Lo sport delle parole

di Francesco Quaranta

Parlare con te mi ha ricordato Juventus-Bayern Monaco: io ci ho messo cuore e grinta, ma tu mi hai preso a pallonate e alla fine m’hai pure regalato la maglia.
Che poi, io ero venuto solo per scopare.
Esplicitare questa cruda intenzione, emblema dei modi che non digerisci, mi avrebbe forse garantito di essere vomitato fuori dalla tua vita e dalla tua dieta priva di carne. Perciò ho optato per un approccio più morbido. D’altronde lo sai meglio di me: sono Gemelli; pensiamo una cosa e ne facciamo un’altra, diamo degli appuntamenti a noi stessi e poi non ci presentiamo.
Il mio desiderio (chiamiamola attrazione diversamente platonica, per essere politicamente corretti), l’avrai letto da qualche parte nei movimenti incerti delle mie mani o nei miseri tentativi di articolare verbo finiti alti sopra la traversa. Invece di lanciarmi una scarpa in testa, però, hai scelto di indossarne un paio e cominciare il match con il sottoscritto.
La rosa di buoni argomenti da proporre per mostrarti chi sono, ripassata e allenata più volte nei giorni precedenti e fin sulla porta di casa tua, si è dimostrata vera e accorata. Onesta e genuina nella sua mediocrità.
Sezionando ogni singola frase che riuscissi a pronunciare, ne rompevi l’involucro per tastare e manipolare i pensieri che la animavano. Serena, con il sorriso: l’allegro chirurgo dai begli occhioni svegli. Tant’è che per un attimo ho pensato di poter trovare nella tua apparente sfoggia di superiorità il punto debole per passare in vantaggio. Un contropiede memorabile nella partita fuori casa. Ma l’unica palla a disposizione tra i miei piedi era una bugia.
La consapevolezza di essere il primo a dubitare del mio gioco ha esaltato la tua strategia, così naturale sebbene ponderata. Mi sono ritrovato vittima della fiacca di chi è appena uscito di corsa dall’adolescenza. Senza coprirsi bene, tra l’altro.
Hai anche regalato un rigore, offerto con generosa sbadataggine. L’occasione concreta di portare a casa un risultato minimo. Una concessione di carta bianca per confessare il mio animo più recondito e stupirti in qualche modo, interessarti più in profondità, piuttosto che come esempio di sindrome di Peter Pan da documentario.
Ho scelto di non tirarlo, quel rigore: avrei aggiunto soltanto parole a quel tuo mondo liquido di parole, di cui tu vedi così bene le stringhe e sai tirare i fili. Avresti palleggiato con le sillabe, facendo la veronica tra i miei sentimenti.
Non che tu non li abbia, dei sentimenti, non dico questo. Ma ammettilo: con me li hai lasciati in panchina.
Che poi, io le odio le metafore sul calcio e se sono impantanato in queste espressioni è perché sento il bisogno di ricordarti che sono un uomo. Sì, lo so, è tipico dei Gemelli fare qualcosa di dubbio e che detestano per dimostrare qualcos’altro, dubbio a sua volta.
E forse proprio per il bisogno di affermare la mia virilità, mi è balenato, nel circuito limbico, di rifilarti uno schiaffo su quelle labbra saccenti; seguito da un manrovescio mascolino al tuo sguardo attonito da cerbiatta. Se ho desistito, è perché in fondo ci tengo ancora alla corsa al Nobel per la Pace. E perché ti voglio bene. Era palese tra le righe del mio libro mal illustrato.
Lo so di non essere limpido e comprensibile, non tento di filtrare questo abisso torbido in cui si affossano relitti di azioni non andate in porto. È il congegno che attuo per misurare quanto qualcuno sia intenzionato a capirmi.
Nella discussione avevi pienamente ragione, non c’è voluto molto ad afferrarlo, ma non era quello che cercavo di strapparti. Non la ragione.
Volevo irrazionalità, emozione. Il litigio epurato da una semplice carezza, un moto inspiegabile che avrebbe maturato il nostro vero incontro. Agognavo uno scontro insensato, istintivo, una tempesta incurante di qualsiasi tesi da dimostrare. La tesi sarebbe stata che non avevamo alcuna motivazione di stare uno di fronte all’altra; se non che ci piace.
Purtroppo la mia armonia scomposta non trovava risonanza nel tuo Morse elegante e compunto. Cercavo molto più che amabile cordialità, cercavo una vena di sentimento per cominciare a scavare.
Parlare con te mi ha ricordato Juventus-Bayern Monaco: io ci ho messo cuore e grinta, ma tu mi hai preso a pallonate e alla fine m’hai pure regalato la maglia.
Ed è stato giusto così. Ho tanto da imparare e ho accolto la sconfitta con il sorriso, sollevato dal fatto che da perdere ci fosse ben poco. Tipo la Confederation’s Cup.

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