Il piccolo Lupo e il Ponte della Ghisolfa

L’arancione sembra quello della maglia dell’Olanda, mentre il sole si apre il passo tra le nuvole, un po’ scostante. Guardando verso Torino il tramonto affonda nei fumi, screziati dal colore riflesso. Una enorme palla rossa e gialla. Dal Ponte della Ghisolfa, il cui nome è in realtà Cavalcavia Bacula anche se oggi solo gli immigrati lo chiamano così, si sono sempre visti questi tramonti da brivido. Il traffico è continuo, come una nebbia tra i lati della strada. Stando li, con le mani e gli occhi sulla rete metallica di protezione, sembra quasi di tornare all’infanzia e alle ore passate guardando i treni che passano lenti. Oggi come allora, gli zingari si scaldano bruciando copertoni e rami secchi sulla massicciata della ferrovia. Quando frequentavo le medie venivo qui con Rebecca. Lei abitava proprio qui dietro. Suo padre era invalido ed era sempre a casa. Noi bambini ci sentivamo un po’ in soggezione di fronte a quell’uomo, un vecchio ai nostri occhi. Da solo, a casa, senza far nulla, sempre mezzo ubriaco. La mamma di Rebecca invece andava a lavorare, visto che la pensione di invalidità non bastava a crescere una figlia. Forse faceva le pulizie, ma dopo tanti anni non ricordo bene. Era una brava mamma e ci trattava sempre con gentilezza, noi bambini. Io ero di casa con altri due o tre compagni, e i pomeriggi si studiava, si chiacchierava e quando faceva buio non si sapeva che fare. Fino a quando c’era un po’ di luce si cercava di stare in giro, ma da dicembre, fino a febbraio e oltre, dopo le cinque era buio pesto, salvo i lampioni spesso bruciati. Si stava così, da Rebecca. Lei oggi non c’è più, si è uccisa molti anni dopo, quando il marito se ne è andato con un’altra. Ha lasciato due bambini, di cui non ho più saputo nulla. Il padre li ha portati via, in un’altra regione, e i nonni nemmeno li vedono più, o forse a Natale. Oggi forse sono degli adulti, e non ricordano più nulla. Nelle cantine di casa sua, in quegli anni, si trovava la vecchia sede degli anarchici, da cui prendeva nome il circolo: il “Ponte della Ghisolfa”. Noi ragazzini eravamo sempre ben accolti, eravamo le mascotte, e ci davano i cioccolatini. Lì ho imparato a usare un ciclostile, e a comporre i caratteri di stampa. Il rumore era assordante, bisognava riempire tutte le pareti con le scatole delle uova per insonorizzare, altrimenti ci buttavano fuori a calci – o almeno ci provavano, però ogni volta c’era da litigare. Così noi bambini incollavamo le scatole: era divertente, un modo semplice per farci sentire utili a qualcosa. Lì fuori il ponte scendeva piano verso piazzale Lugano, dove c’era la sala corse. Oggi in quel luogo c’è un solarium con annesso un sexy shop. Il sexy shop è utile, perché nella parte della piazza con i giardini ci sono le battone. C’erano anche quarant’anni fa, per quelli che vincevano alle corse e avevano soldi da spendere. C’erano le battone, non i sexy shop, che quelli manco sapevamo cosa fossero, almeno finché, pochi anni dopo, le prime televisioni private non hanno cominciato a mostrare le pubblicità. Tele Reporter con i soft core di mezzanotte; “La bustarella” su Antenna 3 e poi “Colpo Grosso” di Umberto Smaila. La sera, quando uscivo dalla casa di Rebecca era sempre buio, e io, anche se dovevo andare verso piazza Bausan – che sta a sinistra, per chi non conosce la Bovisa – facevo il sottopasso, verso le poste, così che, passando vicino alle battone, magari si sbirciava qualcosa: un seno, un’ombra di pelo. Dipendeva anche da quanto freddo faceva. Dopo il mio furtivo passaggio, e gli sguardi di sottecchi che riuscivo a infiltrare, le ragazze mi ridevano dietro, invitandomi spudoratamente ad andare con loro, ma a quel punto io, rosso per la vergogna, scappavo a gambe levate, per non voltarmi nemmeno indietro. Se camminavo verso destra, imboccavo viale Bodio, dove abitava una mia zia, che faceva la portinaia: che figura se mi avesse visto! Poi c’era la Face-Standard, con gli operai più severi della zona. Non avrei mai potuto farmi vedere con le battone, ne valeva della reputazione. Una volta, alla vigilia di Natale, proprio in una situazione così, non ho guardato bene a destra e a sinistra prima di attraversare la piazza e un tizio mi ha centrato in pieno, facendomi volare dieci metri più in là. Stoico, mi sono rialzato come se non fosse successo nulla, ho chiesto un bicchiere d’acqua e – dichiarando a tutti che stavo benissimo – ho camminato per almeno un chilometro fino a casa, dove poi sono rimasto una settimana a letto con una gamba gonfia come un prosciutto e bluastra per i lividi e le contusioni. L’onore a tredici anni, si sa, è tutto. Ricordo bene quella strada, passo dopo passo, con la gamba che mi faceva un male porco, ma non potevo fare altro che continuare a camminare, andare avanti. Come quella volta che, con Pino, siamo caduti dalla moto – guidavo io.

Oggi, cammino lento sul ponte, tra le auto che sfrecciano, e penso a Lupo, mio figlio che non vuole studiare, e che è testardo e irritante, esattamente come dovevo essere io, un ragazzino incaponito, chiuso come un riccio, ma incapace di usare gli aculei; anzi, non aspetta altro che un sorriso e un abbraccio. Tanto non arrivano. Meglio che lo capisca da ora. Attraverso la piazza, verso via Imbriani, vicino all’edicola dove andavamo a rubare i quotidiani la notte, prima di rientrare a casa, e poi passo vicino alla casa dove allora abitava Cinzia, poi quella di Guido, il palazzo di Cristina, e più avanti – dietro l’angolo – dove abitava Laura, di fronte a Stefano. Lupo mi guarda, quando lo sgrido incazzato, e non parla, e io rivedo me stesso, fino in fondo, e ho una gran paura di quello che gli potrebbe capitare, di ciò che dovrà affrontare domani. Vorrei dargli sicurezza e affetto, ma dicono che dargli severità è meglio, che è un punto fermo, e che così gli insegno a crescere, piuttosto che riempirlo d’amore e affetto. Sarà, ma io alla sua età avrei voluto solo quello, qualcuno che mi abbracciasse stretto, piuttosto che un esempio di vita. Forse si può essere entrambe le cose, magari. Dritto su per quella scala invece abitava Caterina, di cui ero perdutamente innamorato proprio all’età di mio figlio. L’accompagnavo a casa all’uscita da scuola, raddoppiando il cammino per casa mia, e la mattina facevo apposta un giro complicato per incrociarla casualmente. Quando anni dopo ho trovato il coraggio di dirglielo ha riso a crepapelle, e non ha più voluto che la andassi a prendere. Sembra una storia di Fantozzi. In realtà ho sempre avuto abbastanza successo con le ragazze, vista con il senno di poi, anche se allora non mi pareva proprio. A partire dai quattordici anni in poi ho sempre avuto piccole avventure sentimentali, ma non c’ero con la testa, ero sempre perso tra le canne, la politica e la filosofia, gli studi, le letture. Figlio mio, quanto mi assomigli di carattere, spero che alla fine te la caverai come a me, che sono ancora qui a raccontartelo, e soprattutto che ho te a cui pensare.

Il piccolo Lupo mi cammina di fianco, ingrugnito, vittima della più grande delle ingiustizie: l’incomprensione. Per lui, che è nato e vissuto in un’altra città, tutto questo che gli faccio vedere non ha alcun significato. Penso a Umberto, che oggi non abita molto lontano da qui, e ha due ragazzi non molto più grandi di Lupo. Umberto è fuggito dai monti del Trentino per innamorarsi di Renata e della Bovisa, dove abitano ancora oggi. Io invece in Trentino ci sono arrivato. Sento tutti i miei cinquant’anni sulle spalle, uno ormai sa di essere in discesa. È difficile capirlo prima, ma ti scopri in un momento in cui vorresti mettere paletti, avere certezze, sulle persone, sulla vita: scopri che vuoi completare ciò che hai iniziato, perché non sei mica sicuro che avrai ancora tutto quel tempo, e vorresti sapere cosa resterà di te quando te ne sarai andato. Ma questo non lo puoi dire a chi è in piena corsa, come un treno, e nemmeno ci pensa a fermarsi e a invecchiare.

Il sole ribolle, sopra la ferrovia verso Torino. Le macchine continuano a sfrecciare e io cerco di allontanarlo da qui, di spingerlo lentamente verso una zona meno trafficata, verso un posto dove poter parlare. Lentamente, dopo avere svoltato un paio di strade, chiedo a Lupo se adesso gli va di tornare a casa a studiare storia, a leggere che i Sumeri hanno inventato la ruota e i Babilonesi le leggi con Hammurabi. Lui mi guarda, non dice nulla. Cammina sempre un passo indietro, e conosce benissimo le punte delle sue scarpe. Ogni pietra sul marciapiede dissestato è l’occasione per un calcio e una pausa. Infine, dopo minuti di silenzio, senza nemmeno guardarmi, si volta verso il Ponte della Ghisolfa, e parlando nel vuoto, senza nemmeno ricordarsi che sono lì, si chiede: «Chissà dove porta quel treno»

Luca Giudici

18 Responses to Il piccolo Lupo e il Ponte della Ghisolfa

  1. Massimo Vaj says:

    Nella sede degli anarchici del ponte della ghisolfa non c’era nessun ciclostile, non ci sarebbe neanche entrato, visto che era un solo locale rettangolare a scatola di scarpe entrato, una cantina in realtà, che noi anarchici scambiammo, quando ce lo chiesero, con un altro un poco più grande, situato un poco più in là nello stesso corridoio sotto al livello strada, esattamente nel 1969. Come potrei dimenticare quegli anni terrificanti. Allora avevo diciassette anni e già da due militavo nel gruppo vendendo, tra le altre cose che comporta la militanza, il giornale “Umanità Nova” e, in seguito, “A rivista anarchica”. Ci dividevamo tra la sede di via Scaldasole al n° 10, nel quartiere Ticinese, e la sede di piazzale Lugano, mi ricordo fosse a numero 1. Questo scritto è un falso.

  2. Massimo Vaj says:

    Ricordo, in materia di falsi, che sul Corriere della sera comparve un’intervista, secondo il giornalista che diceva di averla fatta, che descriveva minuziosamente l’ambiente della nostra sede, in data 1969, pochi giorni dopo la strage di stato di piazza Fontana del 12 dicembre, ma noi nella data dichiarata dall’intervistatore, non eravamo già più lì perché ci eravamo spostati nell’altro scantinato che aveva caratteristiche diverse da quello descritto dal giornalista del Corriere, il quale dev’esserci stato in altra e precedente occasione. Evitate di cancellare questi miei messaggi come avete preso a fare ultimamente, perché altrimenti m’incazzo. Grazie

  3. Massimo Vaj says:

    Ma secondo voi è credibile che degli anarchici, che al circolo della Ghisolfa ci andavano di sera dopo mangiato, insegnassero a usare il ciclostile a dei bambini che, a quell’ora, sono a nanna? Avevano proprio un cazzo da fare nelle loro riunioni ‘sti poveri anarchici…
    Avete presente, ma sono certo di no, cosa significa usare un ciclostile, a parte la sua illegalità di utilizzo per stampare manifesti e volantini che avevano bisogno di un timbro che li autorizzasse?
    Si devono usare tubetti di inchiostro in pasta da spalmare che dopo due secondi ti trasforma le mani come quelle di un carbonaro e per pulirlo ci vuole l’acido solforico… roba da matti dove può arrivare certa gente per darsi un tono che non avrà mai attraverso l’offendere la verità dei fatti.

  4. Massimo Vaj says:

    Un ciclostile è una macchina grossa e alta tanto da non poter essere utilizzata da un bambino, ed è pure pericolosa. Inoltre tenere un ciclostile in sede avrebbe significato farselo sequestrare alla prima irruzione della polizia. Certo che un ciclostile l’avevamo, ma stava in un altro luogo che dire dove ha meno senso che non dirlo. In quegli oscuri anni mai un anarchico avrebbe fatto entrare in sede un bambino, perché noi eravamo considerati alla stregua dei mostri. Mi spiace di essermi incazzato di fronte a questo scritto inventato, ma mettetevi nei miei panni e in quelli dei morti innocenti che abbiamo avuto e capirete il perché mi sia così alterato.

  5. lucagiudici says:

    Ciao Massimo, alcune risposte …. 1) intanto questo è un racconto, quindi contiene delle componenti di fantasia, non è un resoconto giornalistico con ambizioni di verosimiglianza. Non è ne vero ne falso: è narrazione. 2) gli anni di cui si parla vanno dal 1967 al 1974. In quegli anni io frequentavo appunto Piazzale Lugano al n° 1 dov’era la sede, e noi bambini spesso incontravamo chi la frequentava, certo non la sera, nal pomeriggio, a volte anche tardo. 3) riguardo al ciclostile non so proprio cosa dirti: io ho questo ricordo, ma potrebbe essere una sovrapposizione mnemonica posteriore. Io ho imparato da bambino / ragazzino, ma potrebbe essere stato in altro luogo. Sinceramente: non mi importa, non mi sembra una questione centrale, 4) Dici che avevi 17 anni, ma quando? nel 1969 ? perchè allora probabilmente ci siamo conosciuti all’epoca, e mi facevi pat-pat in testa 🙂
    Buona giornata !

  6. lucagiudici says:

    Permettimi di aggiungere: la frase sul ciclostile e gli anarchici occupa cinque righe del racconto. Capisco – davvero – che, trattandosi un vissuto personale, sia ciò che ha attrato il tuo interesse. Nell’economia del testo però è davvero abbastanza marginale: è una questione di atmosfera, che chi ha vissuto a Milano in quegli anni ben conosce. Nell’occasione io riflettevo sulla difficoltà di comunicare a mio figlio ciò che ero io alla sua età, e quanto erano differenti i nostri vissuti. Questo – ovvero una relazione genitoriale – avrebbe voluto essere il tema sotteso dal racconto. Non certo – avrei fatto ben altro – una memoria sulla Milano dei primi ’70.

  7. Massimo Vaj says:

    L’intelligenza mi consiglia di chiederti sulla necessità di dire il falso in un racconto avente finalità educativa. È ovvio per chiunque che dove c’è spazio per la falsità la verità non è presente. Non si tratta delle poche righe che la menzogna occupa, ma delle intenzioni reali che hanno motivato la falsità. Ci si dovrebbe aspettare da te il riconoscimento della tua invenzione, non la sua assurda giustificazione. Troppi scrittori sono convinti che la personalità di chi scrive non sia intaccabile da ciò che essa ha scritto, ed è una volgarità che non merita un commento, perché le intenzioni portano con sé, sempre, responsabilità.

  8. lucagiudici says:

    Scusa, io ho detto, e ripeto, che la mia memoria è quella che ho scritto. Ovvero: io ricordo così come ho scritto. Ripeto anche che sono rticordi di un bambino, e per quello che sono vanno letti. Che siano falsi lo dici tu, ed è una cosa assurda. Io non dico nulla di falso: io racconto i miei ricordi, quello che è la mia memoria lo so solo io, non tu. Sei tu che ti preoccupi dell’aderenza dei miei ricordi con il reale. Io non ho questi problemi. Soprattutto perchè il racconto era indirizzato su ben altri percorsi.

  9. Massimo Vaj says:

    Senti, Luca, in quegli anni i ciclostile erano tenuti in luoghi ignorati dalla polizia perché la stampa di manifesti era illegale senza una richiesta di autorizzazione che, per ragioni facili da intuire, non sarebbe stata concessa. Io avevo, in casa dei miei genitori che s’incazzarono moltissimo, un paio di migliaia di manifesti di Valpreda innocente, che affiggevamo la notte attaccandoli con colla preparata con farina e acqua, rischiando mangannellate dai fascisti, nella migliore delle ipotesi. Ora tu, per giustificare le nebulosità di ricordi infantili swcrivi di aver potuto apprendere l’utilizzo del ciclostile, ma non ricordi dove. Come sarebbe a dire che non ricordi dove?

  10. lucagiudici says:

    vabbè senti: me lo sono inventato. Contento? ma non lo capisci proprio che la questione non è se è vero o meno? che questo interessa solo a te? ora scusa ma ho di (molto) meglio da fare che seguirti per un percorso che proprio non mi riguarda ne interessa.

  11. El_Pinta says:

    Luca, ha ragione Massimo…il Piccolo Principe non è mai esistito e Pinocchio non è stato mai arrestato dai Carabinieri, erano giandarmi del Granduca di Toscana vestiti con uniformi dei Regi Carabinieri piemontesi fornite al Granduca in merito ad accordi commerciali, riadattate da due vecchie sarte lucane passate per caso dalle parti di Pistoia quando il gatto con gli stivali che non aveva mai avuto stivali buttò l’anello del potere dentro Monte Fato che non era un vulcano, e comunque nessun oplita spartano avrebbe mai insegnato a un vulcano a bruciare un anello perché gli anelli li mettevamo da un’altra parte e certo non lo saremmo andati a dire ai frombolieri della colchide arruolati dagli ateniesi per combattere gli scioperanti della Tyssen Krupp di Baader-Meinhof che non vuole il capitalismo e lo combatte con la citronella che ti spalmi sulle mani dopo aver maneggiato lo strutto con cui cospargi la teglia prima di fare la torta che poi mangerà Ciccio facendo incazzare Paperino che verrà consolato da Nonna Papera che un amico del fratello del cugino della sorella di Mario Capanna mi ha detto che se la faceva con Norman Osborn quando ancora si chiamava Green Goblin e scriveva i protocolli dei savi anziani di sion che anch’essi sono un falso storico ma non nei termini indicati dalla semiotica di matrice indoarianica, bensì nei termini della filosofia del linguaggio che studia quando ancora avevo ettanta ere sul groppone che la foto che vedi qui la feci da un davanzale della Carinzia in cui rosseggiavano i geranei insieme a Sandokan e Moana Pozzi quando…

  12. Scusami Luca, ma è evidente che Massimo Vaj ambisce perversamente alla censura, perché non ci riesce proprio a non offendere il proprio interlocutore, che trasforma invariabilmente in avversario… e come l’altra volta, sarà nuovamente accontentato (rimuovendo intanto la chiusura poco cortese del suo ultimo commento).

    • Luca Giudici says:

      E’ questo che lascia amareggiati. Io non avevo assolutamente nulla nei suoi confronti. Anzi, avendo vissuto il momento in prima persona poteva apportare un esperienza e un vissuto che completavano l’orizzonte di riferimento. Invece ha insultato da subito, come se fosse una questione personale (ma evidentemente per lui è così): Peccato.

      • El_Pinta says:

        Mi pare che la sua storia on-line lo confermi, visto che è stato cacciato da vari forum su cui si era fatto una buona reputazione come giullare e macchietta

  13. nick j.f. says:

    Ci hanno sempre truffato a noi a scuola: ci dicevano che Dante è un grande autore ma – impostori! – era solo un falsario: non è storicamente possibile che Lucifero abbia tre teste!! Maledetta scuola cattofasciocapitalista!
    Comunque, a parte questo, ho 24 anni e quegli anni non li ho vissuti, il ponte della Ghisolfa l’ho cercato su Google, per capire dov’é. Eppure questo racconto mi ha trasportato proprio lì, con quel tramonto che sembra l’unica vera giustizia sulla Terra: rende belle quelle reti, quella miseria, quel fumo delle macchine. Tutto questo è tremendamente “vero”. È tremendamente “vero” lo scorrere del tempo, da figlio a padre, condensato così bene in poche righe. Complimenti davvero.

  14. Ulisse Fiolo says:

    Caro Luca, mi pare proprio che (anche) con la prosa narrativa ci sai fare – eccome! Non c’è una mezza riga che non fili alla lettura, e tutta la topografia interiore si dispiega meglio di milioni di ‘riflessioni critiche’ – a chiarire dove porta quel treno: padre e figlio, nello stesso posto…
    (Cazzo c’entri poi ‘sta menata del ciclostile col cuore del racconto, non se ne ha proprio idea!)

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