Dimmi cosa c’entriamo noi con queste storie così
settembre 24, 2012 7 commenti
Dunque si riparte, e quando si riparte si è sempre un po’ arrugginiti. Durante quest’estate non siamo però stati proprio fermi, l’avete visto anche voi, però io mi sono arrugginito lo stesso perché, vedete, avevo già pronta questa recensione con cui ripartire, e inavvertitamente l’ho cancellata mentre cercavo di copiare il testo.
In questa recensione si parlava di questi due libri, che mi sono venuti incontro senza che fossi io ad andarli a cercare: uno è Un mucchio di giorni così (Quarup 2012) di Angelo Calvisi, l’altro Dimmi che c’entra l’uovo (Del Vecchio 2012) di Fabio Napoli.
Due libri molto diversi, dal punto di vista della lingua e dello stile, ma che si muovono sullo stesso piano inclinato su cui stanno scivolando questi nostri anni.
Calvisi srotola la sua storia per le strette vie genovesi, costruisce una struttura temporale dove il lettore si muove come su una scala irregolare (e anche qui non si può non pensare alla conformazione della città ligure), che va avanti e indietro negli anni. Apparentemente più lineare è invece l’approccio di Napoli, che non certo casualmente chiama il suo protagonista Roberto Milano e ambienta la sua storia a Roma: una capitale di cui, almeno fino alla svolta della storia, si vede ben poco, poiché risucchiata dal vortice di lavori precari che si devono fare per provare almeno a sopravvivere – una città che scorre per gran parte fuoricampo durante le corse in bicicletta a cui è costretto il protagonista per passare da un lavoro all’altro (da comparsa in film porno alle ripetizioni, per finire la sera a fare il barista).
In primo luogo, ad accomunare i due libri è pertanto questa sorta di andare a zonzo perenne dei personaggi (che ricorda quanto diceva Gilles Deleuze a proposito dei protagonisti dei film del neorealismo italiano), che sembrano agiti dagli eventi e dagli altri: nel libro di Calvisi il protagonista finisce spesso a rimorchio dell’amico Andrea, col quale dà oltretutto l’idea di non avere niente a che spartire se non il lavoro, mentre in quello di Napoli il movimento sembra procedere sempre per inerzia, anche quando i protagonisti s’illudono di avere preso il controllo sulle proprie vite che mettono a repentaglio per rapinare negozi.
Sono storie amputate, queste, che sembrano cedere da tutte le parti per la mancanza di un collante che le tenga unite (e quale chiave migliore di questa per rappresentare la generazione dei precari?), ma non sono storie di rese: forse di fallimenti, ma non di rese, perché almeno esplodono in un gesto liberatorio, in manifestazioni di violenza inattesa. In Un mucchio di giorni così questa esplosione giunge ancora più violenta, perché preparata dall’accumulo di soglie temporali che spingono affinché qualcosa ne salti fuori: e quel qualcosa è un’aggressione che riduce a un vegetale l’ex capo del personale del protagonista, che si “risveglia” davanti alla scena senza ricordarsi niente di ciò che è successo (verrà poi incolpato e si farà persino un po’ di carcere, finché una testimonianza, anch’essa improvvisa, lo riporterà fuori). In Dimmi che c’entra l’uovo il punto di rottura avviene invece durante un colloquio di lavoro in un fast food (e il titolo del libro è ripreso appunto da una domanda assurda riportata nel test somministrato ai candidati), quando il protagonista vomita davanti all’esaminatore il panino di cui doveva descrivere il gusto, prima di lanciarsi in un’esibizione che lascia esterefatti tutti quanti (compresi quelli che diventeranno poi due dei membri della “banda dei precari” che metterà su per fare le rapine).
Siamo quindi davanti a due gesti liberatori che troncano la catena dei giorni insignificanti, sacrificati in lavori ai quali i protagonisti non si sentono minimamente legati – e da questo punto di vista il titolo del libro di Calvisi è davvero significativo, con quel così nel finale che denuncia persino l’impossibilità di dare una definizione di un tempo che si trascina avanti senza prospettive. Gesti liberatori dietro ai quali si agitano le ombre dei genitori: di un padre morto, di cui il figlio va a ricercare tracce in Sardegna, in Un mucchio di giorni così; di una madre che si sente solo per telefono, perché il protagonista rimanda continuamente il momento in cui andare a trovarla, in Dimmi cosa c’entra l’uovo. I genitori non sono certo il grande rimosso, poiché si fanno sentire eccome anche nella loro assenza, ma loro sì che sembrano essersi arresi: perché sono morti senza essersi più fatti vedere, e per risarcimento lasciano possedimenti da amministrare (nel libro di Calvisi); o perché si accontentano delle bugie al telefono, di sentirsi dire quello che vorrebbero, che i figli in fondo stanno bene (nel libro di Napoli).
Due romanzi, dunque, che non si limitano a descrivere una società italiana ormai ridotta in macerie (simboliche, certo, ma anche qui quanti punti in comune con il dopo guerra e la sua narrazione che procedeva a strappi, «come si salta di pietra in pietra per attraversare un fiume» come ebbe a scrivere André Bazin a proposito di Paisà di Roberto Rossellini), che non si limitano a lamentare le ingiustizie subite, ma che cercano una via di fuga – certo, correndo il rischio di fallire, ma almeno scuotendoci da questa sorta di anestesia generalizzata che è come un’etichetta che ci hanno appiccicato addosso per troppo tempo.
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ciao, sono angelo e desidero ringraziare te e la rivista per l’attenzione nei confronti del mio libretto.
Ciao Angelo, il tuo libro merita attenzione, altroché; e il merito è soprattutto di Federico, che ci mi ha voluto incontrare apposta per darmene una copia perché mi ha detto che meritava d’esser letto… e aveva ragione 😉
Simone
Non ho ancora letto quello di Napoli (ma è nei piani), però anche a me Federico ha fatto il regalo di un bel consiglio. “Un mucchio di giorni così” merita.
Federico Vero Maestro Di Vita (scopri nomeccognòme)
Vero Maestro 😀
GL
vedo solo ora questo commento del gabrielli.