E comunque, che peccato non poterla raccontare

foto: Asako Narahashi

foto: Asako Narahashi

di Domenico Caringella

È stato come se la capsula di metallo istoriata con gli ideogrammi della compagnia associati alle lettere dell’alfabeto che li spacciano per il mondo occidentale, avesse una specie di singulto, che per noi all’interno si è tradotto in un potentissimo sobbalzo.
Poi la sensazione è stata la stessa che ti sorprende a volte nel dormiveglia, quel piccolo vuoto nel buio che ti fa sembrare che il terreno ti manchi senza preavviso sotto i piedi. Con la differenza che ora del pozzo non si riesce a immaginare un fondo diverso da quello previsto, naturale.
Paura non è lo stato d’animo corretto. È più rabbia, e impotenza; è più non sentirsi pronti, per pensare subito dopo che invece lo si è da sempre.
Sospetto che lei abbia in questo momento pensieri più compatibili con i miei che con quelli della folla deformata e urlante che si agita intorno a noi. E che sia contenta quanto me che ci sia io, uno sconosciuto o quasi, sul sedile accanto al suo, a stringerle la mano, piuttosto che qualcun altro a cui doverla stringere, magari suo figlio se ne ha uno.
La luce bianca del mattino continua a assalire dolcemente i finestrini. Non so perché, ma nella mia incredulità gioca una parte importante il fatto di stare per morire con il sole; non mi pare logico.
E comunque, che peccato non poterla raccontare.
“Non è il peggior modo per andarsene dopotutto” mi sento dirle.
“No. Non lo è” mi risponde lei calma, fissandomi, quasi sorridendo, ironicamente sospesa in una bolla silenziosa che la tiene al riparo dallo strepito dei passeggeri e dal frastuono dell’aereo, che come un corpo inerte risponde al richiamo della terra.

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