

Le incredibili iconoclastie di Bondi e dell’SVP*

L’atteggiamento stupito, indignato, offeso di fronte al triste spettacolo che la politica italiana mette in scena oramai quotidianamente agli occhi di tutto il corpo sociale è un atteggiamento che risulta, al punto a cui si è arrivati, liso, inadeguato, usurato.

Eppure, ogni giorno siamo qui a commentare lo spettacolo, critici severi e implacabili di quel naufragio sociale e culturale in cui siamo coinvolti tutti, orchestrine danzanti sul Titanic che affonda. Mercoledì 26 gennaio 2011 è stato il giorno di Sandro Bondi, confermato ministro da una risicata maggioranza. Tra i parlamentari che hanno contribuito al salvataggio del vate toscano vi sono anche i rappresentanti del principale partito di raccolta tedesco dell’Alto Adige, la SVP, i quali si sono astenuti dalla votazione.

Suona strano se si considera che proprio in Alto Adige la suddetta SVP governa provincia e capoluogo provinciale grazie a coalizioni con il Partito Democratico e i rimasugli di quella che un tempo fu la sinistra. Suona ancora più strano se si considera che, non molto tempo fa, l’Obmann Richard Theiner aveva dichiarato che: «sarebbe assurdo votare per un ministro che con il dispendioso restauro del Monumento alla Vittoria di Bolzano si è giocato ogni simpatia».

Cosa è dunque successo nel frattempo? Molto semplice: una compravendita, una regolare transazione d’affari tra uomini politici. In cambio dell’astensione dei deputati Zeller e Brugger, Bondi si è impegnato a garantire la rimozione di alcuni bassorilievi di epoca fascista dalle facciate di alcuni edifici pubblici. Mettiamola giù in questo modo: un ministro dei Beni Culturali (?), in cambio della sua salvezza politica, si impegna a demolire un’opera d’arte (fascista ma pur sempre opera d’arte) in una città dove la destra italiana, che con i suoi voti ha contribuito a far eleggere questo governo, guarda a quel preciso periodo della storia d’Italia come al momento fondativo dell’identità italiana bolzanina in contrapposizione a quella tedesca. Sembra Achille Campanile, ma è la realtà. Non staremo qui a perdere troppo tempo lamentandoci della perdita dei valori della politica, dello scempio di una vita pubblica che oramai si basa più sul commercio che sulle idee, perché ripeteremmo una trita e snervante tiritera.

Quello su ci interessa riflettere è il senso e le conseguenze della rimozione violenta di un elemento architettonico che è anche un documento della storia cittadina. Pur non condividendo i valori e l’esperienza storica e politica che il Fascismo ha rappresentato per l’Italia e per il mondo intero, chi scrive è convinto che la rimozione di un monumento, la sua distruzione, sia un atto violento e pericoloso. Violento perché le opere d’arte vivono, parlano e comunicano a partire dal proprio contesto, dalle interazioni che esse stabiliscono con l’ambiente circostante. Spesso la musealizzazione di esse ne determina la morte o la mummificazione come testimoniano i fregi del Partenone esposti al British Museum, o le straordinarie architetture esposte nel museo di Pergamo a Berlino. Tombe lucenti, sicure, protette, ma pur sempre tombe che sottraggono le opere d’arte alla loro vita ed all’inesorabile scorrere del tempo. Lo sapeva bene Niccolò Rasmo, celebre storico dell’arte altoatesino, che durante il periodo delle Opzioni (1939-1940) si oppose allo smembramento del patrimonio artistico sudtirolese, conscio che, strappato dal suo ambiente, questo sarebbe morto cancellando le tracce di un passato in cui l’identità italiana e quella tedesca si erano mescolate con armonia e ricchezza, come sempre avviene nei pressi dei confini, siano essi fisici o culturali. I confini che, come il semiologo russo Lotman ha dimostrato ampiamente, sono sempre luogo di scambio, comunicazione, ibridazione tra le semiosfere.

Come ha mostrato il filosofo francese Paul Ricoeur, esistono molti tipi di memorie: ad uno di questi, la memoria monumentale e statica della retorica di Stato, una memoria che cala dall’alto e nasconde i punti oscuri della Storia sotto la sua coltre, si deve opporre una memoria leggera, volatile, critica. Una memoria che non cessi mai di porsi domande e di mettere in discussione l’immagine della Storia che la retorica di Stato costruisce per nascondere le proprie responsabilità.

La rimozione dei bassorilievi di Piazza Tribunale non farà altro che dare più forza alla memoria velenosa del Fascismo, attizzerà un sentimento revanscista. A quel punto l’estrema destra italiana si sentirà in dovere di vendicarsi, e si aprirà una spirale di ripicche e piccole vendette, che è l’anticamera della violenza.

È già accaduto con la rimozione della memoria delle Foibe, un avvenimento accaduto in circostanze storiche precise, su cui la destra italiana ha costruito il proprio discorso identitario e nel contempo ha eroso la memoria della Resistenza come mito fondativo della Repubblica italiana. Le foibe sono diventate così un simbolo ed un monstre storico del tutto svincolato dalla reale portata dei fatti, come le recenti ricerche di Claudia Cerignol hanno dimostrato.

Ma soprattutto, la rimozione di quelle sculture priverà la cultura critica di un oggetto concreto d’analisi, di un monito per le generazioni future. I simboli sono importanti perché possono essere interrogati, perché chi possiede una coscienza ed una cultura critica ne può affrontare il discorso, a volte essendone complice, altre volte essendone antagonista. L’atteggiamento iconoclasta che dice «chi difende il bassorilievo è a favore del Duce, ergo fascista» deve essere rifiutato, esso impone al ragionamento l’inaccettabile cornice concettuale del «o con noi o contro di noi», che sta alla base di ogni mortificazione della vita democratica. L’ha ripetuta G.W.Bush dopo l’11 settembre, la ripetevano i Talebani che bombardarono le statue del Buddha nella valle di Bamiyan, la ripetevano i nazisti che bruciavano i libri nella tetra scenografia allestita da Goebbels.

Nella Storia nessuno è vergine, ma se, partendo da questo assunto, dovessimo cancellare i simboli e le vestigia del passato perderemmo fatalmente la possibilità di ricordarne le catastrofi, le stragi e i lutti.

Auschwitz fu costruito dal nazismo e ne testimonia la follia e la violenza, non dovrebbe dunque essere abbattuto? E la Colonna Traiana, simbolo della sottomissione di molti popoli all’Impero Romano, non è forse il segno di un’oppressione brutale e violenta? È questa assurda logica che la politica impone al buon senso, a cui noi, oggi, ci vogliamo opporre.

 

Flavio Pintarelli

*Contributo apparso originariamente sul blog La rotta per Itaca.