Cari cittadini di Tebe

Cari cittadini di Tebe, io Edipo, vostro Re, ho saputo che un morbo ha portato in città l’ira di Apollo per la morte di Laio, e che il morbo durerà finché il colpevole non sarà punito: così l’Oracolo ha detto a Creonte. Ho udito le vostre grida e visto il vostro dolore, ho visto le pire e le fiamme bruciare i vostri cari nella speranza di limitare l’ira divina. Vedo i vostri corpi denutriti e sofferenti, poiché i raccolti sono distrutti e le mandrie muoiono senza che nulla possa salvarle, e io con voi e per voi soffro, cari cittadini di Tebe, perché vi amo come un padre ama i figli suoi.
Cari cittadini di Tebe, state tranquilli, so chi ha ucciso Laio, e il colpevole è proprio in quest’adunanza. Non c’è bisogno di chiamare Tiresia: non è lui ad aver sconfitto la Sfinge, ricordate? Lasciamolo dunque al suo flauto. Oggi gli Dei chiedono la soluzione di un altro enigma, e anche questa volta io vedo la soluzione, e la soluzione offro a voi, poiché io sono il vostro Re e, come ogni buon Re, io amo coloro sulle cui teste chinate lo sguardo mio si posa.
Cari cittadini di Tebe, state tranquilli, poiché il colpevole è sotto gli occhi di tutti, ed è bene che più non s’indugi, poiché nell’indugio cresce l’ira di Febo, e morbo e carestia più veloci si diffondono. Dunque ora, per la vostra salvezza, vi dirò cosa che da voi è taciuta, ma non ignota: so per quali vie furtive si sparge il sussurro della verità tra di voi, di bocca in orecchio, di vicolo in vicolo, e so come questo sussurro divenga molte voci, perciò non permettete alle vostre orecchie di nutrire scandalo per le mie parole solo perché più alta e più solenne è la voce di chi parla.
Sono stato io ad uccidere Laio, che era Re di Tebe quando lo uccisi, ma più di ogni cosa era mio padre. Oh, cari cittadini di Tebe, vi prego, in questo momento così difficile per la città, così difficile per me che sono vostro Re, non cedete nei vostri volti e nei vostri cuori a quello scandalo da cui vi ho messo in guardia! Voi pensate alla Regina, ora, lo so: lo vedo sui vostri volti. Ma voi dovete invece pensare al fato, perché quel che ognuno di voi segretamente nei sogni desidera dalla propria madre, mi è stato predetto dall’Oracolo di Delfi. Merito forse il vostro scandalo per non essermi opposto al fato? Cosa dici, Creonte? Oh, ti prego, taci: interroga Tiresia, se osi dubitare del tuo Re!

Quanti a voi, miei cari cittadini di Tebe, io così tanto vi amo, che per voi ho assunto quelle colpe da cui per tutti questi anni avete distolto lo sguardo. Non è così? Avete forse fatto domande, quando è morto Laio? Avete forse interrogato quel viandante col mio viso e le mie movenze, giunto da poco in città, appena dopo la morte di Laio? O non avete piuttosto serrato le bocche e distolto lo sguardo? Avete forse interrogato a fondo il servo, il testimone che vi ha parlato dei ladroni? O non avete piuttosto voluto credere in cuor vostro che il vento avesse portato via per sempre quei ladroni? O non avete distolto lo sguardo ogni qual volta le gambe del servo hanno tremato in mia presenza, o all’udire il mio nome o quello di Laio? Ma vi capisco, cari cittadini di Tebe, io nella mia benevolenza vi capisco e non vi biasimo, perché voi subito siete stati impegnati a temere la Sfinge, voi siete stati impegnati con quel nemico più letale di morbo e carestie, e non me ne voglia Apollo se oso dirlo, sebbene sia vero. Voi siete stati impegnati con il terrore del buio, col crepuscolo dei vostri occhi, che la Sfinge domandava aperti e rivolti alle ombre. Cari cittadini di Tebe, io sono vostro Re, e per quanto sangue di Laio sia stato in queste mani che le teste dei vostri figli hanno accarezzato, io vi capisco, ma vi dico: era forse così difficile l’enigma della Sfinge? Eppure non è dagli Dei, dagli Oracoli o da Tiresia che ho avuto la risposta: essa mi è arrivata perché avevo visto voi, avevo visto i vostri anziani e i vostri fanciulli. E se non è arrivata dagli Dei, e non è stata loro volontà, allora io sono Re perché voi non avete voluto esserlo, pur potendo, poiché avete distolto lo sguardo dalla risposta, e io no. Vi sia chiaro: non è arrivata dagli Dei perché loro, attraverso la Pizia, mi dissero soltanto che le mie mani del sangue paterno avrei bagnato, e che carne avrei dato a ciò che voi in segreto sognate. Ma anche se fosse arrivata dagli Dei, allora voi capite che io, in quanto uomo, non ho alcuna colpa per essere diventato Re e marito di Giocasta: se fosse altrimenti, cari cittadini di Tebe, come potrei guardarvi negli occhi, mentre pestilenza e carestia incombono su di noi?

Oh, no, Creonte, fermati, dove vai? Non andare a cercare Giocasta… non capisci? Fidati del tuo Re, la mia voce, che reca verità da lei finora taciuta, non ignorata, è arrivata fino alle sue stanze, e nessuna donna che sia madre vuole che il talamo dell’uomo che è figlio e Re stia di fronte all’intera città. Oh, lei sapeva quel che so io, cari cittadini di Tebe, per cui non piangete per la sua decisione: forse l’Oracolo le aveva predetto qualcosa? Non fato, come per il vostro Re, ma scelleratezza fu la sua! Piangete per me, che per volere del fato ho perso entrambi i genitori, e persino la mia sposa! Cari cittadini di Tebe, piangete, piangiamo per tutti noi, poiché gli Dei chiedono tributi anche quando noi non possiamo soddisfarli, e la loro fraudolenta legge ci offende senza che sia possibile trovare riparo all’ingiustizia. Perché se tutti abbiamo ucciso Laio, se sono stati il mio fato e le vostre colpe, come io vi ho dimostrato, allora tutti dovremo essere o esiliati o uccisi. Eppure, nella catastrofe, quella ragione che mi fu amica di fronte alla Sfinge ora è di nuovo qui a soccorrere me e voi. Essa mi interroga e domanda: “davvero pensi che Apollo voglia deserto il suo tempio, e senza offerte?”. Cari cittadini di Tebe, lontano dagli occhi di Apollo, che su miglior spettacolo in Olimpo si posano, e lontano dall’orbo flauto di Tiresia noi dobbiamo trovare una soluzione, e io leggo nei vostri occhi, ora, lo stesso terrore per il crepuscolo cui vi chiamava la Sfinge. No! Voi non dovete temere il crepuscolo, poiché io, ancora una volta ho la soluzione, e la offro a voi! Poiché pende su Tebe la maledizione di Apollo, e solo su Tebe, noi lasceremo deserta Tebe, e deserto il tempio di Apollo. Noi fonderemo una nuova città, dove nostre saranno le leggi, e nostro il sorgere o il tramontare del sole. E allora, quando nostro sarà il sole, più non dovrete temere il crepuscolo, cari cittadini di Tebe, poiché noi saremo il crepuscolo.

Matteo Pascoletti


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3 Responses to Cari cittadini di Tebe

  1. Pingback: Cose precarie (ma pure un po’ in saldo) | Nel mio mestiere o arte scontrosa

  2. bello. c’è la scintilla nietzschiana.al dl lá del bene e del male.il crepuscolo.degli eroi.eroi come cittadini.

  3. matteoplatone says:

    Grazie 😀

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