Il mio senso dello scrivere

Beijing, 27-09-2010                                                                                                                                                                                                                           21:36

Il mio senso dello scrivere (dal mio ultimo libro Diaria di Bardo. Inedito e inaudito.)

Tutto ha preso una brutta piega: chi spiega più la piaga? Chi ancora è in grado di mettere il dito putrido d’inchiostro nella piaga imputridita di sozzura? Chi sa inoltrarsi nella cancrena paludosa, bagnarsi del vischioso catrame e saperne emergere alleggerito, contaminato ma incolpevole? Dove sei ragazzo stanco che osservi da uno spiraglio la tua città e ne intravedi la prossima distruzione e ne suggerisci miraggi di redenzione? Dove sei scrittore-profeta che con sottigliezza, disperazione, incanto, profondità, umorismo, facevi della tua arte un’arte indispensabile, una quotidiana imprescindibile necessità organica? Bere, mangiare, amare, leggere, allora si, poteva significare essere uomini. Chi sono oggi questi zampognari stonati che si millantano direttori d’orchestra? Appena alfabetizzati e credono che questo basti? Sono ingenui, inconsapevoli o scaltri profittatori del disastro sociale? In parole povere, in poche parole: parole vuote. Consunzioni neorealistiche prive di sradicamenti epifanici, teratologie pruriginose per ragazzini sadici, morbosi voyeurismi, intrattenimenti volgari, sceneggiature cinematografiche vendute come avanguardia. Non voglio saperne di quello che vedo. Chi sa raccontare quello che non vedo? Chi osa? Chiosa: la letteratura è piaga. La grande letteratura è stimmate. Epigoni, plagiari, seriali deuteragonisti. L’imitata opera è sempre limitata. Oltrepassare i limiti. Passare oltre. Varcare la frontiera. Sfrontati. Non cercare appartenenze ma appartenere alla ricerca. Totalmente. Salvatori di patrie galere imprigionano la salvezza dell’espatrio. Ci vuole sfratto per certe cose. L’abilità è avere padronanza nella labilità. Caracollare sul filo. Sfilare caracollando. Essere coscienti della propria incoscienza. Senza la congiunzione di questi presupposti o si è patetici esibizionisti o esacerbanti pedanti. Si trova il Senso laddove si cerca l’Insensato. E non c’è gloria, successo, trionfo. C’è solo perdizione nell’angosciosa vacuità del vivere, nel significato disumano dell’umana insignificanza. Battere il dente dove la lingua duole. Mordersi le labbra e bere il proprio sangue per sentirsi vivere attraverso la propria mortalità. Emanciparsi dalle mortificazioni dell’amicizia, dall’umiliazione della solitudine, dalle lusinghe artefatte dell’amore, dalle spire immobilizzanti della famiglia, dall’altezzosa indisponenza del proprio infimo arbitrio, dal paludoso dispotismo del potere, dal quotidiano squallido teatro del verminaio sociale, dall’idolatria di sé. Ombra. Io sono un’ombra. Intorno a me la mia zona d’ombra. Buio pesto. Pesto il buio. Cieco cammino. Una scala m’impone di scendere. Discendo dall’imposizione di uno scalo. Gradino dopo gradino. Degrado. A zero gradi azzero i gradi. Sono disertore di leva, militare di levasione. Più corro il rischio di raschiare il fondo più vado a fondo. Affondo. Schermaglia della salute. Mi libero finalmente. Mi libro finalmente. Leggero finalmente. Leggo finalmente.

Dario Falconi

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