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Appunti per un romanzo di formazione su Derby, i derby ed Albione

Non c’è prevedibilità, amico mio, è così che funziona: cinquanta e cinquanta.

Capita da sempre di fronte ad una dicotomia. Di qua dal fiume o di là. Vita o morte. Testa o croce.

Nel calcio, al massimo, c’è il pareggio; ma è un accontentarsi, una debolezza che ha il colore del cielo quando tuona, un pareggio.

Il Conte ed il Capitano non riescono ad accordarsi: facciamo così, dicono, due bigliettini, qua il mio nome, là il tuo. Estraiamo a sorte. Chi vince dà il nome alla gara. Quando srotolano il foglietto prescelto non c’è scritto Captain Bunbury, ma Earl of Derby.

Da quell’anno, è il 1875, la gara più importante del circuito ippico reale britannico è il Derby.

E al Derby s’indossano cappelli delle più svariate fogge, le donne, mentre per gl’uomini è un’assioma: tutti in bombetta. Che infatti come si chiama? Derby hat.

Mi sembrava un cappello doveroso, questo cappello che parla di cappelli. E di derby.

A Sheffield il derby è quello tra United e Wednesday, che sono due tra le squadre più antiche del football d’Albione. Sheffield sta nello Yorkshire e verrebbe facile, pensarlo, eppure non si allevano cani; in compenso si producono ottime birre e robusti manufatti d’acciaio. Tipo spade, coltelli, mazzette da carpentiere, ròbe così. Coltelleria, a volersi incaponire su una categoria merceologica.

I calciatori dello United, anche se non fanno una sciabolata morbida da centrocampo a partita, anche se non inventano giocate taglienti e poche volte infilzano gli avversari in contropiede, nonostante tutto li chiamano “The Blades”, le spade, da sempre. Spade che stanno pure nello stemma: due scimitarre incrociate, sembra la cotta d’arme d’un undici di Abu Dhabi ed invece: di Sheffield.

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